Agatif | Relazione italiana del pres. Francesco Mariuzzo – Potsdam – 10/10/2014
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Relazione italiana del pres. Francesco Mariuzzo – Potsdam – 10/10/2014

Relazione italiana del pres. Francesco Mariuzzo – Potsdam – 10/10/2014

Il ruolo del giudice amministrativo e il suo rapporto con la grande politica

 

1 – Il tema del nostro convegno esige un breve riferimento all’origine storica della giustizia amministrativa italiana, che trova la sua premessa dapprima nella L. 20.3.1865, n. 2248, che ha affidato, da una parte, le controversie aventi a oggetto i diritti soggettivi alla giurisdizione del giudice ordinario e, dall’altra, ogni altra lite con la pubblica amministrazione a commissioni costituite al suo interno. Soltanto nel 1889 fu aggregata al Consiglio di Stato, organo di consulenza del Re, una IV Sezione, avente natura egualmente amministrativa, ma destinata a operare in una posizione di sostanziale autonomia e indipendenza. Nel 1907 il legislatore attribuì, poi, la natura giurisdizionale alla IV e alla neo costituita V Sezione; la creazione delle due Sezioni offriva ai ricorrenti la possibilità di ottenere una pronuncia di annullamento dei provvedimenti amministrativi impugnati, il che concretava peraltro un controllo di mera legittimità, ben lontano dall’accertamento della fondatezza o meno delle pretese avanzate nei processi contro la pubblica Amministrazione.

Nel 1948 il sistema ha trovato conferma negli artt. 100, 103 e 125 della Costituzione: con la prima norma il Consiglio di Stato è stato riconosciuto come organo di consulenza giuridica e amministrativa del Governo e di giustizia all’interno dell’Amministrazione; con la seconda norma, che figura nel titolo V che riguarda la magistratura ordinaria, è stata attribuita al Consiglio di Stato la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi e, in particolari materie, anche dei diritti soggettivi; con la terza norma è stata prevista l’istituzione di organi di giustizia di primo grado in ciascuna regione della Repubblica.

Nel nuovo quadro costituzionale introdotto dopo la caduta del fascismo il Consiglio di Stato ha dunque mantenuto la sua precedente posizione bifronte di consulente del Governo e di organo deputato all’esercizio della giurisdizione. L’esistenza di tali duplici funzioni ha dunque precluso la sua separazione dall’Amministrazione, il che suscita in dottrina ricorrenti dubbi sulla sua imparzialità, terzietà e autonomia nella gestione della giustizia.

Avendo il piacere di essere qui a Potsdam ricordo che, sin dalla seconda metà del 1800, la Prussia aveva costituito una Corte avente struttura e funzioni esclusivamente giurisdizionali del tutto analogamente a quanto era avvenuto nel Granducato del Baden e che, inoltre, la Costituzione adottata dopo la seconda guerra mondiale dalla Repubblica federale ha sottratto la magistratura amministrativa da ogni contatto con l’Amministrazione, proclamandone così la separazione da quest’ultima e dunque la sua indipendenza.

Con grande ritardo, che taluni riferiscono all’ostilità del Consiglio di Stato, il sistema è stato integrato nel 1974 in applicazione dell’art. 125 della Costituzione italiana con la creazione dei Tribunali amministrativi regionali, quali organi di primo grado; essi si differenziano dal Consiglio di Stato, essendo privi di funzioni consultive a favore delle Amministrazioni locali e operando conseguentemente in una posizione d’indipendenza e di terzietà.

2 – A questa breve premessa segue ora qualche cenno sulla posizione dei consiglieri di Stato e dei giudici dei tribunali amministrativi regionali.

Con il testo unico del 26.6.1924, n. 1054 i consiglieri di Stato, ivi compresi il Presidente del Consiglio e i Presidenti di sezione, erano nominati con decreto reale su proposta del Ministro dell’Interno dopo deliberazione del Consiglio dei Ministri; i posti per l’ingresso nella carriera erano conferiti ai vincitori di un concorso per titoli e per esami al quale potevano partecipare i pubblici funzionari che avessero la laurea in giurisprudenza. La promozione al grado immediatamente superiore avveniva con una valutazione della professionalità dei singoli giudici dopo due anni di servizio, previa proposta da parte del Consiglio di Presidenza composto dal presidente del Consiglio di Stato e dai presidenti di sezione.

La promozione a consigliere, a Presidente di sezione e a Presidente del Consiglio di Stato avveniva con applicazione della regola dell’anzianità di servizio. Tale sistema era giustificato dalla necessità di evitare ogni intervento da parte della politica in materia di promozioni: il che avviene tutt’oggi nonostante competa al Governo la formale competenza a sottoscrivere le proposte di promozione avanzate da parte del Consiglio di Presidenza.

Con la L. 6.12.1971, n. 1034 è stato previsto che i magistrati dei Tribunali amministrativi regionali fossero assunti tramite un concorso per titoli ed esami. La loro nomina al grado superiore avveniva dopo sei anni di servizio con una valutazione della professionalità dei singoli giudici per i 2/3 dei posti disponibili; per il residuo 1/3 la promozione avveniva per anzianità, previo giudizio d’idoneità, il che in tal caso significava che la carriera scorreva più lentamente. La successiva promozione a consiglieri di Tribunale amministrativo avveniva dopo ulteriori sei anni senza alcun giudizio sulla professionalità e secondo la regola dell’anzianità. In tale secondo passaggio scompare dunque ogni valutazione del merito dei singoli magistrati.

La prosecuzione della carriera per i consiglieri dei Tribunali poteva sin da allora proseguire in primo grado fino alla nomina a Presidente di Tribunale; in alternativa poteva essere richiesto il trasferimento al Consiglio di Stato nel limite di ¼ dei posti disponibili per i consiglieri dei Tribunali amministrativi con almeno quattro anni di servizio in tale qualifica; per questo trasferimento, al quale conseguiva l’assegnazione della qualifica di consigliere di Stato, era richiesto il parere positivo del Consiglio di presidenza dei tribunali amministrativi regionali, che ha costantemente applicato la regola dell’anzianità di servizio, egualmente con esclusione di ogni riscontro del merito.

In questo quadro è singolare notare che la legge del 1971 prevedeva un Consiglio di presidenza dei Tribunali amministrativi regionali distinto da quello già esistente e operativo per il Consiglio di Stato. Detto nuovo Consiglio istituito per i Tribunali amministrativi regionali si costituiva su base non elettiva e non era composto esclusivamente dai giudici di primo grado, ma dal presidente del Consiglio di Stato, dai due Presidenti di sezione del Consiglio di Stato più anziani, da due Presidenti di Tribunale amministrativo regionale e da quattro giudici amministrativi regionali estratti a sorte ogni due anni.

E’ da segnalare che per molti anni i presidenti dei tribunali amministrativi regionali erano esclusivamente consiglieri di Stato, il che significava che nel detto Consiglio la maggioranza era costantemente rappresentata dai rappresentanti del Consiglio di Stato.

La vista disciplina è mutata con l’entrata in vigore della L. 27.4.1982, n. 186, che ha abrogato il Consiglio di presidenza dei Tribunali amministrativi regionali e istituito un unico Consiglio composto, oltre che dal Presidente del Consiglio di Stato e dai due Presidenti di sezione più anziani, da quattro magistrati in servizio presso il Consiglio di Stato e da sei magistrati in servizio presso i tribunali amministrativi regionali: i primi erano eletti dai componenti del Consiglio di Stato e i secondi dai giudici dei Tribunali amministrativi regionali. Anche nel nuovo Consiglio persisteva comunque la maggioranza dei consiglieri di Stato.

Con la successiva L. 21.7.2000, n. 205 la composizione del Consiglio di presidenza è stata ulteriormente modificata: non sono stati più previsti i due Presidenti di sezione più anziani del Consiglio di Stato e sono stati introdotti nella precedente composizione quattro componenti eletti, due dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica; essi sono scelti tra i docenti universitari in materie giuridiche o fra gli avvocati con venti anni di esercizio dell’attività professionale. Con tale nuova composizione è venuta meno nel Consiglio di Presidenza l’esistenza di una precostituita maggioranza del consiglieri di Stato, essendo rimasto immutato il numero dei magistrati eletti in rappresentanza del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali.

Tra le funzioni del nuovo Consiglio figurano: 1) le assunzioni, l’assegnazione di sedi e di funzioni, i trasferimenti, le promozioni, il conferimento di funzioni direttive; 2) l’adozione di provvedimenti disciplinari riguardanti i magistrati; 3) il conferimento ai magistrati di incarichi estranei alle loro funzioni; 4) la dispensa per casi eccezionali e per motivate ragioni dall’obbligo di residenza stabile in un comune della regione, ove ha sede il tribunale dove è prestato il servizio.

Nell’esercizio di queste funzioni il Consiglio di presidenza ha assunto il ruolo di organo di autogoverno della magistratura amministrativa.

  1. a) Per quanto attiene alle promozioni nei Tribunali amministrativi la disciplina introdotta dalla richiamata legge del 1982 è assai più benevola rispetto a quella precedente, poiché il passaggio alle due qualifiche superiori in precedenza previste avviene ora dopo soli quattro anni di servizio per l’una e per l’altra. La promozione è accordata seguendo il ruolo di anzianità, restandone escluso soltanto quel magistrato per il quale sia stato accertato il demerito.

Può rilevarsi in proposito che, per l’adozione delle viste promozioni, è formalmente scomparsa nel quadro legislativo ogni valutazione del maggiore o minore merito dei singoli magistrati con un conseguente regresso rispetto a quanto stabilito dalla legge del 1971, che pur parzialmente la prevedeva; che, inoltre, nella prassi consolidatasi dal 1982 è scomparsa anche ogni ricerca dell’eventuale demerito, per cui le promozioni sono accordate seguendo semplicemente il ruolo di anzianità.

  1. b) Quanto alla composizione del Consiglio di Stato la riforma del 1982 ha duplicato i posti riservati ai consiglieri dei Tribunali amministrativi regionali, pari ora al 50% di quelli vacanti; detto passaggio è subordinato a un giudizio favorevole espresso dal Consiglio di presidenza in base alla valutazione dell’attività giurisdizionale svolta e dei titoli anche di carattere scientifico in possesso degli aspiranti al trasferimento, nonché dell’anzianità di servizio. Nella prassi, peraltro, anche l’acquisto della qualifica di consigliere di Stato avviene dal 1982 sulla base dell’anzianità di servizio, assente restando la valutazione prescritta dalla legge.

Il 25% dei posti disponibili è, poi, riservato alla nomina da parte del Presidente della Repubblica, che individua i nuovi consiglieri di Stato pressoché esclusivamente fra alti funzionari della pubblica Amministrazione; per tale designazione è previsto un parere da parte del Consiglio di presidenza sulla base dell’attività svolta e degli studi compiuti dai candidati.

Infine, il 25% dei posti disponibili è assegnato ai vincitori di un concorso pubblico per titoli ed esami, cui possono partecipare i magistrati amministrativi con almeno un anno di anzianità, i magistrati ordinari e contabili con almeno quattro anni di anzianità, nonché i funzionari della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e i dirigenti della pubblica Amministrazione in possesso della laurea di giurisprudenza. Al superamento del concorso i vincitori sono nominati direttamente consiglieri di Stato, essendo state soppresse le precedenti due qualifiche.

La possibilità di un ingresso diretto in Consiglio di Stato rende dunque manifesto che lo stesso mantiene un suo autonomo reclutamento; che le due magistrature del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali restano separate; che non è stato soddisfatto l’auspicio manifestato dal Legislatore nel 1982 di un generale riordino dell’ordinamento della giustizia amministrativa sulla base dell’unicità di accesso e di carriera.

3 – All’illustrazione dello stato giuridico dei magistrati amministrativi italiani non può che far seguito il quadro del trattamento economico, quale si è sviluppato con le L. 25.7.1966, n. 570 e 20.12.1973, n. 831, aventi a oggetto per la magistratura ordinaria la nomina a magistrato di Corte d’appello e a magistrato di Cassazione, che sono qualifiche alle quali sono equiparate quelle della magistratura amministrativa.

Con le viste leggi è stato previsto che gli aumenti della retribuzione fossero assegnati secondo la regola dell’anzianità di servizio e indipendentemente dal conferimento delle funzioni superiori. Tali leggi sono state adottate con una assai generosa lettura da parte del Legislatore dell’art. 107, 3° comma della Costituzione, che stabilisce che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità delle funzioni.

L’applicazione di queste leggi negli anni ha, tuttavia, prodotto una grave diseguaglianza nella magistratura, poiché la maggiore responsabilità dei giudici con funzioni superiori non ha trovato alcun riconoscimento sul piano economico.

Con successiva L. 6.8.1984, n. 425 la progressione economica della retribuzione è stata prevista in otto classi biennali del 6% da calcolare sulla retribuzione di ciascuna qualifica; dopo la maturazione delle dette classi gli aumenti sono previsti nella misura del 2,5°%; l’importo maturato nel tempo per le classi e per gli aumenti biennali della precedente qualifica si sommano, poi, alla retribuzione base di quella superiore.

Al fine di garantire l’autonomia della magistratura e sottrarre le associazioni delle magistrature ordinaria, amministrativa e contabile dall’onere di contrattare periodicamente con il Governo il nuovo trattamento economico la L. 19.2.1981, n. 27 ha previsto che le retribuzioni delle magistrature siano adeguate automaticamente ogni tre anni nella misura percentuale pari alla media degli incrementi realizzati nel triennio precedente dalle altre categorie dei pubblici dipendenti.

Tale previsione ha consentito un progressivo aumento delle retribuzioni dei magistrati in misura superiore a quelle dei pubblici dipendenti, poiché le dette percentuali sono state applicate su stipendi notevolmente maggiori.

A tale status retributivo si è costantemente correlata la possibilità di conseguire dal Governo incarichi retribuiti per l’assunzione di responsabilità nei gabinetti dei Ministri e negli Uffici legislativi, oltre a incarichi di natura diversa da parte di Enti pubblici. In tal caso il consigliere di Stato o di Tribunale amministrativo regionale poteva (e può tutt’oggi) essere esonerato dall’assolvere le funzioni di magistrato, conservando la propria retribuzione e sommando a questa il compenso corrisposto per lo svolgimento degli incarichi esterni.

Anche sotto questo profilo si tratta di vicende che mettono a stretto contatto i magistrati amministrativi con la grande politica, attivando, tuttavia, dubbi sull’esistenza di un’effettiva autonomia e indipendenza dei singoli giudici dopo il rientro nel Consiglio di Stato o nei Tribunali amministrativi regionali.

4 – Resta ora da svolgere qualche considerazione quanto al quadro nel quale opera la magistratura amministrativa di primo e di secondo grado.

Il sistema di autogoverno previsto nella Costituzione repubblicana esalta le garanzie d’indipendenza della magistratura ordinaria; tale disciplina ha indotto successivamente il Parlamento a riconoscere la stessa autonomia con due leggi successive sia alla magistratura amministrativa sia a quella contabile.

La scelta dell’autogoverno fondata sui valori della Costituzione ha totalmente separato le magistrature dal potere politico con riguardo alla loro gestione e a un sistema di controlli esterni, il che ha assunto il significato della rinuncia della politica all’esercizio della sua autonoma responsabilità, comportamento quest’ultimo che si è manifestato costantemente nel corso degli anni in occasioni nelle quali sono state omesse iniziative che sarebbero state al contrario doverose.

Di fronte a una separazione che si estende anche al trattamento retributivo c’è da chiedersi se siano state efficacemente difese l’autonomia e l’indipendenza delle magistrature, evitando contestualmente che la loro gestione si trasformasse in corporativismo.

Il sistema adottato nella Costituzione esprime il ripudio da parte dell’assemblea costituente della disciplina esistente nel periodo della dittatura fascista e la necessità di garantire dunque l’indipendenza della magistratura nei confronti del potere esecutivo; questo sistema è stato considerato un modello di qualità dal Comitato consultivo dei giudici europei del Consiglio d’Europa, ma ha fatto registrare nel tempo livelli di efficienza non in linea con gli standard internazionali di applicazione della legge e con il tasso di fiducia da parte dei cittadini e delle imprese nazionali ed estere che intendano effettuare degli investimenti in Italia; questo tasso è, infatti, inaspettatamente più basso rispetto a quello degli altri Paesi OCSE, essendo la durata media dei processi nettamente al di sopra della media europea.

E’ stato, al riguardo, osservato dalla dottrina che l’Italia appartiene alla classe di quei Paesi che hanno adottato un assetto istituzionale di autogoverno con l’obiettivo di massimizzare le garanzie d’indipendenza della magistratura, ma che nel contempo si situa fra i Paesi europei con il più basso indice di rule of law; il che non può essere certo imputato alle risorse destinate al settore della giustizia nel bilancio dello Stato, che sono comparabili con quelle degli altri Paesi europei.

La causa di questi risultati, che accomunano la giustizia civile, penale e amministrativa, è stata da tempo individuata dagli studiosi delle scienze politiche nella gestione prettamente corporativa dei magistrati da parte degli organi di autogoverno, che non esercitano con equilibrio ed efficienza le funzioni per le quali detti organi sono stati costituiti; essi omettono, infatti, di attribuire incentivi e di comminare sanzioni, di porre vincoli e prospettare opportunità con conseguente smarrimento della ricerca della professionalità dei singoli e con una progressiva perdita della qualità dell’attività giudiziaria e dell’efficienza sul piano organizzativo.

Il sistema delineato dalla Costituzione induce dunque malinconicamente a riconoscere che il modello astratto di autogoverno delle magistrature nel quale si sono riposte tante positive aspettative non ha raggiunto i potenziali obiettivi da perseguire, fruendo della piena autonomia dal potere politico; al contrario si è manifestato, come è stato ricordato dagli studiosi, uno sbilanciamento eccessivo in favore dell’indipendenza senza che ad essa abbiano corrisposto efficaci meccanismi di controllo organizzativo sulle strutture giudiziarie.

Per quanto riguarda il Consiglio superiore della magistratura, che è l’organo di governo della magistratura ordinaria, desta sorpresa che la politica che è stata cacciata dalla porta sia poi rientrata dalla finestra; i componenti eletti da parte dei magistrati sono, infatti, ormai da anni espressione di correnti manifestamente politiche che si sono formate nella magistratura e che spaziano dalla sinistra, al centro e alla destra; gli accordi fra le correnti sono determinanti per l’adozione delle più rilevanti delibere e, in particolare, per le promozioni alle funzioni superiori, che sono di frequente il risultato di una faticosa spartizione dei posti più importanti, essendo caduto il potere di veto da parte del Governo a seguito della sentenza 27.7.1992, n. 379 della Corte costituzionale. Anche la Corte ha percorso dunque il sentiero della difesa oltre ogni ragionevole ragione dell’autogoverno della magistratura, escludendo dunque anche per il futuro ogni possibile diniego di approvazione della scelta del candidato effettuata dal Consiglio superiore.

E’ ben noto in questa magistratura che, a fronte di una logica spartitoria, l’unica risorsa per quanti ne ricevano un pregiudizio è costituita dalla promozione di ricorsi davanti al Tribunale amministrativo del Lazio e al Consiglio di Stato, che di frequente annullano i provvedimenti adottati in sede di autogoverno, divenendo in tal modo i gestori finali di quelle nomine.

Sino a oggi all’opposto non sono fortunatamente apparse nel Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa correnti vicine all’uno o all’altro partito politico, ma due gruppi si contrastano duramente in questi ultimi anni per l’adozione della migliore strategia da seguire nei rapporti con il Governo e il Parlamento, uniti restando soltanto nella benevola gestione della magistratura.

Prima di passare in rassegna le cause del malfunzionamento della giustizia amministrativa occorre, tuttavia, ricordare che si contano sul territorio nazionale soltanto circa 460 magistrati, distribuiti tra il primo e il secondo grado, per il quale opera a Roma soltanto il Consiglio di Stato. La responsabilità per tali sconfortanti numeri e queste deficienze strutturali ricade dunque esclusivamente sul Governo e sul Parlamento, che non si sono fatti promotori di un congruo incremento dei magistrati amministrativi di fronte a un progressivo incremento dei ricorsi e di una diversa organizzazione della giurisdizione sul territorio nazionale.

Sotto quest’ultimo aspetto sarebbe stato sufficiente seguire l’esempio del Conseil d’Etat, che ancora negli anni ‘80 ha promosso l’istituzione di Corti amministrative d’appello interdipartimentali.

Pur a fronte di questi dati obiettivi non possono, tuttavia, essere dissimulate le autonome responsabilità del Consiglio di Presidenza, restando privo di risposta il perché quest’organo, che è responsabile del reclutamento, delle promozioni, del controllo disciplinare e della formazione dei magistrati, non abbia comunque adottato, pur nel fragile quadro organizzativo esistente, misure capaci di migliorare il servizio giudiziario e di aumentare la produttività del sistema sulla base della laboriosità, capacità, diligenza e preparazione dei singoli magistrati.

All’inesistente controllo di tali qualità si associano le direttive emesse dal Consiglio di Presidenza per il carico del lavoro, per il quale è stata lo scorso anno fissata, da una parte, la soglia massima di 20 udienze all’anno per ciascun magistrato, esonerando quindi la potestà dei presidenti di Tribunale e di Sezione di provvedere diversamente per contenere la durata dei processi; dall’altra, è stato deliberato che non possano essere assegnati a ciascun magistrato per ogni udienza più di sei ricorsi; e ciò del tutto indipendentemente dal “peso” specifico di ciascuno di essi.

Si tratta di misure che palesemente mortificano la capacità organizzativa dei responsabili degli uffici e aumentano l’arretrato dei Tribunali.

Il regime di autogoverno, che mostra tanta attenzione per la tutela dei magistrati e che trascura di perseguire la qualità, la tempestività e l’efficienza della giustizia, ha dunque alimentato negli anni una generalizzata autoreferenzialità della magistratura; è costantemente mancata, infatti, l’adozione di parametri obiettivi per l’individuazione del demerito dei singoli, quale obiettiva preclusione alla promozione alle qualifiche superiori nei Tribunali amministrativi regionali; non è stato ricercato il merito dei singoli aspiranti per l’affidamento dell’incarico di presidente di sezione di un Tribunale amministrativo; non è stata effettuata alcuna valutazione del merito per il transito dei consiglieri di Tribunale amministrativo regionale al Consiglio di Stato; è stata posta in essere un’eguale procedura per la nomina dei Presidenti di Sezione del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali.

La generalizzata inesistenza di una valutazione della professionalità di coloro che aspirano alle funzioni superiori manifesta dunque l’assenza di una corretta gestione delle promozioni: non appare, infatti, accettabile che, sotto la protezione dell’autonomia e dell’indipendenza, il Consiglio abbia indotto in tutti i magistrati amministrativi la generalizzata sicurezza per l’automatico conseguimento non soltanto di una retribuzione che aumenta progressivamente nel corso degli anni, ma anche di qualifiche superiori, restando ben lontano dall’individuare coloro che siano più meritevoli di altri e di quanti non lo siano affatto.

Sintomo di tale univoco atteggiamento appare anche la dispensa rilasciata a chiunque richieda di essere esonerato dall’obbligo di risiedere nella regione in cui ha sede il Tribunale, che per legge potrebbe essere accordata soltanto in casi eccezionali e per motivate ragioni: tale puntuale riscontro, infatti, non è mai avvenuto negli anni con una pesante ricaduta sull’organizzazione del servizio giudiziario nel territorio.

In tale deficiente quadro si associa, poi, la pressoché totale assenza di procedimenti disciplinari, la cui iniziativa spetta al Presidente del Consiglio di Stato o al Presidente del Consiglio dei Ministri.

Con il nuovo Governo in carica i rapporti con le magistrature sembrano ora destinati a cambiare, essendosi il Presidente del Consiglio più volte espresso in termini non elogiativi anche per i magistrati amministrativi; egli ha, infatti, annunciato l’esigenza di una prossima, radicale riforma della giustizia, che è stata da poco preceduta dall’anticipazione del termine per il collocamento in pensione dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili, che passa da 75 a 70 anni, alla quale si assocerà a breve la riduzione da 45 a 30 giorni del periodo delle ferie.

In attesa di un futuro oltremodo incerto pare dunque doversi concludere che l’autogoverno delle magistrature non abbia dato negli anni la prova di operare nell’interesse generale della collettività nazionale e che di ciò sia a piena conoscenza il Governo.

Resta dunque da auspicare che, nella riforma della giustizia di cui tanto si parla, la politica possa intervenire, difendendo da una parte l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma dall’altra salvaguardando la responsabilità del Governo di fronte al Parlamento, quale sede della sovranità popolare, con l’introduzione di efficaci controlli esterni per assicurare un efficiente servizio giudiziario: in tal caso resterebbe fermo, come ha ricordato in un recente scritto sulla magistratura Luciano Violante, il motto di Francis Bacon che, nella sua qualità di Attorney General e poi di Lord Chancellor, affermava che, nel rapporto fra giudici e politica, “i giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono”.

Grazie per l’attenzione di tutti.

Potsdam, 10.10 2014

                                          Francesco Mariuzzo