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Relazione tedesca della dott.ssa Regine Schröder – Milano – 7/10/2011

L’azione di adempimento ai sensi del §§ 42 comma 1 113 comma 5 del codice di procedura amministrativa tedesco federale (VwGO)

di Dr. Regine Schröder
Consigliere presso la Corte d’Appello amministrativa
del Land Nord Reno-Westfalia

Gentili Signore e Signori, cari Colleghe e Colleghi,

oggi vi illustrerò l’azione di adempimento. Al riguardo non potrò dire cose nuove ai Colleghi tedeschi, che di questa azione si occupano tutti i giorni. Per i partecipanti francesi e italiani la relazione potrebbe avere un diverso valore, il che comunque mi auguro, visto che i due ordinamenti processuali non prevedono un’azione di questo tipo. Darò inizio alla mia esposizione, richiamando le ragioni che hanno mosso il Legislatore tedesco a introdurre l’azione di adempimento fra le azioni previste dal codice di procedura amministrativa. Successivamente approfondirò il tema, concludendo, poi, la relazione con alcune osservazioni in materia di esecu-zione di una sentenza che abbia accertato l’obbligo di adempimento.

Dando uno sguardo al passato premetto che una disciplina generale dell’azione di adempimento si è avuta nella Repubblica federale con l’entrata in vigore del codice di procedura amministrativa nel 1960. Il fatto non integra, tuttavia, una peculiarità di questa azione, posto che, prima di questa data, si registrava in Germania uno stato di frammentazione del diritto processuale amministrativo. Sin dalla costitu-zione della giurisdizione amministrativa i singoli Länder avevano istituito Tribunali amministrativi indipendenti e una corrispondente disciplina processuale. Immedia-tamente dopo il periodo del nazionalsocialismo e nel quadro della tutela giurisdizio-nale amministrativa che fu istituita ebbe inizio un lungo processo di unificazione. La competenza per la disciplina del processo amministrativo fu assunta dalle forze di occupazione, che la esercitarono gradualmente con finalità unitarie.

Vorrei qui ricordare le norme introdotte nelle zone occupate dalle truppe americane e inglesi, perché è proprio con queste ultime che s’identificano i precedenti dell’azione di adempimento. Nelle aree di occupazione americana vigevano tra il 1946 e il 1947 le cosiddette leggi processuali amministrative per la Germania del Sud, che non prevedevano ancora alcuna autonoma azione di adempimento, limi-tandosi a stabilire che avverso il silenzio ovvero il diniego di un provvedimento fos-se ammissibile soltanto l’azione d’impugnazione. La sentenza di accoglimento, tut-tavia, e questa era la sua particolarità, pronunciava l’obbligo per l’Autorità ammini-strativa di emanare il richiesto provvedimento o comportamento. Nel caso che la causa non fosse matura per la sua definizione nel merito il Tribunale pronunciava una sentenza di obbligo alla stregua della quale restava aperta per l’Amministrazione un’area di apprezzamento, che trovava una formulazione allora alquanto imprecisa sul piano tecnico. Nella zona occupata dalle forze inglesi vigeva dal 1948 l’ordinanza militare n. 165, che conosceva già un tipo di azione assimilabi-le al’attuale azione di adempimento. Il suo § 24 prevedeva che un’azione diretta a conseguire il provvedimento amministrativo richiesto poteva essere avanzata quando il ricorrente fosse titolare di una pretesa al suo rilascio e l’Amministrazione l’avesse negato o avesse osservato il silenzio senza giusto motivo per due mesi.

Nel 1949 è entrata in vigore la Costituzione, il cui art. 74 ha attribuito la disciplina del processo amministrativo alla competenza concorrente della Repubblica federa-le, il che ha posto le premesse per una disciplina unitaria. Nondimeno sono dovuti trascorrere 11 anni ed è stato necessario un lungo e complicato iter legislativo per pervenire il 21 gennaio 1960 ad una disciplina federale comune. Da allora il § 42 del codice di procedura amministrativa è rimasto inalterato nella sua formulazione: “Con un ricorso può essere richiesto l’annullamento di un provvedimento ammini-strativo (azione d’impugnazione) ovvero richiesta la condanna al rilascio di un provvedimento amministrativo negato o sulla domanda del quale l’Amministrazione abbia serbato il silenzio”.

Quali sono stati, tuttavia, i motivi che hanno indotto il Legislatore ad associare nel-la Germania del dopoguerra un’azione di adempimento alla tradizionale azione d’impugnazione? Dagli atti preparatori del codice del processo amministrativo e, in particolare, nel progetto di legge del Governo del 1952 non emerge una chiara ri-sposta a questa domanda. Deve essere in ogni caso sottolineato che l’azione di adempimento integra l’oggetto dell’azione d’impugnazione e realizza il rafforza-mento della tutela nei confronti del pubblico Potere: Otto Bachof ne ha dato la for-mula più puntuale nella sua tesi per la libera docenza nel 1951: “Con questa azione la tutela del singolo nei confronti di un dominante Potere si è completata in modo compiuto”.

Lasciamo ora da parte questi riferimenti storici e rivolgiamo l’attenzione ai proble-mi che si profilano per l’istruttoria nel processo attivato con un’azione di adempi-mento, premettendo alcune osservazioni di carattere generale.

Mentre con l’impugnazione di un provvedimento amministrativo se ne può chiedere l’annullamento l’azione di adempimento è diretta a conseguire un provvedimento negato oppure quello sulla cui domanda l’Amministrazione abbia serbato il silenzio. Che cosa si debba intendere per provvedimento amministrativo non è peraltro di-sciplinato dal codice. Una definizione positiva si trova nel § 35 della legge sul pro-cedimento amministrativo. A tale stregua deve intendersi provvedimento ammini-strativo qualunque disposizione, decisione o altra statuizione, con i quali l’Amministrazione regoli una singola vicenda nel quadro del diritto pubblico e che sia direttamente produttiva di effetti giuridici verso l’esterno. Deve essere sottoli-neato che una pretesa a comportamenti, che non integrino un provvedimento am-ministrativo, è azionabile con l’azione generale diretta a conseguire un obbligo di prestazioni.

L’azione d’impugnazione e quella di adempimento non hanno in comune soltanto il fatto che involgono un provvedimento amministrativo. Il Legislatore ha previsto per entrambe particolari presupposti di ammissibilità e dunque oneri procedimen-tali comuni, che debbono essere assolti per consentire la definizione nel merito del-la vicenda in sede giurisdizionale. Per esempio l’azione è per norma ammissibile soltanto dopo aver proposto il cosiddetto ricorso gerarchico. In questo modo, prima che il Giudice possa pronunciarsi, spetta all’Amministrazione il potere di statuire nuovamente, riaprendo un procedimento amministrativo.

Nonostante le esistenti caratteristiche comuni non è esatto definire l’azione di adempimento come un riflesso speculare dell’azione d’impugnazione, essendo essa una particolare specie dell’azione generale diretta a conseguire una prestazione. Mentre nel processo d’impugnazione il Tribunale annulla direttamente con sentenza il provvedimento amministrativo avverso il quale è stato proposto il ricorso nel ca-so di una sentenza di accoglimento dell’azione di adempimento l’Amministrazione può essere soltanto condannata a porre in essere un determinato comportamento.

La lettera del § 42, 1° comma del codice di procedura amministrativa distingue due tipi di azione di adempimento. Quando il ricorrente contesta nel suo ricorso un di-niego oppostogli dall’Amministrazione di un provvedimento dallo stesso richiesto si parla di ricorso contro il diniego. In giurisprudenza si ritiene che questa azione sia diretta non soltanto ad ottenere il richiesto rilascio, ma comprenda anche l’annullamento del diniego impugnato. Nella prassi è perciò usuale che nel disposi-tivo di una sentenza che statuisca l’obbligo figuri anche l’annullamento del rifiuto di provvedere. Si parla invece di azione contro l’inattività ogni volta che l’Amministrazione non abbia dato alcuna risposta alla domanda avanzata da un cit-tadino. In questo caso il § 75 del codice prevede un’eccezione rispetto all’onere del-la proposizione previa di un ricorso gerarchico. L’azione è ammissibile quando sulla richiesta di rilascio di un provvedimento amministrativo non sia stata assunta alcu-na statuizione senza sufficiente motivo nel termine prescritto. L’azione non può es-sere proposta prima del decorso di tre mesi dall’avvenuta ricezione della domanda, a meno che per particolari circostanze del caso concreto non sia stabilito un termi-ne più breve.

Veniamo ora al tema della fondatezza dell’azione di adempimento. La norma da applicare è il § 113, 5° comma del codice di procedura, che si occupa del dispositi-vo della sentenza che pronunci un obbligo di adempimento e traccia il quadro di come debba essere accertata la sua fondatezza. La norma trova i suoi precedenti nell’ordinamento vigente durante l’occupazione militare e corrisponde a quanto previsto dal § 114, 4° comma del progetto di un processo amministrativo del 1952. Dall’entrata in vigore del codice di procedura amministrativa nel 1960 la norma è rimasta inalterata.

Il § 113, 5° comma del codice prevede due varianti in caso di accoglimento del ri-corso. In applicazione della prima parte della norma il Tribunale pronuncia l’obbligo dell’Amministrazione di dar corso al prescritto comportamento, nel che s’intende l’adozione del provvedimento amministrativo in questione ogni volta che il suo di-niego ovvero l’opposto silenzio siano illegittimi, il ricorrente sia stato inciso nei suoi diritti e la causa sia matura per la decisione. Secondo il § 113, 5° comma, nella sua seconda parte il Tribunale, ove la causa non sia matura per la decisione pronuncia l’obbligo di adottare il provvedimento nell’osservanza dei parametri di diritto indi-cati nella sentenza.

Con l’ausilio della suddetta distinzione tra cause mature per essere definite nel me-rito e cause che non lo siano il § 113, 5° comma distingue dunque tra due specie di decisioni di accoglimento. Da una parte ci sono quelle che si fondano su una prete-sa a base normativa vincolata e dall’altra quelle pertinenti una pretesa all’emanazione di una decisione esente da errori da parte di un’Amministrazione cui compete la statuizione finale. Con questa differenziazione è rispettata la divisione di competenze tra l’Amministrazione e i Tribunali e dunque il principio di divisione dei poteri.

Quando si può dire che una causa sia matura per la sua definizione nel merito? In sintesi si può affermare che tale connotazione sussista quando Il Tribunale è in gra-do di pronunciare una sentenza in ordine alla spettanza di un provvedimento am-ministrativo da emanare. Per una più puntuale parametrazione dell’una e dell’altra pendiamo in esame le ipotesi nelle quali la causa non è matura per la decisione. In linea di principio si tratta di quelle vicende nelle quali l’Amministrazione disponga ancora di un potere discrezionale ovvero possa statuire, fruendo comunque di un margine di apprezzamento ovvero ancora in sede di programmazione o pianifica-zione.

Nell’esposizione che segue tralascerò di esaminare tale ultima ipotesi, trattenen-domi brevemente sulla discrezionalità e sul margine di apprezzamento. Entrambi i concetti rappresentano un’area di apprezzamento riservata all’Amministrazione. La distinzione tra di loro può essere compresa, facendo riferimento all’usuale differen-ziazione in Germania tra la vicenda di fatto e gli effetti che discendono da una nor-ma giuridica. Come esempio per questa tipizzazione è utile la seguente disciplina: “Il permesso di costruire deve essere rilasciato quando la realizzazione dell’opera non sia preclusa da norme di diritto pubblico”. Soltanto nell’ipotesi che la fattispecie in fatto della norma assuma il suddetto significato viene in considerazione il rilascio del correlato provvedimento amministrativo. Sul piano degli effetti indotti dalla norma “Il permesso di costruire deve essere rilasciato” si comprende che, nel ri-corso di quei presupposti, deve essere assunta una determinata statuizione ammi-nistrativa. La vicenda si definisce dunque come attività amministrativa vincolata. Se invece la disposizione preveda un’area di apprezzamento si parla di discreziona-lità. Un esempio in materia di discrezionalità è il seguente: “Rispetto alla previsioni di un piano regolatore possono essere autorizzate delle deroghe, che sono espres-samente previste quanto alla loro natura e ambito di applicazione”. Non si tratta di discrezionalità invece, ma di un margine di apprezzamento quando la norma attri-buisca la finale decisione in ordine alla sussistenza degli elementi della fattispecie di fatto all’Amministrazione. Non è, tuttavia, frequente che una norma assegni all’Amministrazione la statuizione finale. Il problema si pone invece tipicamente nell’ipotesi di margini di apprezzamento, quando nella fattispecie normativa siano presenti dei concetti giuridici a contenuto indeterminato. Esempi di tali concetti so-no la necessità di un “pubblico interesse”, di una “necessità” o di un’”opportunità”. In ogni caso un concetto giuridico a contenuto indeterminato non integra di per sé un’area di apprezzamento. E’ vero invece proprio il contrario, posto che la loro fi-nale lettura e la correlata sussunzione di dati di fatto appartiene all’area tipica del lavoro del Giudice. Al riguardo è dall’interpretazione della disciplina della singola vicenda che si ricava se sia stato attribuito in via eccezionale all’Amministrazione un margine di apprezzamento. La Corte di Cassazione amministrativa riconosce l’esistenza di siffatte aree nel caso di valutazioni in materia di pubblici dipendenti, giudizi in materia di esami o di analoghe decisioni, valutazioni prognostiche con risvolti politici, decisioni in tema di pianificazione ovvero stime da parte di consu-lenti tecnici o di commissioni consultive.

Quanto esposto dovrebbe essere sufficiente per chiarire i concetti della discreziona-lità e dei margini di apprezzamento. Quando essi non si configurino il ricorso ha per oggetto un provvedimento amministrativo vincolato e la vicenda diviene matura per la definizione nel merito dopo che siano stati chiariti da parte del Tribunale i termini giuridici e di fatto della causa. Identica conclusione va tratta in via di ecce-zione quando, seppure l’Amministrazione sia titolare di una potestà discrezionale, il suo possibile esercizio si sia nel caso concreto talmente ridotto da rendere vincolato il rilascio del provvedimento richiesto, integrando quest’ultimo l’unica statuizione da assumere (si tratta della cosiddetta riduzione a zero della discrezionalità). Una siffatta riduzione può essere ad esempio ipotizzata quando il rilascio del richiesto provvedimento debba essere effettuato in applicazione del principio di pari tratta-mento. Il che vale in casi eccezionali anche nella diversa ipotesi in cui l’Amministrazione fruisca di un mero margine di apprezzamento.

Per l’individuazione degli indici che rendono una causa matura per la decisione nel merito deve essere sottolineato che il Tribunale è fondamentalmente tenuto a istruire la vicenda di causa; in altre parole il Tribunale deve accertare i presupposti di fatto e di diritto della pretesa. Il che vale anche nelle vicende nelle quali, in virtù dell’esistenza di un’area di apprezzamento, non ogni profilo sia suscettibile di esse-re puntualmente definito nel merito, posto che tutti gli altri presupposti della deci-sione devono essere compiutamente accertati. Una diversa gestione dell’istruttoria aprirebbe di fatto al Tribunale la possibilità di una restituzione della vicenda all’Amministrazione. Il che dopo l’istituzione dell’azione di adempimento è stato puntualmente precluso.

Si afferma in ogni caso che il Tribunale dovrebbe, nel ricorso di determinate circo-stanze, non dar corso ad un’esaustiva istruttoria della vicenda di causa, da affidarsi all’Amministrazione con una sentenza di mero obbligo. Si deve pensare a casi nei quali siano da istruire complesse vicende tecniche, se del caso con la partecipazio-ne di altre Autorità a ciò competenti o anche in quelle ipotesi nelle quali sia pre-scritto uno speciale procedimento amministrativo, che non sia stato ancora ultima-to. Con la pronuncia di una sentenza di mero obbligo il processo per il Tribunale si chiude e l’ulteriore definizione della vicenda spetta in via esclusiva all’Amministrazione. Tale successivo svolgimento del procedimento resta, tuttavia, governato ai sensi del § 113, 5° comma seconda parte dai parametri di diritto, che il Tribunale deve stabilire nella sentenza di obbligo. Se il procedimento, tuttavia, involga il solo obbligo di dar corso ad una istruttoria sui fatti di causa la finale sta-tuizione in merito spetterà all’Amministrazione. Peraltro, ove sopravvengano pro-blemi o dissensi fra coloro che siano parti di quel procedimento resta aperta la pos-sibilità di un nuovo ricorso al Tribunale dopo che l’Amministrazione si sia pronuncia-ta sulla pretesa avanzata in giudizio.

Lasciamo ora l’area astratta dei processi che siano o meno maturi per la decisione sulla pretesa per volgere l’attenzione sull’istruttoria della fondatezza o meno di un’azione di adempimento. In questa fase si è consolidata la prassi, pervero con-traria alla lettera del § 113, 5° comma del codice, di non effettuare alcuna istrutto-ria sull’illegittimità del diniego della pretesa avanzata. Ciò che va, infatti, accertato è se la pretesa del ricorrente avanzata in un determinato lasso temporale contro l’Amministrazione sia fondata ovvero se lo fosse stata e se non sia stata ancora soddisfatta.

In definitiva una pretesa al rilascio di un provvedimento amministrativo o di una statuizione legittima può fondarsi prima di tutto su una legge o in applicazione di una legge, su un diritto fondamentale, su una garanzia, su un contratto di diritto pubblico, su un provvedimento amministrativo o su atti che fondino la ridetta pre-tesa. Sono, quindi, da verificare singolarmente i cosiddetti presupposti formali della pretesa (termini processuali, contraddittorio con altre Amministrazioni) al pari dei presupposti in fatto della domanda.

Considerando che l’azione di adempimento è diretta a conseguire un provvedimen-to che non è stato rilasciato trova applicazione il principio che la data da individuare per la verifica dei presupposti dell’azione è quella dell’ultima discussione sulle istanze istruttorie ovvero, in caso non vi sia stata un’udienza, la data della senten-za. Eventuali sopravvenute novelle giuridiche sono rilevanti nel giudizio di cassa-zione. Pertanto il Tribunale può ordinariamente ordinare il rilascio del richiesto provvedimento amministrativo quando i presupposti della pretesa persistano alla data della sentenza. Il principio ora enunciato non si applica quando la norma da applicare preveda determinati riferimenti temporali. Esemplificativamente si pos-sono ricordare quelle vicende che necessariamente si svolgono in determinati lassi temporali (ammissione all’Università, speciali prestazioni sociali) oppure con de-terminate scadenze.

Ove il Tribunale abbia accertato la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa fa obbligo all’Amministrazione di rilasciare il richiesto provvedimento. Se alla pretesa si debba una risposta, che presupponga l’esercizio di una potestà discrezionale o comunque ove si profilino margini di apprezzamento deve essere accertato se in entrambe le ipotesi sia da emanare un solo provvedimento (nell’ipotesi che la discrezionalità o il margine di apprezzamento si siano ridotti a zero). Anche in questo caso deve essere emessa una sentenza che faccia obbligo del rilascio alla stregua del § 113, 5° comma, prima parte.

Nell’ipotesi che, sussistendo un’area di riserva discrezionale o comunque di apprez-zamento, la causa non sia matura per la decisione può essere emanata una sen-tenza di mero obbligo. Questa sentenza può essere, peraltro, pronunciata soltanto quando la pretesa del ricorrente non sia stata ancora soddisfatta. In questo quadro il Giudice amministrativo deve darsi carico del diniego di rilascio del provvedimento da parte dell’Amministrazione e, se detto provvedimento appaia legittimo, la pre-tesa del ricorrente alla pronuncia è ritenuta soddisfatta e il ricorso deve essere re-spinto. Quando si tratti di un apprezzamento discrezionale esente da errori il Tribu-nale deve applicare il § 114, 1° comma del codice e dar corso a un’istruttoria. Si deve, infatti, accertare che i confini della discrezionalità siano stati oltrepassati o se il potere discrezionale sia stato esercitato con modalità non conformi al fine da per-seguire. E’ da segnalare che l’Amministrazione può integrare la motivazione addot-ta anche durante il processo a norma del § 114, 2° comma del codice. Quando sus-sista un margine di apprezzamento l’istruttoria si svolge secondo la prassi corrente in giurisprudenza con la completa e metodologicamente corretta acquisizione dei dati di fatto, l’osservanza delle regole del procedimento e i parametri giuridici da applicare ovvero i comuni criteri di valutazione, il disconoscimento delle norme da applicare come pure l’influenza esercitata da valutazioni di fatto estranee alla ma-teria sulla quale decidere.

Nel caso che, pur in presenza di un provvedimento su base discrezionale da rite-nersi corretto, i suddetti principi non siano stati rettamente osservati l’opposto di-niego viene annullato e l’Amministrazione è condannata a reiterare una pronuncia, osservando i motivi in diritto enunciati nella motivazione della sentenza, che sono vincolanti in sede di riesame.

Quando il ricorrente abbia avanzato una domanda di adempimento e il Tribunale possa emettere la sola sentenza di obbligo, non essendo la causa matura per la decisone nel merito, il ricorso deve essere respinto. Il ricorrente soccombe quindi parzialmente, il che va valutato anche per quanto concerne le spese di lite a suo carico. Per offrire al ricorrente la possibilità di evitare una condanna a corrisponde-re le spese è nella prassi ritenuto che lo stesso sin dall’inizio abbia avanzato una sola richiesta di sentenza di obbligo.

Senza indulgere in dettagli intendo ora illustrare un’azione di adempimento che si discosta dalle altre per il fatto che compaiono nel giudizio non soltanto il ricorrente e l’Amministrazione, ma anche soggetti terzi che siano incisi dal ricorso. Da men-zionare per primi sono quei casi nei quali il ricorrente intenda procurarsi un van-taggio, che è stato assicurato a un terzo (per esempio il ricorrente vorrebbe essere promosso in luogo del concorrente prescelto oppure essere ammesso ad una mani-festazione). Con l’azione di adempimento si può inoltre richiedere il rilascio di un provvedimento nei confronti di un terzo. Un esempio è rappresentato dal ricorso diretto a conseguire un intervento contro un terzo. Un’azione di adempimento che si proponga questo fine si configura quando un cittadino richiede che l’Amministrazione proceda ad un controllo edilizio nei confronti del vicino, essendo egli persuaso che non siano state osservate le norme dello strumento urbanistico.

Al termine della mia relazione illustro ora il tema dell’esecuzione della sentenza che abbia accolto un’azione di adempimento. Come ho già detto in precedenza l’azione di adempimento è diretta a conseguire soltanto una sentenza che pronunci l’obbligo dell’Amministrazione di adottare un successivo provvedimento. Se l’Amministrazione non adempia l’ordine contenuto nel dispositivo della sentenza questo risultato può e deve essere raggiunto con la sua successiva esecuzione. Per conseguenza resta aperta al ricorrente la possibilità di richiedere l’esecuzione quando egli sostenga che, in sede di riedizione del provvedimento, non siano stati osservati i parametri in diritto indicati dal Tribunale. Questa opinione non è peraltro pacifica; secondo un diverso orientamento in tali casi si potrebbe soltanto ripropor-re una nuova azione in sede giurisdizionale contro l’Amministrazione. Lo stesso va-le per l’ipotesi che l’Amministrazione abbia emanato il richiesto provvedimento, nel caso contro il vicino in materia edilizia, ma successivamente rifiuti di darvi esecu-zione.

La disciplina dell’esecuzione è prevista al § 172 del codice, per il quale la compe-tenza in materia spetta al Tribunale in prima istanza.

Il Tribunale può a richiesta ordinare entro un termine all’Amministrazione, che si sottragga all’obbligo impostole dalla sentenza, di pagare una sanzione pecuniaria fino a € 10.000.00 e dopo il decorso del termine dar corso agli atti esecutivi. Il che può essere ripetuto. Secondo quanto prescritto dal § 172 sono escluse diverse mi-sure. Con questo strumento sanzionatorio l’Amministrazione dovrebbe essere in-dotta ad adempiere personalmente all’obbligo, ma alla giurisdizione è preclusa ogni intromissione nella sfera dell’Amministrazione. In particolare non è possibile dopo la statuizione dell’Amministrazione alcun intervento di natura sostitutiva (nel qua-dro di eventuali misure di controllo). Non posso sottacere comunque che l’area di applicazione del § 172 così come il problema se nel caso singolo siano ammissibili altre misure, che siano adottate per garantire un’effettiva tutela giurisdizionale so-no oggetto di vivaci discussioni in dottrina e in giurisprudenza.

Signore e Signori, molte grazie per la vostra attenzione.


Die Verpflichtungsklage
– §§ 42 Abs. 1, 2. Alternative, 113 Abs. 5 VwGO –

Dr. Regine Schröder
Richterin am Oberverwaltungsgericht NRW
(Vortrag auf dem Herbsttreffen der VERDIF am 7. Oktober 2011 in Mailand)

Hinweis für die Übersetzung: VwGO = Verwaltungsgerichtsordnung.

Meine Damen und Herren, liebe Kolleginnen und Kollegen!

Ich werde Ihnen heute die Verpflichtungsklage vorstellen. Dabei kann ich den deutschen Teilnehmern, die täglich mit dieser Klageart befasst sind, vielleicht nicht allzu viel Neues berichten. Für die französischen und italienischen Teilnehmer dürfte – ich hoffe es jedenfalls – anderes gelten, denn Ihre Verwaltungsprozessordnungen sehen eine Klage in dieser Gestalt nicht vor. Ich werde zunächst einen Überblick darüber geben, was den deutschen Gesetzgeber bewogen hat, die Verpflichtungsklage in den Katalog der Klagearten der Verwaltungsgerichtsordnung aufzunehmen. Im Anschluss werde ich Ihnen diese Klageart näher erläutern. Meinen Vortrag beschließen möchte ich mit einigen Bemerkungen zur Vollstreckung eines Verpflichtungsurteils.

Werfen wir also zunächst einen Blick in die Vergangenheit: Eine für ganz (West )Deutschland einheitliche Regelung der Verpflichtungsklage gab es erstmals mit Inkrafttreten der Verwaltungsgerichtsordnung im Jahre 1960. Das ist allerdings keine Besonderheit der Verpflichtungsklage, denn vor diesem Zeitpunkt herrschte in Deutschland auf dem Gebiet des gesamten Verwaltungsprozessrechts ein Zustand der Rechtszersplitterung. Seit den Anfängen der Verwaltungsgerichtsbarkeit hatten die einzelnen deutschen Länder selbstständig Verwaltungsgerichte errichtet und dementsprechend auch eigene Verfahrensvorschriften erlassen. Erst nach der Zeit des Nationalsozialismus, in der verwaltungsgerichtlicher Rechtsschutz ab- statt aufgebaut wurde, setzte eine langsame Entwicklung zur Vereinheitlichung ein. Die Zuständigkeit für verwaltungsprozessuale Regelungen lag seit dem Ende des zweiten Weltkrieges für das ihnen jeweils zugesprochene Gebiet bei den Besatzungsmächten. Zumindest insoweit entstanden also bereits weitgehend einheitliche Regelungen.

Hervorheben möchte ich die in der amerikanischen und britischen Besatzungszone geltenden Vorschriften, denn hier stoßen wir auf die Vorläufer der Verpflichtungsklage: In den Ländern der amerikanischen Besatzungszone galten die sogenannten süddeutschen Verwaltungsgerichtsgesetze aus den Jahren 1946 und 1947. Diese Gesetze kannten zwar noch keine Verpflichtungsklage als eigenständige Klageart. Sie sahen aber vor, dass gegen die Ablehnung oder das Unterlassen einer beantragten Amtshandlung die Anfechtungsklage zulässig sei. Das stattgebende Anfechtungsurteil – und das ist die Besonderheit – sprach in diesem Fall die Verpflichtung der Behörde aus, die beantragte Amtshandlung vorzunehmen. Fehlte es an der sogenannten Spruchreife der Sache, verblieb der Verwaltung also – hier zunächst einmal untechnisch formuliert – ein Entscheidungsspielraum, sprach das Gericht ein Bescheidungsurteil aus. Für die gesamte britische Besatzungszone galt die Militärregierungs-Verordnung Nr. 165 aus dem Jahr 1948. Diese kannte bereits eine der heutigen Verpflichtungsklage vergleichbare Klageart. § 24 sah vor: „Eine Klage auf Vornahme eines beantragten Verwaltungsaktes kann nur darauf gestützt werden, dass der Kläger einen Rechtsanspruch auf die Vornahme habe und dass die Verwaltungsbehörde den Antrag abgelehnt oder ohne zureichenden Grund innerhalb von zwei Monaten nicht beschieden habe.“

Im Jahre 1949 trat das Grundgesetz in Kraft. Dessen Art. 74 Nr. 1 wies die Regelung der Verfassung und des Verfahrens der Verwaltungsgerichtsbarkeit der konkurrierenden Gesetzgebung des Bundes zu. Damit waren die Weichen zugunsten einer einheitlichen Regelung gestellt. Gleichwohl sollten 11 Jahre vergehen und ein langwieriges Gesetzgebungsverfahren erforderlich sein, bis die Verwaltungsgerichtsordnung am 21. Januar 1960 als bundesrechtliche Regelung ausgefertigt wurde. Seitdem ist § 42 Abs. 1 VwGO bis zum heutigen Tage nicht geändert worden. Die Regelung lautet: Durch Klage kann die Aufhebung eines Verwaltungsakts (Anfechtungsklage) sowie die Verurteilung zum Erlass eines abgelehnten oder unterlassenen Verwaltungsakts (Verpflichtungsklage) begehrt werden.

Was aber waren die Motive der Gesetzgebungsorgane, im Nachkriegsdeutschland neben der traditionellen Anfechtungsklage nun auch eine Verpflichtungsklage in den Prozessordnungen zu verankern? Die Begründung zur Verwaltungsgerichtsordnung in dem maßgeblichen Regierungsentwurf aus dem Jahr 1952 geht auf diese Frage nicht ausdrücklich ein. Hier wird allerdings hervorgehoben, dass die Verpflichtungsklage das „Gegenstück zur Anfechtungsklage“ bilde und sie der Abrundung des Rechtsschutzes gegenüber der öffentlichen Gewalt diene. Deutlicher formulierte es Otto Bachof in seiner Habilitationsschrift aus dem Jahre 1951: „Erst damit ist der Rechtsschutz des Einzelnen gegenüber dem übermächtigen Staat vollkommen geworden.“

Tatsächlich lag nach dem Ende des zweiten Weltkrieges angesichts der Erfahrungen gravierender Rechtsschutzverkürzungen gegenüber der öffentlichen Gewalt unter dem nationalsozialistischen Regime ein besonderes Augenmerk darauf, den Schutz des Einzelnen gegenüber dem Staat zu stärken. Der Verwaltungsprozess, der sich zuvor im Wesentlichen auf die Kontrolle der Rechtmäßigkeit von Verwaltungshandeln beschränkt hatte, erfuhr eine entsprechende Wandlung: Ziel war es nun, dem Einzelnen und seinen subjektiven Rechten umfassenden Rechtsschutz zu garantieren. Der Kläger lieferte nicht mehr lediglich den Anstoß zu einer Überprüfung einer Verwaltungsmaßnahme. Er stand vielmehr – ähnlich wie im ordentlichen Prozess – der Gegenseite, d.h. der Verwaltung, gleichberechtigt gegenüber. Zur Verteidigung seiner subjektiven Rechte gegenüber der Verwaltung gehörte nun auch die aktive Durchsetzung von Ansprüchen. Um dies zu ermöglichen, wurden die Verwaltungsgerichte befähigt, der Verwaltung wie jedem Einzelnen Verpflichtungen aufzuerlegen. Dies entspricht den Vorgaben des Art. 19 Abs. 4 des Grundgesetzes, wonach jedem, der durch die öffentliche Gewalt in seinen Rechten verletzt wird, der Rechtsweg offensteht.

*

Belassen wir es bei diesem historischen Überblick und wenden uns den Fragen zu, die sich bei der Prüfung einer Verpflichtungsklage stellen. Vorwegschicken möchte ich einige allgemeine Bemerkungen:

Während mit der Anfechtungsklage die Aufhebung eines Verwaltungsakts begehrt werden kann, richtet sich die Verpflichtungsklage auf den Erlass eines abgelehnten oder unterlassenen Verwaltungsakts. Was genau unter einem Verwaltungsakt zu verstehen ist, regelt die VwGO selbst nicht. Eine Legaldefinition findet sich in § 35 Satz 1 Verwaltungsverfahrensgesetz. Danach ist ein Verwaltungsakt jede Verfügung, Entscheidung oder andere hoheitliche Maßnahme, die eine Behörde zur Regelung eines Einzelfalls auf dem Gebiet des öffentlichen Rechts trifft und die auf unmittelbare Rechtswirkung nach Außen gerichtet ist. Hervorzuheben ist, dass ein Anspruch auf sonstige Amtshandlungen, die keinen Verwaltungsakt darstellen, mit der allgemeinen Leistungsklage geltend zu machen ist.

Anfechtungs- und Verpflichtungsklage haben nicht nur gemein, dass sie sich auf einen Verwaltungsakt beziehen. Der Gesetzgeber hat auch für beide Klagearten übereinstimmende besondere Zulässigkeitsvoraussetzungen vorgesehen, also verfahrensrechtliche Hürden, die überwunden werden müssen, um überhaupt eine richterliche Prüfung des Falls in der Sache zu ermöglichen. Beispielsweise ist die Klage im Regelfall nur nach Durchführung des sogenannten Widerspruchsverfahrens zulässig. Danach ist, bevor der Richter mit der Angelegenheit befasst wird, die Entscheidung der Verwaltung noch einmal in einem behördlichen Vorverfahren zu überprüfen.

Trotz der bestehenden Gemeinsamkeiten ist es aber nicht ganz zutreffend, die Verpflichtungsklage als Spiegelbild der Anfechtungsklage zu bezeichnen. Denn anders als die Anfechtungsklage ist sie keine Gestaltungs-, sondern eine besondere Art der Leistungsklage. Während das Gericht im Anfechtungsprozess den Verwaltungsakt unmittelbar durch den Urteilsausspruch aufhebt, weist es bei einer stattgebenden Entscheidung im Verpflichtungsprozess lediglich die Behörde zu einem bestimmten Verhalten an.

Ausgehend vom Wortlaut des § 42 Abs. 1 VwGO lassen sich zwei Varianten der Verpflichtungsklage unterscheiden: Wendet sich der Bürger mit seiner Klage dagegen, dass die Behörde den Erlass eines von ihm beantragten Verwaltungsaktes abgelehnt hat, spricht man von der Versagungsgegenklage. In der Rechtsprechung wird davon ausgegangen, dass diese Klage nicht nur auf den Erlass eines Verwaltungsaktes gerichtet ist, sondern zugleich die Aufhebung der ablehnenden Entscheidung mit einschließt. In der Praxis ist es dementsprechend gebräuchlich, die ablehnende Entscheidung der Behörde im Tenor eines Verpflichtungsurteils aufzuheben. Von einer Untätigkeitsklage spricht man, wenn die Behörde den Antrag eines Bürgers auf Vornahme eines Verwaltungsaktes nicht beschieden hat. Für diesen Fall regelt § 75 VwGO eine Ausnahme von dem zuvor erwähnten Erfordernis eines behördlichen Vorverfahrens. Die Klage ist danach zulässig, wenn über einen Antrag auf Vornahme eines Verwaltungsakts ohne zureichenden Grund in angemessener Frist sachlich nicht entschieden worden ist. Die Klage kann nicht vor Ablauf von drei Monaten seit dem Antrag erhoben werden, außer wenn wegen besonderer Umstände des Falles eine kürzere Frist geboten ist.

*

Kommen wir zur Begründetheit der Verpflichtungsklage. Die maßgebliche Rechtsnorm ist § 113 Abs. 5 VwGO. Sie befasst sich mit dem Urteilstenor der Verpflichtungsklage und steckt damit zugleich den Rahmen ihrer Begründetheitsprüfung ab. Die Vorschrift hat ebenfalls Vorbilder im Besatzungsrecht und entspricht dem Grunde nach § 114 Abs. 4 des Entwurfs einer Verwaltungsgerichtsordnung aus dem Jahre 1952. Seit Erlass der Verwaltungsgerichtsordnung im Jahre 1960 ist die Regelung nicht geändert worden.

§ 113 Abs. 5 VwGO sieht für stattgebende Urteile zwei Varianten vor: Nach Satz 1 spricht das Gericht die Verpflichtung der Verwaltungsbehörde aus, die beantragte Amtshandlung – gemeint ist der Verwaltungsakt – vorzunehmen, soweit die Ablehnung oder Unterlassung des Verwaltungsakts rechtswidrig und der Kläger dadurch in seinen Rechten verletzt ist und die Sache spruchreif ist. Gemäß § 113 Abs. 5 Satz 2 VwGO spricht das Verwaltungsgericht bei fehlender Spruchreife die Verpflichtung aus, den Kläger unter Beachtung der Rechtsauffassung des Gerichts zu bescheiden (sogenanntes Bescheidungsurteil).

Mit Hilfe des Merkmals der „Spruchreife“ unterscheidet § 113 Abs. 5 VwGO also zwischen zwei Arten stattgebender gerichtlicher Entscheidungen. Auf der einen Seite sind das Entscheidungen über rechtlich voll determinierte Ansprüche und auf der anderen Seite solche über den Anspruch auf fehlerfreie Entscheidungsfindung bei einer der Verwaltung zustehenden Letztentscheidungsbefugnis. Mit dieser Differenzierung wird der Kompetenzverteilung zwischen der Verwaltung und den Gerichten und mithin dem Grundsatz der Gewaltenteilung Rechnung getragen.

Wann aber ist eine Sache spruchreif? Vereinfacht lässt sich sagen: Spruchreife bedeutet, dass das Verwaltungsgericht zu einer abschließenden Entscheidung über den Verwaltungsakt in der Lage ist. Für eine präzisere Abgrenzung zwischen Spruchreife und mangelnder Spruchreife nehmen wir zunächst die Konstellationen in den Blick, in denen es regelmäßig an der Spruchreife fehlt: Das sind im Grundsatz Entscheidungen, bei denen die Behörde noch über Ermessen, über einen Beurteilungsspielraum oder einen Planungsspielraum verfügt.

Die Fallgruppe des Planungsspielraums werde ich im Rahmen meines Vortrags vernachlässigen. Zu den Begriffen des Ermessens und des Beurteilungsspielraums möchte ich dagegen einige kurze Erläuterungen einschieben: Beide Begriffe beschreiben einen Entscheidungsspielraum der Behörde. Die Differenzierung zwischen ihnen ist nur verständlich, wenn die in Deutschland gebräuchliche Unterscheidung zwischen der Tatbestands- und der Rechtsfolgenseite einer Norm berücksichtigt wird. Als Beispiel für diese Unterscheidung möge die folgende Regelung dienen: „Die Baugenehmigung ist zu erteilen, wenn dem Vorhaben öffentlich-rechtliche Vorschriften nicht entgegenstehen“. Nur wenn die Voraussetzungen des Normtatbestandes („wenn dem Vorhaben öffentlich-rechtliche Vorschriften nicht entgegenstehen“) gegeben sind, kommt der Erlass des Verwaltungsakts überhaupt in Betracht. Auf der Rechtsfolgenseite der Norm („die Baugenehmigung ist zu erteilen“) ist geregelt, ob die Erfüllung des Tatbestandes zwingend eine bestimmte behördliche Maßnahme nach sich zieht. In unserem Beispiel („die Baugenehmigung ist zu erteilen“) ist das der Fall. Das bezeichnet man als gebundenes Verwaltungshandeln. Sieht die Norm dagegen auf der Rechtsfolgenseite einen Entscheidungsspielraum vor, spricht man von Ermessen. Ein Beispiel für eine Ermessensregelung ist etwa die Folgende: „Von den Festsetzungen des Bebauungsplans können solche Ausnahmen zugelassen werden, die in dem Bebauungsplan nach Art und Umfang ausdrücklich vorgesehen sind.“

Nicht um Ermessen, sondern um einen Beurteilungsspielraum handelt es sich dagegen, wenn eine Norm die Letztentscheidung über die Frage, ob eines ihrer Tatbestandselemente erfüllt ist, der Verwaltung zuweist. Es kommt allerdings selten vor, dass eine Norm die Letztentscheidung ausdrücklich der Behörde vorbehält. Typischerweise stellt sich die Frage nach dem Vorliegen eines Beurteilungsspielraums bei der Verwendung unbestimmter Rechtsbegriffe im Tatbestand der Norm. Beispiele für unbestimmte Rechtsbegriffe sind etwa das Erfordernis eines „öffentlichen Interesses“, eines „Bedarfs“ oder der „Zweckmäßigkeit“. Allerdings ist ein unbestimmter Rechtsbegriff kein taugliches Indiz für einen Beurteilungsspielraum. Das Gegenteil ist der Fall, denn die abschließende Interpretation unbestimmter Rechtsbegriffe und die Subsumtion von Sachverhalten hierunter gehört gerade zum typischen Aufgabenbereich des Richters. Es ist daher durch Auslegung der Regelung im Einzelfall zu ermitteln, ob der Behörde ausnahmsweise ein Beurteilungsspielraum einräumt ist. Das Bundesverwaltungsgericht geht etwa in den folgenden Bereichen von Beurteilungsspielräumen aus: Bei beamtenrechtlichen Beurteilungen, Prüfungsentscheidungen, prüfungsähnlichen Entscheidungen, prognostischen Einschätzungen mit politischem Einschlag, planerisch gestaltenden Entscheidungen sowie Entscheidungen, die sachverständigen oder pluralistisch besetzten Gremien anvertraut sind.

Das soll als Hintergrundinformation zu den Begriffen des Ermessens und des Beurteilungsspielraums genügen. Fehlt es an derartigen Entscheidungsspielräumen, ist Gegenstand der Klage also ein gebundener Verwaltungsakt ohne Beurteilungsspielraum, ist eine Sache nach Klärung sämlicher rechtlicher und tatsächlicher Fragen durch das Gericht spruchreif. Spruchreife liegt ausnahmsweise auch dann vor, wenn der Behörde zwar an sich Ermessen eröffnet ist, dieses Ermessen aber im konkreten Fall dahin reduziert ist, dass der begehrte Verwaltungsakt erlassen werden muss, weil dies die einzige rechtmäßige Entscheidung ist (sogenannte Ermessensreduzierung auf Null). Eine solche Reduzierung auf Null ist beispielsweise anzunehmen, wenn die Gewährung des begehrten Verwaltungsakts aus Gründen der Gleichbehandlung geboten ist. Auch Beurteilungsspielräume können in Ausnahmefällen dergestalt reduziert sein.

Abschließend ist zur Klärung des Merkmals der Spruchreife hervorzuheben, dass das Verwaltungsgericht grundsätzlich verpflichtet ist, die Sache spruchreif zu machen. Anders ausgedrückt: Das Verwaltungsgericht hat – soweit seine Kompetenz reicht – sämtliche Anspruchsvoraussetzungen rechtlich und tatsächlich zu klären. Es hat also auch in Angelegenheiten, die wegen eines Entscheidungsspielraums der Behörde nicht in jeder Hinsicht spruchreif zu machen sind, die übrigen Entscheidungsvoraussetzungen abschließend zu untersuchen. Eine andere Sachbehandlung würde dem Gericht faktisch die Möglichkeit einer Zurückverweisung an die Verwaltung eröffnen. Dies war nach der Entstehungsgeschichte der Norm aber gerade nicht gewollt.

Es wird allerdings auch vertreten, dass das Gericht unter bestimmten Umständen die vollständige Sachverhaltsaufklärung ausnahmsweise nicht selbst vornehmen muss, sondern dies der Behörde in einem Bescheidungsurteil aufgeben darf. Zu denken ist hier etwa an Fälle, in denen noch komplexe technische Sachverhalte, ggf. unter Beteiligung anderer Fachbehörden, zu klären sind oder in denen ein besonders ausgestaltetes behördliches Verfahren vorgeschrieben ist, das bislang nicht durchgeführt wurde. Für das Gericht ist das Verfahren mit dem Erlass des Bescheidungsurteils beendet; die Fortführung der Angelegenheit obliegt allein der Behörde. Diese ist dabei zwar nach § 113 Abs. 5 Satz 2 VwGO an die Rechtsauffassung des Gerichts gebunden, die in den Entscheidungsgründen des Bescheidungsurteils ihren Ausdruck findet. Geht es aber beispielsweise um die konkrete Durchführung einer durch das Urteil aufgegebenen Sachverhaltsermittlung, liegt die Entscheidungshoheit nun wieder bei der Behörde. Hiermit im Zusammenhang auftretende Fragen und Unstimmigkeiten zwischen den Verfahrensbeteiligten sind erst nach Ergehen der erneuten behördlichen Entscheidung über den Anspruch einer gerichtlichen Überprüfung zugänglich.

Wir verlassen nun den recht abstrakten Bereich der Spruchreife und vollziehen die richterliche Begründetheitsprüfung der Verpflichtungsklage nach. Hier hat es sich in der Praxis – entgegen dem Wortlaut des § 113 Abs. 5 VwGO – für den Regelfall durchgesetzt, nicht die Rechtswidrigkeit der Ablehnung des geltend gemachten Anspruchs zu überprüfen. Es ist vielmehr zu untersuchen, ob dem Kläger der Anspruch im maßgeblichen Zeitpunkt gegen den Beklagten zusteht bzw. zugestanden hat und ob dieser Anspruch noch nicht erfüllt worden ist.

Im Einzelnen: Ein Anspruch auf Erlass eines Verwaltungsakts oder ermessensfehlerfreie Entscheidung kann sich vor allem aus einem Gesetz, aufgrund eines Gesetzes, aus einem Grundrecht, aus einer Zusicherung, aus öffentlich-rechtlichem Vertrag, aus einem sonstigen Verwaltungsakt oder aus sonstigen anspruchsbegründenden Rechtsakten ergeben. Zu prüfen sind sodann im Einzelnen die sogenannten formellen Anspruchsvoraussetzungen (etwa Antragsfristen, Mitwirkung anderer Behörden) sowie die materiellen Tatbestandsvoraussetzungen der jeweiligen Anspruchsgrundlage.

Da mit der Verpflichtungsklage ein noch zu erfüllender Leistungsanspruch geltend gemacht wird, gilt der Grundsatz, dass der maßgebliche Zeitpunkt, in dem die Voraussetzungen der Anspruchsgrundlage vorliegen müssen, derjenige der letzten mündlichen Verhandlung der Tatsacheninstanz(en) bzw. bei Fehlen einer mündlichen Verhandlung der Entscheidungszeitpunkt ist; Änderungen der Rechtslage während der Revisionsinstanz sind zu berücksichtigen. Das Gericht darf also in der Regel nur dann zum Erlass des begehrten Verwaltungsakts verpflichten, wenn die Anspruchsvoraussetzungen im Zeitpunkt der letzten mündlichen Verhandlung noch vorliegen. Der zuvor beschriebene Grundsatz gilt nicht, wenn sich aus dem zugrundeliegenden materiellen Recht besondere zeitliche Vorgaben herleiten lassen. Als Beispiele sind hier zu nennen: Regelungen, die an Voraussetzungen anknüpfen, die zu bestimmten Zeitpunkten gegeben sein müssen (Zulassung zum Studium, bestimmte Sozialleistungen) oder Stichtagsregelungen.

Hat das Gericht das Vorliegen der formellen Anspruchsvoraussetzungen sowie sämtlicher materieller Tatbestandsvoraussetzungen der Anspruchsnorm festgestellt, verpflichtet es die Behörde bei Spruchreife zum Erlass des begehrten Verwaltungsaktes. Steht der Anspruch grundsätzlich im Ermessen der Behörde oder ist ein Beurteilungsspielraum gegeben, ist an dieser Stelle zu prüfen, ob das Ermessen bzw. der Beurteilungsspielraum auf Null reduziert ist. Ist das der Fall, ist ebenfalls ein Verpflichtungsurteil nach § 113 Abs. 5 Satz 1 VwGO auszusprechen.

Lässt sich die Angelegenheit aufgrund eines bestehenden Beurteilungs- oder Ermessensspielraums nicht spruchreif machen, kommt lediglich ein Bescheidungsurteil in Betracht. Ein solches Urteil kann aber nur ergehen, wenn der Anspruch des Klägers auf Bescheidung noch nicht erfüllt worden ist. Der Verwaltungsrichter hat jetzt – sofern vorhanden – eine vorhergehende ablehnende Entscheidung der Behörde in den Blick zu nehmen. Beruht diese Entscheidung bereits auf einer fehlerfreien Abwägung, so ist der Anspruch des Klägers auf Bescheidung erloschen und die Klage abzuweisen. Ob eine ermessensfehlerfreie Abwägung vorliegt, hat das Verwaltungsgericht anhand der Vorgaben des § 114 Satz 1 VwGO zu prüfen. Danach ist zu untersuchen, ob die gesetzlichen Grenzen des Ermessens überschritten sind oder von dem Ermessen in einer dem Zweck der Ermächtigung nicht entsprechenden Weise Gebrauch gemacht worden ist. Zu beachten ist dabei, dass die Behörde nach § 114 Satz 2 VwGO auch noch während des Prozesses ihre Ermessenserwägungen ergänzen kann. Bei einem Beurteilungsspielraum werden nach in der Rechtsprechung gebräuchlicher Formulierung die vollständige und methodengerechte Erfassung des Sachverhalts, die Einhaltung der Verfahrensregeln und der rechtlichen Bewertungsgrundsätze oder -maßstäbe, die Verkennung des anzuwendenden Rechts sowie der Einfluss sachfremder Erwägungen geprüft.

Fehlt es an einer fehlerfreien Entscheidung der Behörde über das Begehren des Klägers, wird die Behörde unter Aufhebung der ablehnenden Entscheidung verpflichtet, unter Beachtung der Rechtsauffassung des Gerichts erneut zu entscheiden. Die in den Entscheidungsgründen zum Ausdruck kommende Rechtsauffassung des Gerichts ist – wie bereits erwähnt – für die Behörde bindend.

Hat der Kläger einen Verpflichtungsantrag gestellt und kann das Verwaltungsgericht mangels Spruchreife nur ein Bescheidungsurteil erlassen, ist die Klage im Übrigen abzuweisen. Der Kläger unterliegt also teilweise, was auch bei der Kostenentscheidung zu seinen Lasten zu berücksichtigen ist. Um dem Kläger die Möglichkeit zu geben, eine solche (teilweise) negative Kostenentscheidung zu vermeiden, wird es in der Praxis für zulässig gehalten, dass er von vorneherein nur einen Bescheidungsantrag stellt.

Ohne in die Details zu gehen, möchte ich auf eine besondere Konstellation der Verpflichtungsklage hinweisen: Es kommt vor, dass nicht lediglich Kläger und beklagte Behörde, sondern auch Dritte von der Klage betroffen sind. Zu erwähnen sind zunächst die Fälle, in denen der Kläger eine Begünstigung für sich in Anspruch nehmen möchte, die einem anderen gewährt wurde (Beispiel: der Kläger möchte anstelle des ausgewählten Konkurrenten befördert oder zu einer Veranstaltung zugelassen werden). Mit der Verpflichtungsklage kann aber darüber hinaus der Erlass eines Verwaltungsaktes an einen Dritten erstrebt werden. Ein Beispiel ist die Klage auf ordnungsbehördliches Einschreiten gegen einen Dritten. Eine Verpflichtungsklage mit dieser Zielsetzung liegt etwa vor, wenn ein Bürger die Verpflichtung der Behörde zum bauaufsichtsrechtlichen Einschreiten gegen seinen Nachbarn begehrt, weil er der Auffassung ist, dass dieser baurechtliche Vorschriften nicht eingehalten hat.

*

Ich komme nun am Ende meines Vortrages zur Vollstreckung des Verpflichtungsurteils. Wie ich bereits eingangs erwähnt habe, ist die Verpflichtungsklage nur auf den Erlass eines Urteils gerichtet, das die Anordnung zu einem späteren Verhalten der Behörde ausspricht. Wird die Behörde entgegen der im Urteilstenor ausgesprochenen Anordnung nicht tätig, kann – und muss – dies im Wege der Vollstreckung erzwungen werden. Ebenso soll dem Kläger die Möglichkeit der Vollstreckung offenstehen, wenn er meint, die Behörde habe auf ein Bescheidungsurteil bei der Neubescheidung die Rechtsauffassung des Gerichts eben nicht beachtet. Diese Auffassung ist allerdings nicht unumstritten; nach anderer Ansicht kann er in diesen Fällen lediglich erneut im Klagewege gegen die Behörde vorgehen. Gleiches gilt für die Konstellation, dass die Behörde zwar den begehrten Verwaltungsakt – etwa die vom Kläger begehrte bauaufsichtsrechtliche Verfügung gegen einen Dritten – erlässt, sich aber in der Folge weigert, diese zwangsweise durchzusetzen.

Die maßgebliche Regelung für die Vollstreckung von Verpflichtungsurteilen ist § 172 VwGO. Danach liegt die Vollstreckung in der Hand des Gerichts des ersten Rechtszuges. Es kann auf Antrag unter Fristsetzung gegen die Behörde, die der ihr im Urteil auferlegten Verpflichtung nicht nachkommt, ein Zwangsgeld bis zehntausend Euro durch Beschluss androhen, nach fruchtlosem Fristablauf festsetzen und von Amts wegen vollstrecken. Dies kann wiederholt geschehen. Nach dem Wortlaut des § 172 VwGO sind andere Zwangsmaßnahmen ausgeschlossen. Durch das Beugemittel des Zwangsgeldes soll die Behörde angehalten werden, der Verpflichtung persönlich nachzukommen; der Rechtsprechung ist es ausgehend davon verwehrt, in die Sphäre der Verwaltung überzugreifen. Insbesondere kann danach die Entscheidung der Behörde nicht im Wege einer Ersatzvornahme (etwa im Wege von Aufsichtsmaßnahmen) herbeigeführt werden. Ich möchte Ihnen allerdings nicht vorenthalten, dass der Anwendungsbereich des § 172 VwGO und in diesem Zusammenhang auch die Frage, ob im Einzelfall nicht gleichwohl andere Zwangsmaßnahmen zulässig oder sogar aus Gründen der Gewährleistung effektiven Rechtsschutzes geboten sein können, Gegenstand fortwährender Diskussionen in Literatur und Rechtsprechung ist.

Meine Damen und Herren, ich danke Ihnen für Ihre Aufmerksamkeit.

Relazione francese – Milano – 7/10/2011

L’ACTION EN JUSTICE VISANT A OBTENIR UN ACTE OU LE POUVOIR D’INJONCTION

En Europe continentale, deux conceptions de la justice administrative se sont

longtemps distinguées, de la fin de la dernière guerre mondiale à nos jours :

L’une, longtemps hégémonique et traditionnelle, à savoir le système français qui

a longtemps influencé les pays qui ont adopté la formule d’un Conseil d’Etat.

L’autre, le système allemand, construit en rupture absolue avec la période

précédant 1945, fait figure d’avant – garde dans beaucoup de domaines.

D’ailleurs, traduire sans hésitation le terme allemand de « Verpflichtungsklage »

n’est pas évident. Pour contourner la difficulté, je me mets à la place du juge

ainsi saisi et il m’apparaît qu’il se voit sollicité d’adresser une injonction à

l’administration.

*
**

La justice administrative française a été fondée, il y a plus d’un siècle, sur l’idée

qu’elle devait vérifier le bon fonctionnement juridique de l’administration : on

parlait de la fonction pédagogique du juge qui regardait seulement si

l’administration s’est comportée régulièrement ou non.

On ne s’intéressait pas vraiment au requérant : le Conseil d’Etat n’a jamais

hésité à examiner le recours d’une personne décédée.

Le recours essentiel, dit en excès de pouvoir, était un procès fait à un acte. Le

requérant, dans cette optique, n’est qu’une pièce secondaire : on est loin de la

protection du droit subjectif, pierre angulaire du système allemand.

Si cette présentation est aujourd’hui largement excessive, elle imprègne encore

la justice administrative française, même si son déclin est amorcé.

Une double influence a joué pour modifier cet état de fait.

D’abord, l’immédiat après-guerre a mis en évidence le droit des personnes à la

protection juridictionnelle contre l’administration. Cette exigence, si elle n’est pas

directement contenue dans les deux constitutions que la France s’est donnée en

1946 d’abord, puis en 1958 ensuite, a été rappelée par le Conseil Constitutionnel

qui, en 1996, s’est fondé, pour consacrer ce droit, sur l’article 16 de la

Déclaration des droits de l’homme de 1789. (9 avril 1996).

Vous savez que mon pays aime rappeler au monde la valeur universelle de cette

Déclaration….

Cet article dispose : « toute société dans laquelle la garantie des Droits n’est pas

assurée… n’a point de Constitution ».

Et, en 1998 (C.E. 29 juillet 1998, Syndicat des avocats de France), le Conseil

d’Etat a contrôlé la légalité d’un règlement relatif à la procédure devant les

juridictions administratives au regard d’une part du principe à valeur

constitutionnelle du droit d’exercer un recours juridictionnel et d’autre part du

droit d’accès à un juge consacré par la Convention européenne des droits de

l’homme.

Deux remarques sur cette décision : il s’agit d’un acte réglementaire en

l’occurrence et non d’une décision individuelle. Dans cette circonstance,

l’approche traditionnelle à la française de procès fait à un acte, se justifie

pleinement. Comment pourrait-on avancer la notion de droit subjectif ?

Est-ce que la conception « objective » de procès fait à un acte ne doit-elle pas

perdurer dans ces cas ?

L’autre remarque concerne la deuxième influence qui a incontestablement fait

évoluer la position française classique : c’est bien sûr l’apport de la jurisprudence

de la Cour européenne des droits de l’homme de Strasbourg.

(Je rappelle aussi que la France n’a autorisé le recours individuel à la Cour européenne qu’au début des années 1980).

*
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On peut donc dire, qu’en l’espace d’un demi – siècle, le système français, comme

ceux des autres pays naguère fortement influencés par notre approche, a évolué

vers une conception plus subjectiviste à l’instar de celle en vigueur en

Allemagne.

Outre l’état d’esprit général que j’ai essayé de décrire, quelques innovations

procédurales ont également contribué à renverser la tendance.

*
**

Je citerai en exergue le pouvoir d’injonction (loi du 8 février 1995) et le pouvoir

d’astreinte (loi du 16 juillet 1980) certes antérieur mais peu utilisé avant 1995.

La loi de 1995 est la plus importante :

Il se trouve – et les plus anciens dans cette salle s’en souviendront – que j’avais

déjà présenté une intervention sur ce thème il y a plus d’une décennie.

C’était, sauf erreur de ma part, à Trieste… Et j’avais parlé à l’époque de véritable

Révolution pour le système français.

En effet, il faut se rappeler que le pouvoir d’injonction était jusqu’en 1995

interdit au juge administratif français.

La conception française de la séparation des pouvoirs interdisait au juge

d’intervenir dans les attributions de l’Administration.
Ce principe d’interdiction remonte à la Révolution française et j’ai longtemps

rédigé des jugements qui expliquaient : « considérant qu’il n’entre pas dans les

pouvoirs du juge administratif d’adresser des injonctions à une autorité

administrative… » ce qui sous-entendait que c’était possible vis-à-vis d’un

particulier.

Puis vint la loi de 1995. Elle est importante mais reste restrictive. Ce n’est que

pour faire exécuter un jugement que le juge dispose dorénavant de ce pouvoir.

Il faut cependant distinguer selon que la compétence est liée ou non.

Dans le premier cas, le jugement implique nécessairement que soit prise pour

l’administration une mesure d’exécution dans un sens déterminé. C’est le cas le

plus voisin du pouvoir du juge allemand. Si la compétence est discrétionnaire,

l’administration doit prendre une nouvelle décision dans un délai déterminé.

Une astreinte, c’est-à-dire le paiement d’une somme d’argent fixée par jour de

retard, peut accompagner l’injonction.

Le rôle du juge est ainsi profondément modifié : il doit apprécier la situation

juridique du requérant au jour où il statue pour ce qui concerne l’injonction.

(Il faut rappeler que le juge de l’excès de pouvoir se situe fictivement au jour de

l’édiction de l’acte contesté qui peut être antérieur de plusieurs années. Quand le

juge enjoint, il se place par contre au jour du jugement ; cette loi de 1995

trouble par ricochet un autre grand principe du contentieux administratif :

l’opposition classique entre l’excès de pouvoir – qui peut aboutir à l’annulation de

l’acte et le plein contentieux- (dans le cadre duquel le juge peut modifier,

remplacer la décision attaquée en examinant les circonstances au moment où il

décide et non pas à la date d’édiction ce l’acte. Mais nous laisserons ce débat de

côté.)

*
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Il me paraît également nécessaire de citer une autre loi très importante du 30

juin 2000, relative au référé devant les juridictions administratives.

Cette loi – que nous avons également déjà examinée sous l’angle des procédures

d’urgence – modifie en profondeur les rapports entre l’administration et le

requérant.

Il faut là – aussi rappeler qu’en France la simple saisine du juge ne suffit pas

comme en Allemagne à suspendre l’exécution d’une décision administrative.

L’administration dispose de ce que l’on appelle le « privilège du préalable », c’est

– à – dire que sa décision peut être appliquée immédiatement même en cas de

recours contentieux sauf si, par exception, le requérant demande et obtient du

juge la suspension de ladite décision, ce qui n’est pas automatique.

*
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Cette loi a été rendue nécessaire pour une autre raison : comme les anciens

pouvoirs du juge administratif français pour prononcer du sursis à exécution

étaient restreints, beaucoup de justiciables s’adressaient au juge civil qui pouvait

enjoindre en cas d’urgence.

La saisine du juge civil est possible en cas de « voie de fait », c’est-à-dire quand

l’administration prend une décision manifestement hors de sa compétence.

Cette circonstance n’était pas très claire et ouvrait la porte à beaucoup

d’interprétation : la nouvelle loi donne enfin au juge administratif des pouvoirs

analogues à ceux du juge civil.

Deux précisions s’imposent :

– dans le cas du référé-suspension, le juge peut enjoindre à l’administration

de ne pas exécuter sa décision s’il y a urgence et qu’il existe un doute

sérieux quant à la légalité de la décision.
– Dans le cas du référé-liberté, le juge peut « ordonner toute mesure

nécessaire » si une atteinte grave et manifestement illégale est portée à

une liberté fondamentale. Il appartient au juge de déterminer ce qu’est

une liberté fondamentale.

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Enfin, je ne citerai que pour mémoire les référés relatifs aux contrats de

fournitures, de travaux ou de prestations de services conclus par

l’administration. Ces contrats, lorsqu’ils sont régis par le droit public, ce qui est

traditionnellement très fréquent en France, peuvent faire l’objet, en application

du droit communautaire, d’injonctions adressées par le juge à l’administration en

cas de méconnaissance de ses obligations de publicité ou de mise en

concurrence.

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Tous ces changements se font avec le plein accord du juge qui lui-même, dans

ses décisions, a pris bonne note de l’aspiration nouvelle des justiciables à plus

d’effectivité.

Par exemple, il introduit plus souvent dans les motifs de sa décision des

directives d’exécution les plus propres à éclairer les conséquences que

l’administration devra tirer d’une annulation.

Il arrive aussi qu’en dehors de toute demande d’injonction, le juge insère dans

son jugement des motifs ainsi revêtus de l’autorité de la chose jugée.
(C.E. 29/06/2001 Vassilikiotis).

*
**

Ainsi donc, par toute une série de procédés (lois, jurisprudence adaptée), le juge

administratif français, le plus réticent à l’origine pour adresser une injonction à

l’administration, a, partiellement, comblé son retard sur le juge allemand,

précurseur en la matière.

Ceci montre qu’aucun pays ne saurait rester à l’écart de la demande croissante

d’une justice efficiente au sens que les juges de Strasbourg donnent à ce

concept.

Relazione del prof. avv. Aldo Travi – Milano – 7/10/2011

Alla ricerca dell’azione di adempimento

1. Da alcuni decenni è stata prospettata da più parti l’introduzione di un’azione di adempimento anche nel processo amministrativo italiano. Queste proposte sembravano destinate ad essere recepite nel codice del processo amministrativo ed in effetti, in coerenza anche con una specifica previsione della legge di delega, il testo elaborato dall’apposita Commissione costituita dal Consiglio di Stato contemplava espressamente un’azione di adempimento: si trattava di un’azione accessoria a quella di annullamento e richiedeva perciò come condizione ordinaria l’annullamento del provvedimento di diniego. Nel testo finale del codice l’articolo che prevedeva l’azione di adempimento fu cassato, per ragioni non ancora del tutto chiarite, e nella Relazione al codice si conclude che tale azione è rimasta esclusa dal nostro processo amministrativo . Tuttavia il dibattito non è esaurito; sulla base di vari elementi testuali e sistematici una parte della dottrina ha sostenuto che l’azione di adempimento dovrebbe comunque ammettersi e di recente questa lettura è stata accolta, sul piano delle affermazioni di principio, in due sentenze dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (le sentenze n. 3 e n. 15 del 2011) e, soprattutto, ha trovato applicazione in una sentenza del Tar Lombardia (sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428).
La discussione è dunque aperta . In questa sede non esaminerò gli argomenti dell’una e dell’altra parte, ricavati dalle disposizioni del codice del processo amministrativo: il tema è già stato ampiamente illustrato in altre occasioni ed è inutile ripetere argomenti ormai noti. Personalmente ho espresso i dubbi sulla esperibilità, in via generale, di un’azione del genere, sulla base del testo del codice oggi vigente, e non ho ragione di mutare posizione. Tuttavia l’intensità della discussione nulla toglie alla convinzione comune che l’azione di adempimento segnerebbe un progresso importante nella nostra giustizia amministrativa. Proprio per questo motivo, dopo le sentenze dell’adunanza plenaria e quella del Tar Lombardia, si deve acquisire consapevolezza delle ragioni e delle condizioni per un’azione di adempimento che sia veramente utile per la tutela del cittadino: l’azione di adempimento sollecita oggi un’analisi giuridica, e non puramente di politica legislativa. Fra l’altro, come cercherò di spiegare, questa analisi può contribuire anche alla discussione in corso, perché consente di apprezzare meglio le opzioni di fondo che ne sono all’origine.
La presenza di illustri ospiti stranieri mi induce a dare atto innanzi tutto della situazione del processo amministrativo italiano e del suo progressivo avvicinamento ad un’azione di adempimento. Successivamente accennerò ad alcuni problemi di fondo, che a mio parere richiedono una soluzione meditata se si voglia perseguire in modo costruttivo la prospettiva di un’azione di adempimento.

2. E’ opinione diffusa che il nuovo assetto del processo amministrativo nell’Europa continentale sia caratterizzato dal superamento di una tutela incentrata sull’azione di annullamento . Anche nel processo amministrativo italiano questo superamento è in atto; tuttavia gli istituti che in passato, già prima del codice del 2010, lo hanno segnato e che in passato erano sembrati la punta avanzata del modello italiano, oggi, se inquadrati in una prospettiva più generale, dimostrano elementi sempre più evidenti di inadeguatezza, se non addirittura margini di contraddizione. Il codice li ha recepiti in termini pressoché immutati e così ha perpetuato anche i limiti precedenti.
a) Primo punto: l’effetto rinnovatorio della sentenza di annullamento.
In Italia l’azione per l’annullamento del provvedimento amministrativo si caratterizza pacificamente per effetti ulteriori rispetto alla eliminazione dell’atto: si ritiene infatti che la sentenza di annullamento condizioni anche l’attività amministrativa dell’amministrazione successiva alla sentenza. E’ il c.d. vincolo conformativo della sentenza: esso comporta che all’amministrazione sia preclusa, nel caso di rinnovazione del procedimento, la ripetizione del vizio accertato nella sentenza stessa. Se l’amministrazione riproduce comunque tale vizio, non si verifica soltanto una duplicazione del vizio precedente, ma si verifica una violazione della sentenza; per il caso di violazione della sentenza amministrativa in Italia è ammesso, da quasi tre quarti di secolo, un giudizio di esecuzione, il giudizio di ottemperanza, nel quale il giudice amministrativo esercita direttamente o attraverso un commissario poteri sostitutivi rispetto all’amministrazione. L’esecuzione tipica del processo amministrativo italiano è una esecuzione di ordine sostitutivo (non è un’esecuzione ‘indiretta’, perseguìta attraverso la comminatoria di sanzioni nei confronti dell’autorità inadempiente ); questo carattere non subisce deroghe neppure in presenza di un’attività discrezionale dell’amministrazione e ciò rappresenta indubbiamente un punto di forza.
La sentenza di annullamento determina quindi un vincolo preciso sull’attività amministrativa successiva. Nello stesso tempo, però, deve essere chiaro che non produce un esito corrispondente a quello di un’azione di adempimento: l’effetto rinnovatorio stabilisce che cosa l’amministrazione non debba fare, ed ha perciò una portata tipicamente negativa, mentre l’azione di adempimento dovrebbe imporre all’amministrazione che cosa fare, operando cioè in positivo e trasformando il successivo potere amministrativo in una mera attività esecutiva. La distinzione è fondamentale: altro è il risultato di una sentenza che annulli il diniego di un permesso di costruire, magari anche per vizi sostanziali, altro è il risultato di una sentenza che ordini all’amministrazione di rilasciare il permesso di costruire. Nel primo caso l’amministrazione può esercitare ancora il potere, negando nuovamente il permesso di costruire, seppur per ragioni diverse da quelle del primo diniego; nel secondo caso l’amministrazione può solo rilasciare il permesso richiesto dal cittadino.
La differenza sostanziale fra i due modelli non è superata neppure se si considerano unitariamente il processo di cognizione e il giudizio di ottemperanza, così come nel processo civile vale per la sentenza di condanna e l’esecuzione forzata. Infatti la giurisprudenza italiana ha respinto la tesi, pur sostenuta in passato da autorevole dottrina, secondo cui ogni questione insorta successivamente alla sentenza di annullamento avrebbe dovuto essere demandata al giudizio di ottemperanza: la giurisprudenza ha ancorato l’esperibilità del giudizio di ottemperanza alla violazione della sentenza . In altre parole, il ricorso per l’ottemperanza nel diritto italiano è assimilabile a un’azione di adempimento, ma l’esperibilità di tale azione è subordinata a condizioni molto strette, quasi in una logica di eccezionalità. Di conseguenza anche la sommatoria dell’azione di annullamento e del ricorso per ottemperanza non comporta oggi risultati equivalenti a quelli dell’azione di adempimento; anzi non evita neppure il rischio di una serie indefinita di sentenze di annullamento e di successivi provvedimenti negativi dell’amministrazione.
Una situazione del genere appare di dubbia compatibilità con i principi costituzionali sulla garanzia della tutela giurisdizionale. Il tema delle condizioni di esperibilità del giudizio di ottemperanza identifica oggi un elemento critico per la tutela del cittadino anche nella prospettiva che qui interessa. E questo profilo è rimasto irrisolto, purtroppo, anche nel recente codice del processo amministrativo.
b) Secondo punto: la tutela cautelare nei confronti di provvedimenti negativi.
In Italia la tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi dell’amministrazione ha assunto negli ultimi trent’anni contenuti più ampi di quelli propri dell’azione di annullamento. Si ammette infatti che nei confronti di provvedimenti negativi il giudice amministrativo, in sede cautelare, possa adottare qualsiasi misura necessaria per tutelare l’interesse del cittadino alla sentenza: può anche consentire interinalmente l’attività preclusa dal provvedimento negativo, o può ordinare all’amministrazione di ammetterla in attesa della sentenza. Non interessa qui la discussione sulla compatibilità di questa soluzione con il criterio fondamentale della strumentalità della tutela cautelare rispetto alla pronuncia di merito: è sufficiente ricordare che la linea più avanzata è stata recepita anche dal legislatore, già con la riforma del processo amministrativo dell’anno 2000.
Una tutela cautelare così estesa garantisce più efficacemente dal rischio che la durata del processo possa sacrificare l’interesse del ricorrente alla sentenza. Tuttavia si delinea, a questa stregua, anche una contraddizione di fondo, perché in concreto il cittadino può ottenere in sede cautelare utilità maggiori di quelle che può conseguire dalla sentenza che accolga l’impugnazione del provvedimento. Si confronti l’ammissione con riserva, disposta in sede cautelare alla classe successiva di un ciclo scolastico, con l’annullamento del giudizio di non ammissione alla classe successiva, che è compatibile con un nuovo giudizio negativo. Con la sentenza cadono gli effetti della misura cautelare; ciò può comportare però (e comporta in molti casi) la perdita dei benefici acquisiti interinalmente in sede cautelare.
A questa contraddizione si è cercato di ovviare istituendo il confronto fra misura cautelare ed esito del giudizio di ottemperanza: il giudizio di ottemperanza può anche comportare, come si è appena visto, una sostituzione del giudice o di un suo commissario all’amministrazione nell’emanazione di un provvedimento. Abbiano rilevato, però, come la prospettiva di un giudizio amministrativo bifasico, costituito insieme dalla fase di cognizione e dall’ottemperanza, non sia realistica, alla stregua della giurisprudenza prevalente. L’ordinanza cautelare nel giudizio di cognizione va dunque confrontata inevitabilmente con la sentenza che conclude tale giudizio.
In questo modo, però, in un sistema che ammetta in via generale solo l’azione di annullamento, la contraddizione appare insuperabile.
c) Terzo punto: l’azione nei confronti del silenzio dell’amministrazione.
E’ pacifico che il processo amministrativo italiano ammetta già oggi, in ipotesi particolari, un’azione di adempimento. Queste ipotesi corrispondono ad alcuni casi in cui è controverso se si tratti di azione di adempimento a tutela di interessi legittimi, o invece di azione di condanna a tutela di diritti soggettivi (si pensi al giudizio sull’accesso – art. 116 c.p.a.), e a un caso più importante e coinvolgente, che è quello del giudizio sul silenzio (art.31 c.p.a.). In quest’ultimo caso, se lo chiede la parte ricorrente, il giudice amministrativo può imporre all’amministrazione un comportamento determinato, in particolare quando accerti che la domanda del cittadino, su cui l’amministrazione non ha provveduto, avrebbe dovuto essere accolta.
E’ evidente la contraddizione fra ammettere un’azione di adempimento nel caso del silenzio e non consentirla invece nel caso di un provvedimento negativo. Paradossalmente il cittadino finisce col trovarsi in una situazione processuale più favorevole se l’amministrazione non abbia risposto alla sua istanza; se poi, in pendenza del giudizio, l’amministrazione adotta un provvedimento negativo, il cittadino perde comunque la possibilità di un’azione di adempimento (cfr. art. 117, comma 5, c.p.a.).
Nello stesso tempo il giudizio sul silenzio testimonia come l’ambito dell’accertamento nel processo amministrativo non sia determinato necessariamente o rigidamente dal provvedimento impugnato. L’estensione dell’accertamento alla fondatezza della pretesa sostanziale del cittadino non viola nessun principio istituzionale.
d) Le contraddizioni che emergono alla luce dei tre elementi che ho appena illustrato verrebbero invece superate se si ammettesse in via generale l’azione di adempimento. Per questa ragione, l’introduzione di un’azione di adempimento non costituisce una mera opzione di politica legislativa, opportuna magari anche per diminuire il ‘gap’ rispetto a sistemi stranieri, ma appare necessaria anche per recuperare coerenza nel nostro processo amministrativo.

3. L’azione di adempimento nella dottrina italiana è stata considerata soprattutto nella logica della estensione dei poteri decisori del giudice: come cercherò di spiegare nel mio intervento, in realtà in questo modo si finisce col confinare il suo rilievo e non si colgono le implicazioni più importanti. Ad ogni modo, dato che la tematica dell’azione di adempimento viene risolta in genere nella tipologia delle sentenze nel processo amministrativo, ritengo utile soffermarmi un attimo anche su questo profilo.
Il diritto processuale italiano, soprattutto quello civile (quello amministrativo segue a ruota, ma con qualche ritardo), si ispira da quasi un secolo all’insegnamento di Giovanni Chiovenda e alla sua fondamentale teorizzazione dei caratteri dell’azione giurisdizionale. In base a questo insegnamento l’azione è strumento a tutela della situazione soggettiva; ciò che spetta a un cittadino secondo il diritto sostanziale, se non viene conseguito spontaneamente, deve poter essere assegnato a quel cittadino dal giudice. La garanzia giurisdizionale non è a sé stante, e non rappresenta neppure il punto d’origine per la creazione del diritto sostanziale (come invece era, per esempio, nel processo formulare romano), ma va modellata sulla situazione soggettiva. Questa prospettiva ha determinato, nel processo civile, un progressivo superamento della rigidità nell’assetto delle azioni e delle sentenze: l’azione è fondamentalmente l’attuazione del diritto soggettivo attraverso lo strumento del processo e in un contesto del genere la distinzione fra le azioni svolge un’utilità principalmente descrittiva.
A questa conclusione, nel processo amministrativo italiano è stata opposta la specificità dell’interesse legittimo, intesa come categoria soggettiva diversa e inconfondibile rispetto al diritto soggettivo. Nelle sistematiche più comuni, l’interesse legittimo si caratterizza, a differenza del diritto soggettivo, per il fatto di esprimere la relazione giuridica di un cittadino con il c.d. potere amministrativo: rispetto al potere dell’amministrazione il cittadino non è titolare di un diritto, ma è titolare di un interesse legittimo. In questo modo il cittadino che aspira a conseguire un’utilità dall’amministrazione (si pensi al cittadino che chiede un’autorizzazione commerciale, un permesso di costruire, o che partecipa a un concorso o a una gara per un appalto pubblico) deve sempre transitare attraverso la mediazione necessaria del provvedimento amministrativo; solo nel caso estremo rappresentato dal giudizio di ottemperanza, e cioè quando l’amministrazione si ostini a violare la sentenza amministrativa, questa regola generale ammette una deroga.
Su questo tema, quello del livello di ‘necessarietà’ del potere amministrativo, l’azione di adempimento introduce prospettive nuove. Come si è già ricordato, nel caso dell’azione di annullamento, il provvedimento illegittimo è annullato, ma il potere amministrativo sopravvive, fatto salvo soltanto il divieto per l’amministrazione di ripetere l’illegittimità già accertata nella sentenza. Invece l’azione di adempimento può comportare un superamento del potere amministrativo, perché il giudice, ove ne sussistano le condizioni di diritto sostanziale, può accertare che al cittadino spetta il rilascio di un provvedimento positivo. L’attività successiva dell’amministrazione, di esecuzione della sentenza, non può essere considerata esercizio di potere, perché la sentenza assorbe i profili più caratteristici del potere amministrativo, rappresentati dalla sua capacità di decidere come, quando e a favore di chi distribuire utilità e risorse. In questo senso, chi sostiene che già oggi sia possibile in via generale un’azione di adempimento nel nostro processo amministrativo dà rilievo alla circostanza che il codice del processo amministrativo, nel trattare della sentenza, non contempla più la clausola di salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione, contenuta in precedenza nell’art. 45 del regolamento di procedura del 1907 e nell’art. 26 della legge istitutiva dei Tar (cfr. art. 34 c.p.a.).
Una dottrina processualcivilista afferma che proprio per questa ragione l’azione di adempimento è un’azione di condanna (e questo viene ritenuto un argomento ulteriore per ammetterla già oggi, sulla base dell’art.30 cod.proc.amm.) e coerentemente dall’esperibilità di un’azione di condanna deduce che la distinzione generale fra interesse legittimo e diritto soggettivo non avrebbe più un carattere decisivo. Infatti, almeno in molti casi, la pretesa giudica del cittadino è pretesa a un particolare provvedimento amministrativo, in forza direttamente della legge o anche del concreto svolgimento del procedimento. Pertanto in questi casi il cittadino sarebbe titolare nei confronti dell’amministrazione di una pretesa riconosciuta dal diritto sostanziale, qualificata per un risultato specifico, e in base ai principi illustrati da Chiovenda non si dovrebbe escludere la possibilità di una tutela adeguata. Una tutela adeguata, ovviamente, non potrebbe essere di tipo annullatorio, perché non sarebbe garantita altrimenti una componente importante della pretesa giuridica.
Questa lettura aiuta a cogliere alcuni profili significativi per l’azione di adempimento: la sua coerenza con il quadro sostanziale, l’irriducibilità nell’azione di annullamento, le implicazioni rispetto alla tematica delle situazioni soggettive. Nello stesso tempo, sottolinea ulteriormente il profilo rappresentato dall’esaurimento del potere amministrativo: infatti a una condanna, per definizione, non sopravvive alcuna posizione di potere giuridico. Inoltre esprime la consapevolezza che l’azione di adempimento presupponga un’attività di accertamento del giudice, proprio come si verifica normalmente nella condanna civile, ed è questo il punto sul quale a mio parere è necessaria la riflessione più attenta.
Infatti un problema di fondo del processo amministrativo italiano è rappresentato dall’accertamento del giudice amministrativo e questo problema, che è generale, risulta ancora più importante rispetto a un’azione di adempimento. Infatti, nel caso dell’azione di adempimento, l’accertamento, se non si può esaurire nella verifica di un profilo di illegittimità dell’atto e deve spingersi fino alla verifica della fondatezza della pretesa del cittadino alla stregua dell’ordinamento, a maggior ragione richiede una cognizione piena della pretesa.
Il giudizio amministrativo ha come oggetto una pretesa giuridica del cittadino. A questi fini, il giudice amministrativo deve poter accertare tutti gli elementi della pretesa che siano di rilevanza giuridica. Rispetto a una sentenza di annullamento, la cui utilità è innanzi tutto cassatoria, questi aspetti sono già di per sé importanti; essi però diventano decisivi rispetto alla pronuncia di adempimento, perché essa definisce in modo puntuale e definitivo il rapporto fra il cittadino e l’amministrazione. Altrimenti l’azione di adempimento rischia di produrre un esito inutile o addirittura ingiusto, perché sarebbe determinata da un accertamento e da una valutazione dei fatti operati dall’amministrazione in modo insoddisfacente o addirittura parziale . In questo modo l’esigenza di fondo, di assicurare un rapporto più corretto fra il cittadino e l’amministrazione, rimarrebbe inattuata.
Oggi nel dibattito sull’azione di adempimento questo aspetto sembra complessivamente trascurato. Al centro appare soprattutto la preoccupazione di estendere i poteri decisori del giudice. In realtà una prospettiva incentrata sui poteri decisori risulta inadeguata. Preliminare è invece un assetto più ampio dei poteri di cognizione del giudice.

4. Una ‘civilizzazione’ dell’azione di adempimento richiede quindi che la cognizione del giudice abbia tutta l’ampiezza necessaria per consentire, sul piano istituzionale, che la sentenza possa essere ‘giusta’. Pertanto il giudice amministrativo deve poter conoscere ed accertare tutti i profili dell’azione amministrativa che siano rilevanti da un punto di vista giuridico.
Da questo punto di vista, mi pare che vadano riconosciuti innanzi tutto tre corollari.
In primo luogo l’accertamento deve poter riguardare tutti i fatti, storici o materiali, rilevanti per l’azione amministrativa. L’accertamento dei fatti, nel nostro ordinamento, non è mai oggetto di riserva all’amministrazione: di conseguenza, il giudice, quando un fatto sia controverso, deve poterlo conoscere. Riservare all’amministrazione la ricostruzione dei fatti equivale ad amputare di una componente fondamentale il sindacato di legittimità, dato che la legge ancora sempre il potere amministrativo a condizioni specifiche di fatto. D’altra parte la terzietà del giudice, oggi richiesta anche dall’art.111 Cost., è incompatibile con l’assegnazione di un peso preferenziale all’accertamento dei fatti compiuto dall’amministrazione.
Ciò comporta anche che al giudice amministrativa deve disporre di mezzi di prova adeguati per la conoscenza dei fatti. Purtroppo da questo punto di vista il codice del processo amministrativo non ha rappresentato sempre un avanzamento: infatti alcune disposizioni, come quella sulla limitazione della testimonianza (art.63, comma 3, c.p.a.), sono irragionevolmente limitative.
In secondo luogo la valutazione dei fatti, per quanto concerne la loro qualificazione per profili di ordine tecnico, di norma non è riservata all’amministrazione: quindi, se sia controversa la valutazione del fatto compiuta dall’amministrazione, il giudice deve poter procedere a una valutazione autonoma (si pensi agli indici di anomalia dell’offerta in una gara d’appalto, alla gravità dell’infrazione ai fini della esclusione dei requisiti generali per i contratti pubblici, ma anche alla ragionevolezza del termine ai fini dell’annullamento d’ufficio, alla gravità di un’infermità ai fini della dispensa dal servizio, ecc.). Questa conclusione si riallaccia all’osservazione più generale che di fronte ai c.d. concetti giuridici indeterminati, o alle c.d. clausole generali, non vige alcuna riserva istituzionale di potere a favore dell’amministrazione: la loro applicazione non è esercizio di discrezionalità amministrativa. Fra l’altro proprio in questi ultimi anni un indirizzo meditato della Cassazione ha ammesso che la contestazione dell’applicazione di clausole generali costituisca questione deducibile con ricorso per cassazione . A maggior ragione, pertanto, deve escludersi una ragione istituzionale che impedisca la cognizione del giudice amministrativo.
Purtroppo anche per questo profilo il codice del processo amministrativo risulta insoddisfacente. Mi riferisco particolarmente alla disposizione (che, peraltro, lo stesso Consiglio di Stato sta interpretando con molta larghezza) che ha limitato la consulenza tecnica a casi eccezionali ed ha invece enfatizzato il ricorso del giudice alla verificazione amministrativa (art.63, comma 5, c.p.a.). Si tratta di una delle previsioni più deludenti della recente riforma.
In terzo luogo ritengo che, più in generale, sia necessaria una maggiore prudenza a riconoscere spazi di discrezionalità amministrativa. L’assimilazione dei concetti giuridici indeterminati alla discrezionalità amministrativa, che ha condizionato parte della dottrina e ampia parte della giurisprudenza, ha prodotto come esito anche l’individuazione di spazi esorbitanti per la discrezionalità. La discrezionalità amministrativa richiede invece che la legge dia rilievo, in modo inequivocabile, a concezioni soggettive dell’interesse pubblico, come si verifica tipicamente per gli atti che ammettano una componente di apprezzamento politico. Invece, là dove la legge demanda all’amministrazione valutazioni riconducibili a clausole generali, analoghe a quelle che si riscontrano anche per l’attività privata (come quelle che richiamano l’esigenza di una corretta gestione delle risorse, nella logica del buon padre di famiglia), non si configura alcuna discrezionalità e non vi è ragione per introdurre limiti particolari quanto alla cognizione del giudice.
L’azione di adempimento, per essere efficace, richiede la pienezza della cognizione del giudice amministrativo in merito alla ricostruzione dei fatti, alla loro valutazione per i profili latamente tecnici e all’applicazione dei concetti giuridici indeterminati. Altrimenti il progresso rispetto al vincolo rinnovatorio della sentenza di annullamento sarà molto labile, in termini concreti. Si ripeterebbe, insomma, la situazione che oggi già riscontriamo nella giurisprudenza sul silenzio, che tende quasi sistematicamente a negare la possibilità di sentenze che ordinino all’amministrazione di emanare provvedimenti specifici, perché in definitiva sarebbero quasi sempre identificabili spazi di discrezionalità amministrativa o margini di valutazioni complesse (è esemplare, in proposito, la giurisprudenza sul silenzio rispetto a domande di permesso di costruire).

5. Con particolare riferimento all’azione di adempimento, l’accesso del giudice ai fatti sollecita un’ultima riflessione.
A questi fini è opportuno precisare innanzi tutto quali fatti identifichino la pretesa del ricorrente, nel caso dell’azione di adempimento, anche per definire i contenuti essenziali della domanda. Nell’azione di annullamento assumono rilievo i fatti che attengono alla posizione giuridica del ricorrente, alla luce dei vizi del provvedimento dedotti nel ricorso, nell’articolazione dei tre vizi tipici di legittimità (cfr. art. 29 c.p.a.). Nel caso dell’azione di adempimento non sono rilevanti i tre vizi tipici di legittimità, perché si controverte invece sulla pretesa al rilascio di un certo provvedimento. Assumono rilievo fondamentalmente la presentazione della domanda di provvedimento (se il procedimento è a iniziativa di parte), la legittimazione del ricorrente in base alla norma sostanziale, la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per il rilascio di quel provvedimento. Il ricorrente è pertanto gravato dall’onere di ‘allegare’ questi fatti.
Questi stessi fatti, se siano tutti o in parte contestati, possono essere oggetto di un’indagine istruttoria. Altrimenti, sulla base della disciplina generale, dovrebbe valere il principio di non contestazione (art. 64, comma 2, c.p.a.), in base al quale il giudice pone a fondamento della decisione “i fatti non specificamente contestati dalla parte convenuta”. Ciò significa, per esempio, che se il ricorrente richieda il rilascio di un permesso di costruire, allegando tutti i fatti che identificano il suo titolo a conseguirlo, e il Comune si limiti a una difesa formale, il giudice è comunque tenuto ad accogliere la domanda e ad ordinare all’amministrazione il rilascio del provvedimento.
E’ evidente che una difesa poco curata dell’amministrazione può compromettere interessi di rilievo più generale. Ma vi è di più: si profila anche il rischio che l’amministrazione riesca così ad eludere le proprie responsabilità, perché di fronte a una sentenza che le ordini di rilasciare il permesso di costruire non può configurarsi alcuna responsabilità a carico del Comune che la esegua; l’azione di adempimento finisce col rappresentare così una soluzione fin troppo comoda. Si può obiettare che un rischio del genere si presenta anche nell’azione di annullamento, ma indubbiamente le conseguenze appaiono più gravi nell’azione di adempimento. Infatti proprio in questo caso la sentenza di accoglimento ha un carattere proprio di definitività, dato che non lascia spazio ad ulteriori esercizi del potere amministrativo.
Il problema non si risolve invocando la necessità della notifica del ricorso ai terzi controinteressati e perciò una dialettica più ampia nel processo. La garanzia della legalità non può essere rimessa ai controinteressati. Fra l’altro, anche la loro stessa identificazione, nel caso di azione di adempimento, può essere problematica: si pensi al giudizio sulla pretesa ad un permesso di costruire, se si segue con coerenza il criterio della ‘vicinitas’.
Viene quindi naturale prospettare modelli alternativi all’attuale, per esempio modelli che riconoscano un’ampia iniziativa istruttoria al giudice, anche in presenza di fatti non contestati. In questo modo, però, risulterebbe disatteso una delle componenti del c.d. metodo acquisitivo, sul quale si basa tradizionalmente il processo amministrativo in base all’insegnamento di Benvenuti e che è sostanzialmente confermato anche nel codice (artt. 63 ss. c.p.a.) e si introdurrebbero motivi di ordine inquisitorio.
Il metodo acquisitivo attua fedelmente la concezione del processo amministrativo come processo di parti, perché consente che alla condotta processuale delle parti sia ricondotta la determinazione, nell’ambito dei fatti rilevanti, di quelli che richiedano una prova. Si tratta allora di capire se, nella prospettiva dell’azione di adempimento, siamo comunque disposti ad accettare tutti i costi che comporta un processo di parti, anche nel caso in cui si possa produrre un esito concretamente contrastante con la legge.

Aldo Travi

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TAR Lombardia – Milano 11 Luglio 2016

“La sentenza della Corte di giustizia UE 5 aprile 2016, causa C-689/13 sul rapporto tra ricorso incidentale e ricorso principale nel contenzioso appalti e le relative ricadute sull’ordinamento nazionale, anche alla luce delle novità di cui al Dlgs 50/2016”READ MORE