Agatif | Relazione italiana del Cons. Pierpaolo Grauso – Firenze 11 ottobre 2019
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Relazione italiana del Cons. Pierpaolo Grauso – Firenze 11 ottobre 2019

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Relazione italiana del Cons. Pierpaolo Grauso – Firenze 11 ottobre 2019

La partecipazione ai processi decisionali dell’Amministrazione da parte dei cittadini  e i relativi rapporti tra PA e GA

Firenze, 11 ottobre 2019 – intervento del relatore italiano Cons. Pierpaolo Grauso

La partecipazione dei cittadini alle scelte amministrative che li riguardano come individui e come appartenenti a una determinata collettività, o gruppo di interessi, è un fenomeno variamente disciplinato dall’ordinamento giuridico italiano, che, come sapete, è caratterizzato da un’accentuata pluralità dei livelli di governo e di regolazione.

Le norme in materia di partecipazione costituiscono il nucleo della legge generale sul procedimento amministrativo (legge dello Stato 7 agosto 1990, n. 241), e, a suo tempo, ne hanno rappresentato uno degli elementi di maggiore novità, nella misura in cui, per la prima volta, i diritti partecipativi dei cittadini hanno trovato consacrazione in veri e propri istituti di diritto positivo.

Nella legge generale sul procedimento amministrativo, la partecipazione assume in primo luogo un significato di garanzia della posizione dei soggetti coinvolti dall’attività della pubblica amministrazione, nella prospettiva del conflitto tra la parte pubblica e la parte privata (si vedano l’art. 7 della legge n. 241/1990, in forza dei quali debbono obbligatoriamente partecipare al procedimento i soggetti “nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti”, ovvero i soggetti a carico dei quali il provvedimento finale possa produrre un pregiudizio; e il successivo art. 9, che dà facoltà di intervenire nel procedimento ai portatori di interessi pubblici o privati, nonché ai portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, “cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento” finale).

Da questa prospettiva, la giurisprudenza ha sviluppato la nozione e il principio del “giusto procedimento”, secondo cui i soggetti privati destinatari di un provvedimento amministrativo limitativo dei loro diritti debbono essere messi in condizione di esporre le proprie ragioni prima che il provvedimento stesso venga adottato dalla pubblica amministrazione. Nessuno dubita che si tratti di un principio fondamentale dell’ordinamento italiano (sebbene non di rango costituzionale: Corte Cost. nn. 71/2015, 312, 210 e 57 del 1995, 103 del 1993 e 23 del 1978; ordinanza n. 503 del 1987), a maggior ragione, oggi, alla luce dell’art. 41 della Carta di Nizza.

Al di là del tenore testuale delle norme, negli istituti di partecipazione disciplinati dalla legge n. 241/1990 gli studiosi e la giurisprudenza ravvisano – accanto alla dimensione difensiva – una dimensione collaborativa, volta a consentire alla pubblica amministrazione di acquisire elementi e informazioni utili per arricchire le proprie conoscenze relativamente all’oggetto del procedimento in corso e per assumere una decisione più ponderata[1].

Nella legge generale italiana sul procedimento manca, invece, la terza dimensione che gli studiosi sono soliti attribuire alla partecipazione procedimentale, quella in chiave democratica. In questa ottica, la partecipazione si traduce nella possibilità per la società civile di esprimere la propria opinione all’interno del processo di formazione della decisione amministrativa: il corpo sociale viene coinvolto e concorre alla formazione della decisione, la quale viene così a non essere più calata dall’alto, ha una migliore “qualità e legittimazione democratica” e, pertanto, maggiori chance di risultare accettabile almeno alla maggioranza dei suoi destinatari, particolarmente nel caso delle grandi opere pubbliche, o delle attività aventi sensibile impatto ambientale.

Mi riferisco, evidentemente, a istituti come l’inchiesta pubblica o il dibattito pubblico, da tempo noti ad altri ordinamenti, ma che in Italia non sono oggetto di disposizioni di carattere generale e che a livello statale solo in tempi recentissimi hanno ricevuto una regolamentazione compiuta, nel settore delle opere pubbliche.

A dire il vero, lo schema originario della legge n. 241/1990 (predisposto dalla commissione presieduta dal prof. Mario Nigro”) prevedeva lo svolgimento di una “istruttoria pubblica” per l’adozione di strumenti urbanistici, piani commerciali e paesistici, localizzazione di centrali energetiche e per l’esecuzione di opere pubbliche, incidenti in modo rilevante sull’economia e sull’assetto del territorio interessato. Tale previsione non solo è stata eliminata dal testo finale della legge, ma questa stabilisce (art. 13 della legge n. 241/1990) che le garanzie partecipative di ordine generale non si applicano ai procedimenti “diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione”, vale a dire proprio in quei casi in cui l’esigenza di partecipazione diffusa dei cittadini sono oggi maggiormente avvertite. Per queste tipologie di procedimenti, la legge 241/1990 rinvia alle specifiche discipline di settore e, lo vedremo subito, nei settori sensibili dell’ambiente e del governo del territorio la legislazione statale e regionale conosce forme di partecipazione ampia, che riecheggiano il principio e il modello democratico.

Merita ancora di essere precisato che, nel sistema della legge generale sul procedimento amministrativo, gli istituti della partecipazione attengono ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117 co. 2 lett. m) della Costituzione. La determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni è riservata alla legge dello Stato, il che significa che le leggi regionali possono, se del caso, fornire livelli di garanzia maggiori, ma mai inferiori a quelli stabiliti dalla legge generale sul procedimento.

La dimensione democratica della partecipazione, assente nella legge generale dello Stato sul procedimento amministrativo, compare – accanto alla partecipazione che ho definito “difensiva” – in alcune leggi regionali sul procedimento amministrativo (si tratta di materia nella quale lo Stato e le Regioni/Province autonome esercitano una potestà legislativa concorrente), immediatamente successive alla legge n. 241/1990, che conoscono istituti quali l’istruttoria pubblica (art. 18 della legge regionale Sardegna n. 40/1990, che riproduce l’istituto a suo tempo elaborato dalla “commissione Nigro”; art. 15 l.r. Lazio n. 57/1993, per il caso in cui “la natura o la complessità della questione lo richiedano, in relazione all’ampiezza ed alla rilevanza degli interessi coinvolti”, dietro valutazione di opportunità del responsabile del procedimento), le audizioni  pubbliche (art. 15 l.r. Emilia-Romagna n. 32/1993, secondo cui l’audizione si svolge mediante “discussione in apposita riunione pubblicamente convocata alla quale possono prendere parte le Amministrazioni pubbliche, le organizzazioni sociali e di categoria, le associazioni ed i gruppi portatori di interessi collettivi o diffusi, che vi abbiano interesse”), l’inchiesta pubblica per la realizzazione di opere, interventi o programmi di intervento che siano suscettibili di produrre rilevanti modificazioni degli assetti territoriali ed ambientali (art. 11 l.r. Abruzzo n. 11/1999: l’inchiesta “consiste nel fornire una completa informazione sul progetto al pubblico nelle forme più idonee al raggiungimento dello scopo e raccogliere osservazioni, proposte e controproposte al fine di acquisire tutti gli elementi necessari per una decisione ponderata sulla realizzazione dell’intervento”).

Di maggior rilievo, in termini operativi, sono tuttavia le previsioni dettate dai legislatori statale e regionali nelle specifiche materie dell’ambiente e dell’urbanistica/governo del territorio.

L’Italia ha ratificato con legge n. 108/2001 la Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, in materia di accesso all’informazione, partecipazione dei cittadini e accesso alla giustizia in materia ambientale.

Fra le misure adottate per assicurare l’attuazione dell’art. 6 della convenzione, che assicura appunto la partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale, vi è tutta la disciplina dettata dal Codice dell’ambiente (decreto legislativo n. 152/2006) per le procedure di valutazione ambientale strategica, valutazione di impatto ambientale e autorizzazione integrata ambientale, che prevedono meccanismi di consultazione di tutti i soggetti interessati.

In particolare, il Codice prevede una varietà di strumenti partecipativi, a partire dalla “consultazione” del pubblico su piani e programmi che possono avere impatti significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale, e che consente a chiunque di prendere visione della proposta di piano o programma e del relativo rapporto ambientale e presentare proprie osservazioni in forma scritta, anche fornendo nuovi o ulteriori elementi conoscitivi e valutativi (artt. 14 e 24).

Ai fini della valutazione di impatto ambientale, la consultazione può (dunque facoltativamente) assumere la forma della vera e propria “inchiesta pubblica” (art. 24-bis, introdotto nel 2017), se così disposto dall’autorità competente. Gli oneri dell’inchiesta sono a carico del soggetto che presenta il progetto da approvare, si svolge nel termine di novanta giorni e si conclude con una relazione sui lavori svolti ed un giudizio sui risultati emersi, predisposti dall’autorità competente.

Anche il rilascio delle autorizzazioni integrate ambientali per l’esercizio di impianti soggetti al rispetto delle normativa europea IPPC (Integrated Pollution Prevention and Control) deve essere preceduto dalla consultazione del pubblico nella forma della messa a disposizione di tutti i documenti e gli atti del procedimento e della presentazione di osservazioni scritte (contributi individuali), delle quali deve darsi conto in sede di rilascio dell’autorizzazione.

Nella materia ambientale, l’inchiesta pubblica era stata in effetti prevista sin dal primo recepimento della normativa europea sulla valutazione di impatto ambientale nel 1986 (art. 6 della legge n. 349/1986, istitutiva del Ministero dell’ambiente), e il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 27 dicembre 1988 ne aveva dettato le regole di svolgimento nell’ambito della procedura di approvazione dei progetti di centrali termoelettriche e turbogas[2].

L’inchiesta pubblica compare anche in diverse legislazioni regionali che si sono occupate e si occupano di valutazione di impatto ambientale, che, ancora una volta, la prevedono come strumento facoltativo e non obbligatorio. In Toscana abbiamo avuto la legge n. 68/1995, seguita dalla legge n. 79/1998 e, ora, dalla legge 10/2010, il cui art. 53 è dedicato all’inchiesta pubblica, che disciplina dettagliatamente[3].

Venendo all’urbanistica, negli ultimi anni, la legislazione e, di conseguenza, la giurisprudenza hanno progressivamente riconosciuto all’urbanistica un ruolo che va molto oltre la suddivisione del territorio in zone cui attribuire funzioni d’uso e destinazioni (zoning). Nell’esercitare i propri poteri di governo del territorio, le amministrazioni debbono tenere conto delle esigenze abitative della comunità di riferimento e della concreta vocazione dei luoghi, senza però trascurare i valori ambientali e paesaggistici, le esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, ma anche le esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio. Si tratta, cioè, di un’attività e di scelte amministrative che attengono al modello di sviluppo in senso lato che si vuole imprimere a un determinato contesto territoriale.

Se è così, la partecipazione dei portatori dei diversi interessi coinvolti – individuali, collettivi, diffusi – diviene un momento ineliminabile di acquisizione delle conoscenze necessarie all’amministrazione pubblica onde conseguire il miglior assetto possibile del territorio di competenza, attraverso decisioni che in tal modo finiscono anche per ricevere una più piena legittimazione democratica. Dovrebbe dunque risultarne esaltata la partecipazione in funzione di ausilio della pubblica amministrazione (per accrescerne l’efficacia) e di coinvolgimento preventivo della comunità interessata, più che la partecipazione con finalità difensive di tutela degli interessi individuali incisi dalla pianificazione.

La legislazione statale non prevede forme di partecipazione democratica basate sulla consultazione del pubblico. Lo strumento principe per l’esercizio della partecipazione continua, infatti, ad essere costituito dalle osservazioni/opposizioni scritte, che intervengono però in una fase avanzata del procedimento, quando lo strumento di pianificazione o di governo del territorio è stato quantomeno già adottato. Esse nascono nella legge urbanistica fondamentale del 1942 e sono consentite a “chiunque”, ricevendo perciò una connotazione a cavallo tra la difesa di interessi individuali e l’apporto collaborativo, ma non si prestano a svolgere quel ruolo propulsivo e di legittimazione democratica che si vorrebbe riconoscere alla partecipazione nella fase programmatoria delle azioni di governo del territorio, in vista della realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici e di valori costituzionalmente garantiti (quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost.).

Sono alcune legislazioni regionali, ancora una volta, ad affiancare alla partecipazione di stampo oppositivo/difensivo forme di partecipazione diffusa e democratica. Va ricordato che, in termini generali, la Corte Costituzionale ha da tempo chiarito (sentenza n. 379/2004) come il ricorso a forme di consultazione del corpo sociale e dei suoi organismi rappresentativi (es. associazioni di cittadini) non costituisca un ostacolo alla funzionalità delle istituzioni regionali e che il riconoscimento dell’autonomia degli organi rappresentativi non venga affatto negato da un disciplina trasparente dei rapporti fra le istituzioni rappresentative e frazioni della cosiddetta società civile.

Nelle legislazioni regionali è presente una varietà di istituti partecipativi, che vanno dalla presentazione di osservazioni scritte da parte dei cittadini fin dalla fase iniziale di presentazione e formazione del piano da adottare (l.r. Lombardia n. 12/2005; l.r. Liguria n. 36/1997; l.r. Calabria n. 19/2002; l.r. Puglia n. 20/2001; l.r. Piemonte n. 36/1997; l.r. Umbria n. 1/2015), alle “udienze pubbliche” per illustrare alla cittadinanza il progetto del piano urbanistico comunale (art. l.r. Liguria n. 36/1997), ai “laboratori di partecipazione” (urbani, di quartiere, territoriali), che possono riguardare anche le opere pubbliche, oltre che i piani urbanistici (art. 11 l.r. Calabria n. 19/2002), alla creazione di apposite strutture che fanno capo ai “garanti” dell’informazione e della comunicazione, figure istituite con il compito di assicurare appunto la conoscenza da parte dei cittadini dei contenuti dei piani territoriali da approvare e dei relativi effetti anche paesaggistici. Questo è il caso, ad esempio, della Regione Toscana (l.r. n. 65/2014), che prevede l’istituzione di un “garante dell’informazione e della partecipazione”, che non può essere un componente delle assemblee elettive della Regione o degli enti locali (consigliere regionale, provinciale o comunale), né il progettista del piano territoriale da approvare, e neppure il responsabile del procedimento di approvazione del piano.

Nel rispetto del principio di proporzionalità, di derivazione europea, la legge toscana stabilisce che le forme e le modalità di informazione e partecipazione dei cittadini sono individuate dai Comuni interessati in ragione dell’entità e dei potenziali effetti degli interventi previsti.

Il caso della Toscana è particolarmente significativo perché, in aggiunta alle previsioni partecipative che abbiamo visto essere contenute nella legge urbanistica e nelle disposizioni di legge sulla valutazione di impatto ambientale, dal 2007 la Regione si è dotata di norme sulla promozione della partecipazione democratica dei cittadini ai processi decisionali (leggi n. 69/2007 e 46/2013)[4].

I dibattiti pubblici noti che si sono svolti in Toscana hanno riguardato lo sviluppo e riqualificazione del porto di Livorno e l’utilizzo dei gessi per il ripristino delle attività estrattive nel Comune di Gavorrano. L’Autorità regionale ha negato il dibattito pubblico chiesto dal Comune di Pisa in ordine al sistema aeroportuale toscano.

Come abbiamo potuto vedere da questa panoramica, è possibile nell’ordinamento italiano ricostruire un modello unitario di partecipazione “difensiva” e “collaborativa” ai procedimenti amministrativi, e alcuni modelli settoriali o locali di partecipazione diffusa.

Il quadro degli strumenti di democrazia partecipativa si presenta assai frammentato, anche dal punto di vista della diffusione territoriale, e la frammentazione sarebbe ancora più marcata se volessimo occuparci del fenomeno a livello locale (cittadino, comunale): mi riferisco ai regolamenti comunali, fonti normative di secondo o terzo livello, che a loro volta costituiscono il veicolo di forme e istituti di partecipazione della cittadinanza alle scelte amministrative, e che nell’ultimo decennio hanno avuto un vorticoso sviluppo (si contano circa tremila regolamenti comunali che disciplinano in vario modo procedure e forme di democrazia partecipativa).

La spinta dal basso verso la partecipazione democratica ha finalmente portato a inserire anche nella legislazione dello Stato – dopo alcuni tentativi andati a vuoto nelle precedenti legislature – l’istituto del dibattito pubblico, dichiaratamente ispirato al modello del debat public francese.

L’art. 22 del Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo n. 50/2016), con valenza generale, prevede infatti – in attuazione della delega contenuta nella legge n. 11/2016 – che per le grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulle città e sull’assetto del territorio, si proceda a una consultazione pubblica, le cui modalità di svolgimento sono rimesse a un separato decreto attuativo.

Il decreto attuativo è stato approvato nel 2018 e regolamenta dettagliatamente lo svolgimento del dibattito, ispirandosi ai una serie di principi che si ricavano dai lavori preparatori: l’esigenza che i grandi interventi infrastrutturali siano decisi a seguito di un ampio e regolato confronto pubblico con le comunità locali; che il confronto si svolga nella fase iniziale del progetto, quando tutte le opzioni sono ancora possibili, compresa l’opportunità della realizzazione dell’opera; che i risultati del confronto possano servire, oltre che a valutare l’opportunità degli interventi, a migliorare la progettazione delle opere, rendendole più rispondenti ai bisogni della collettività; che il confronto possa ridurre la conflittualità sociale che normalmente accompagna la progettazione e realizzazione delle grandi opere.

Il dibattito pubblico consiste in incontri di informazione, approfondimento, discussione e gestione dei conflitti, in particolare nei territori direttamente interessati, e nella raccolta di proposte e posizioni da parte di cittadini, associazioni e istituzioni (articolo 8, comma 2)[5].

Nel bilanciamento degli interessi contrapposti, il dibattito pubblico si svolge nelle fasi iniziali di elaborazione di un progetto di un’opera o di un intervento, in relazione ai contenuti del progetto di fattibilità ovvero del documento di fattibilità delle alternative progettuali, quando il proponente è ancora nelle condizioni di poter scegliere se realizzare l’opera e quali modifiche apportare al progetto originale. Il dibattito pubblico “su richiesta” di soggetti o gruppi qualificati potrà svolgersi invece fino all’avvio della progettazione definitiva.

Il dibattito pubblico è indetto dall’amministrazione che propone la realizzazione dell’opera, la quale si avvale della collaborazione del “coordinatore del dibattito pubblico”. Questi deve svolgere le attività affidategli con responsabilità e autonomia professionale ed è individuato dal Ministero competente per materia, tra i suoi dirigenti, o dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri se l’amministrazione aggiudicatrice è un Ministero, in modo al fine di garantirne l’indipendenza e la terzietà[6].

Il regolamento del 2018 prevede altresì la costituzione di una Commissione nazionale per il dibattito pubblico, con compiti di controllo sul rispetto della partecipazione e della corretta informazione del pubblico, di raccomandazione, di organizzazione.

La procedura del dibattito è avviata dall’amministrazione procedente, la quale trasmette alla Commissione nazionale il progetto di fattibilità ovvero il documento di fattibilità delle alternative progettuali, che contiene l’intenzione di avviare la procedura, la descrizione degli obiettivi e le caratteristiche del progetto, il tutto accompagnato da un dossier di progetto scritto in linguaggio chiaro e comprensibile, in cui è motivata l’opportunità dell’intervento e sono descritte le soluzioni progettuali proposte, comprensive delle valutazioni degli impatti sociali, ambientali ed economici.

Il coordinatore del dibattito pubblico valuta, ed eventualmente richiede, per una sola volta ed entro 15 giorni dalla sua ricezione, integrazioni e modifiche al dossier di progetto dell’opera predisposto dall’amministrazione aggiudicatrice; progetta le modalità di svolgimento del dibattito pubblico; elabora, entro un mese dal conferimento dell’incarico, il documento di progetto del dibattito pubblico, stabilendo i temi di discussione, il calendario degli incontri e le modalità di partecipazione e comunicazione al pubblico; definisce (e successivamente attua) il piano di comunicazione e informazione al pubblico; organizza e aggiorna il sito internet del dibattito pubblico. Egli ha il compito di favorire il confronto tra tutti i partecipanti al dibattito e far emergere tutte le posizioni in campo, anche attraverso il contributo di esperti, e deve segnalare alla Commissione eventuali anomalie nello svolgimento del dibattito pubblico e sensibilizzare l’amministrazione aggiudicatrice al rispetto dei tempi di svolgimento della procedura.

L’amministrazione aggiudicatrice, dal canto suo, deve fornire le informazioni sull’intervento e, ove significativo, sulle alternative progettuali esaminate nella prima fase del progetto di fattibilità, nonché partecipare in modo attivo agli incontri e alle attività previste dal dibattito pubblico e fornire il supporto necessario per rispondere ai quesiti emersi nel corso dello stesso.

Il dibattito ha una durata massima di quattro mesi, prorogabili di due mesi in casi di comprovata necessità, e si conclude con la presentazione, da parte del coordinatore, di una relazione conclusiva che descrive tutte le attività svolte e contiene la sintesi dei temi trattati e delle posizioni emerse, dando conto delle questioni aperte e maggiormente problematiche rispetto alle quali si chiede all’amministrazione aggiudicatrice di prendere posizione nel dossier conclusivo.

Il dossier conclusivo è redatto dall’amministrazione aggiudicatrice entro due mesi dal ricevimento della relazione conclusiva e deve evidenziare la volontà o meno di realizzare l’intervento, le eventuali modifiche da apportare al progetto, le ragioni che hanno condotto a non accogliere eventuali proposte. Al dossier conclusivo dell’amministrazione aggiudicatrice è allegata la relazione conclusiva del coordinatore, che ne costituisce parte integrante. I risultati delle consultazioni svolte nell’ambito del dibattito pubblico devono essere pubblicati sul sito dell’amministrazione aggiudicatrice, su quello della Commissione e su quelli delle amministrazioni locali interessate dall’intervento. Essi sono inoltre trasmessi dall’amministrazione aggiudicatrice all’autorità competente per la presentazione dell’istanza di valutazione di impatto ambientale.

È interessante notare che, successivamente all’entrata in vigore della normativa statale sul dibattito pubblico, è stata dichiarata incostituzionale la legge della Regione Puglia sulla partecipazione (l.r. n. 28/2017), analoga a quella toscana di cui abbiamo parlato, che estendeva alle grandi opere nazionali il dibattito pubblico regionale, determinando così un’interferenza con l’attività amministrativa di competenza dello Stato e, allo stesso tempo, un abuso della democrazia partecipativa e l’ingiustificato appesantimento della procedura di approvazione dell’opera (Corte Costituzionale, sentenza n. 235/2018).

Merita anche di essere precisato che, prima che fosse introdotta con il Codice degli appalti del 2016 la disciplina del dibattito pubblico sulle grandi opere infrastrutturali, l’assenza di una normativa di carattere generale non equivaleva al divieto per le pubbliche amministrazioni di fare ricorso a forme di consultazione popolare e partecipazione democratica, tanto che – sempre sulla falsariga del debat public francese – abbiamo già avuto in passato lo svolgimento di dibattiti pubblici su opere di interesse nazionale (la c.d. “Gronda” di Genova). Certo è che la mancanza di un obbligo di legge statale ha reso del tutto occasionale ed episodico l’utilizzo di questo strumento.

Per completare, la partecipazione dei cittadini rappresenta un principio generale anche nell’attività di erogazione dei servizi pubblici, rispetto alla quale essa riceve una disciplina speciale e autonoma da quella della legge generale sul procedimento amministrativo.

La partecipazione degli utenti è una costante delle “carte di servizio” che regolano i diversi settori (sanitario, scolastico, elettrico, gas, postale, trasporti, idrico) e che hanno lo scopo di valutare la qualità ed efficacia dei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, anche tramite operatori privati[7].

Dalla lettura delle norme si desume che la partecipazione degli utenti assume tre forme: della definizione della programmazione e degli interventi degli enti erogatori; nella fissazione dei livelli di qualità del servizio; nella verifica e misura del raggiungimento dei livelli prefissati di qualità e successivo alle prestazioni.

Le tecniche partecipative sono diverse. Nel momento che precede l’attività di erogazione, gli utenti e le associazioni rappresentative possono stabilire svolgere una funzione propositivo-consultiva attraverso l’inserimento stabile delle associazioni degli utenti negli organi interni degli enti operatori o delle autorità scelte per la funzione di vigilanza settoriale, o attraverso periodiche consultazioni da effettuarsi nell’ambito delle procedure di decisioni riguardanti aspetti delle prestazioni che coinvolgono gli utenti.

Successivamente all’erogazione della prestazione, le carte di servizio stabiliscono che gli enti erogatori debbano verificare il raggiungimento del livello di qualità delle prestazioni offerte con l’ausilio degli utenti, o predisponendo questionari di verifica od organizzando momenti di verifica in adunanze pubbliche oppure convocando le associazioni degli utenti e confrontando le rilevazioni sul grado di soddisfacimento. Rientrano sempre negli strumenti partecipativi ex post degli utenti anche le denunce o le proteste aventi come oggetto prestazioni risultate insoddisfacenti, cui fa obbligo da parte degli operatori una tempestiva risposta o chiarificazione. Gli utenti, attraverso la valutazione del servizio ricevuto, possono offrire dei parametri di raffronto che inducono gli operatori interessati a dirigere le proprie attività in vista di una soluzione dei punti di criticità emersi. Si può dire che tale forma di partecipazione è sì successiva all’attività erogativa prestata, ma in funzione degli obiettivi dell’attività futura.

Peraltro, se dal confronto dei vari strumenti di misurazione dei rendimenti delle prestazioni risultasse un mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati, che i gestori dei pubblici servizi si erano impegnati a garantire, gli enti dovranno rimborsare totalmente o parzialmente gli utenti.

Da ultimo, lo schema di decreto legislativo sui servizi di interesse economico generale (SIEG) prevede forme di consultazione pubblica per verificare l’interesse pubblico da soddisfare attraverso l’assunzione del servizio, le condizioni qualitative ed economiche da garantire, le modalità con le quali perseguire l’interesse pubblico (imposizione di obblighi di servizio pubblico a carico di tutte le imprese che operano nel mercato, riconoscimento agli utenti di vantaggi economici da utilizzare per la fruizione del servizio, obbligo di servizio pubblico a carico di uno o più operatori economici).

Ricordo che nella materia dei SIEG il giudice amministrativo italiano dispone della giurisdizione esclusiva, vale a dire conosce sia delle situazioni di interesse legittimo, che dei diritti soggettivi, inclusi in diritti fondamentali degli individui, indipendentemente dalla natura del potere amministrativo esercitato (vincolato, discrezionale, tecnico-discrezionale: Cons. Stato, A.P. n. 7/2016).

Una volta ricostruito il sistema delle fonti e i diversi contenuti che la partecipazione ai procedimenti decisionali dell’amministrazione pubblica può assumere (partecipazione difensiva, collaborativa, democratica), resta da esaminare l’atteggiamento della giurisprudenza italiana nei confronti delle regole partecipative.

Tenterò di affrontare la questione sotto due differenti aspetti, o, se preferite, possibili punti di vista: cosa accade, in un processo davanti al giudice amministrativo che abbia per oggetto l’impugnazione di un provvedimento, quando si accerti che le regole partecipative siano state violate e cosa può accadere, al contrario, quando le regole siano state rispettate.

Cominciamo col dire che la casistica giurisprudenziale in tema di partecipazione dei cittadini ai procedimenti amministrativi è praticamente sterminata quando si tratta dell’applicazione delle regole stabilite dalla legge generale sul procedimento amministrativo, che, ve lo ricordo, disciplina forma di partecipazione a carattere sostanzialmente difensivo o, al più, collaborativo.

La casistica si riduce drasticamente quando si tratta degli istituti di partecipazione democratica o democrazia partecipativa, che, lo abbiamo visto, hanno avuto un consistente sviluppo a livello normativo solo negli ultimi anni e che fino ad ora non hanno dato luogo a un contenzioso significativo dal punto di vista numerico.

A questa premessa, va aggiunto un avvertimento preliminare.

In alcune materie, come quella del governo del territorio, i legislatori regionali estendono a chiunque la legittimazione a partecipare al procedimento di formazione dei piani urbanistici. Questo non significa che chiunque abbia partecipato al procedimento, ad esempio presentando osservazioni, sia poi legittimato ad agire in giudizio avvero il piano approvato, nel caso in cui le sue osservazioni non siano state accolte.

È pacifico, in altri termini, che dall’aver partecipato in concreto al procedimento non deriva automaticamente la legittimazione a rivolgersi al giudice, la quale richiede che la posizione di chi agisce in giudizio sia differenziata da quella della collettività dei cittadini in virtù di un pregiudizio immediato e diretto che deriva dal provvedimento amministrativo. E questa posizione differenziata, nel caso dei piani urbanistici, non è data neppure dalla semplice vicinanza tra la proprietà e i beni del ricorrente e le aree interessate dal piano: al ricorrente non basta dimostrare di essere proprietario di beni che ricadono nell’ambito operativo del piano, ma deve dimostrare le scelte pianificatorie incidono in qualche modo sul godimento o sul valore di mercato dell’area di sua proprietà, o su altri interessi suoi propri, quali, soprattutto, quelli alla salute o al valore ambientale; e tale onere è tanto più pressante, quanto maggiore è la valenza generale dell’atto impugnato.

Ecco allora che i diritti partecipativi riconosciuti dalla legge finiscono per essere privati di buona parte della loro effettività, se il loro titolare non è poi ammesso alla tutela giurisdizionale per contestarne la violazione.

Il controllo rigoroso sulla legittimazione e l’interesse ad agire è presente anche nella giurisprudenza più recente, che, d’altro canto, sempre nella materia urbanistica si mostra invece propensa a estendere anche alle associazioni ambientaliste la legittimazione a impugnare i piani territoriali, nella misura in cui possano comportare danno per l’ambiente in senso lato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19 febbraio 2015, n. 839).

Nella ricerca del giusto punto di equilibrio fra le opposte esigenze di non consentire l’azione giurisdizionale ai titolari di interessi di mero fatto, se non addirittura emulativi, e di non vanificare il contenuto dei diritti partecipativi, non possiamo dimenticare l’insegnamento della Corte di Giustizia UE, la quale – occupandosi della direttiva 85/337 sulla VIA – afferma in termini generali che la circostanza, secondo cui le norme nazionali aprono ampie possibilità di partecipare a monte al procedimento di elaborazione della decisione relativa a un’operazione, non è affatto idonea a giustificare che il ricorso giurisdizionale contro la decisione adottata al suo esito venga ammesso soltanto a condizioni restrittive. Se è vero che l’art. 1, n. 2, della direttiva 85/337, in combinato disposto con l’art. 10-bis della medesima, affida ai legislatori nazionali il compito di determinare i presupposti che possono essere richiesti affinché un’organizzazione non governativa che promuove la protezione dell’ambiente possa beneficiare del diritto di ricorso, deve essere comunque assicurato “un ampio accesso alla giustizia” in modo da conferire alle disposizioni comunitarie il loro effetto utile. Di conseguenza, la disciplina nazionale non deve minacciare di svuotare di qualsiasi portata le disposizioni comunitarie secondo le quali coloro che vantano un interesse sufficiente per contestare un progetto e i titolari di diritti lesi da quest’ultimo, tra cui le associazioni di tutela dell’ambiente, devono poter agire dinanzi al giudice competente.

Superato lo scoglio della legittimazione, non vi sono ostacoli ad accertare da parte del giudice l’eventuale violazione dei diritti partecipativi del ricorrente e ad annullare il provvedimento impugnato anche solo per questo aspetto. O meglio, non vi sono ostacoli a meno che l’amministrazione non dimostri che, sebbene la partecipazione sia mancata, il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Anche la legge generale italiana sul procedimento amministrativo contiene, infatti, una disposizione simile a quella tedesca, che impedisce al giudice l’annullamento quando, in sostanza, si dimostri che la partecipazione – quella, lo ricordo, di stampo difensivo prevista dalla stessa legge – non avrebbe potuto cambiare le cose (art. 21-octies co. 2 della legge n. 241/1990). La prova, a carico dell’amministrazione, è assai difficoltosa da raggiungere in tutte le ipotesi di attività discrezionale e la norma è interpretata con estremo rigore dalla giurisprudenza, trattandosi di un atto amministrativo viziato, illegittimo, che solo eccezionalmente può venire sottratto all’annullamento in nome del principio del raggiungimento dello scopo della norma.

È molto più esiguo, come dicevo, il numero di casi in cui il giudice amministrativo si è trovato a confrontarsi con modelli normativi di partecipazione democratica più “evoluti” rispetto alla partecipazione disciplinata dalla legge sul procedimento amministrativo.

In alcune occasioni, si è ritenuto che l’omissione di formalità propedeutiche all’adozione dello strumento urbanistico fosse irrilevante, posto che la fattiva partecipazione dell’interessato al procedimento non era stata impedita in concreto (T.A.R. Lombardia – Milano, sez. II, 13 ottobre 2015, n. 2153).

In altre occasioni, la mancata attivazione degli strumenti partecipativi propedeutici alla fase di adozione dell’atto di governo del territorio, previsti dalla normativa regionale, è stata invece sanzionata. In un caso, l’amministrazione intimata in giudizio sosteneva di aver assolto ai propri obblighi di informazione e consultazione della popolazione mediante l’indizione di un incontro pubblico e di incontri individuali con i cittadini interessati. I vari momenti partecipativi organizzati dall’amministrazione si collocavano, tuttavia, in epoca successiva all’adozione dello strumento urbanistico: rileggendo la pertinente normativa regionale anche alla luce della Convenzione di Aarhus, il giudice li ha pertanto reputati inidonei a garantire la diffusione dei dati informativi in una fase precoce del procedimento e a permettere, così, l’esercizio del controllo preventivo diffuso sulle iniziative suscettibili di alterare gli equilibri territoriali (T.A.R. Toscana, sez. I, 20 agosto 2014, n. 1372).

Si è pure ritenuto che, pur in mancanza di specifiche norme regionali, le amministrazioni siano tenute comunque a rispettare gli obblighi di informazione preventiva sanciti dalla Convenzione di Aarhus. A questo fine è stata giudicata idonea convocazione di assemblee pubbliche, nel corso delle quali l’amministrazione aveva invitato i cittadini a presentare suggerimenti e proposte ed inviato alla cittadinanza opuscoli informativi, consentendo loro di partecipare al procedimento decisionale in conformità alla norma regionale che prescriveva di dare idonea pubblicità agli avvisi di avvio della procedura (T.A.R. Lombardia – Milano, sez. II, 17 febbraio 2011, n. 481).

Nella materia ambientale, la giurisprudenza ha anche reputato illegittimo il procedimento di approvazione di un intervento, nell’ambito del quale l’informazione del pubblico a mezzo diffusione della notizia su quotidiano locale era avvenuta non contestualmente alla presentazione della domanda, ma successivamente al parere della commissione VIA/VAS, risultandone perciò compromessa la funzione partecipativa della pubblicazione (T.A.R. Lazio – Roma, sez. II, 1 ottobre 2012, n. 8200); ovvero, ha affermato l’inapplicabilità del principio generale, in base al quale le delibere di approvazione di un piano di lottizzazione sono atti soggetti a pubblicità legale, costituente anche il momento di decorrenza del termine per la relativa impugnativa, perché nel caso specifico il meccanismo ordinario di pubblicazione non aveva garantito un’adeguata conoscenza dell’intervento edilizio nel suo complesso e della sua effettiva rilevanza ambientale (T.A.R. Sardegna, sez. II, 6 febbraio 2012, n. 91).

Cambiando prospettiva, veniamo al caso in cui i diritti partecipativi siano stati rispettati in tutte le loro forme, e, nondimeno, le scelte dell’amministrazione vengano impugnate davanti al giudice per ragioni che riguardano la correttezza delle scelte stesse sul piano sostanziale.

La giurisprudenza amministrativa italiana non dubita della possibilità che il giudice sindachi, sia pure con alcuni limiti, anche le scelte tecniche dell’amministrazione, come possono essere almeno in parte quelle che stanno alla base dell’approvazione del progetto di un’opera pubblica, o di un piano urbanistico. In ogni caso, la circostanza che la decisione amministrativa sia stata assunta al termine di un procedimento partecipato, magari anche all’esito di un dibattito pubblico, non esclude il sindacato giurisdizionale e non ne riduce l’ampiezza: non pare immaginabile che in nome della democrazia partecipativa si riducano le tutele del cittadino nei confronti di quello che, in ultima analisi, resta comunque un esercizio di potere amministrativo, sia pure circondato di particolari garanzie.

Occorre fare attenzione a sopravvalutare, in qualche misura, il ruolo della partecipazione democratica, perché non può sfuggirci il rischio che ad emergere dal dibattito pubblico e a prevalere non siano gli interessi della maggioranza o quelli che meritano effettivamente maggiore tutela, ma quelli delle minoranze meglio organizzate e dotate di maggiore capacità aggregativa. Mentre il giudice non può che mettersi nella posizione di assicurare la legittimità dell’azione amministrativa, facendosi carico, se del caso, anche degli interessi dei più deboli o di coloro che, per qualsiasi ragione, non abbiano inteso esercitare i propri diritti di partecipazione nel procedimento.

In questo senso, il filtro della legittimazione ad agire in giudizio svolge una funzione utile, perché se da un lato esclude dal processo i soggetti non direttamente interessati, dall’altro permette di ottenere giustizia ai soggetti che dalla decisione amministrativa abbiano subito un pregiudizio, indipendentemente dal ruolo rivestito nella fase del procedimento.

Vero è che il dibattito pubblico, nella forma oggi conosciuta anche dall’ordinamento italiano, ha senz’altro il pregio di mettere a disposizione dell’amministrazione un maggior numero di informazioni, dati e opinioni tecnico-scientifiche, che vengono condivisi con i cittadini. Questo rende più efficiente ed efficace l’azione amministrativa e rafforza la decisione, che avrà maggiori probabilità di resistere a un’eventuale impugnativa giurisdizionale. La legittimazione democratica che la scelta amministrativa riceve dal dibattito pubblico non esclude però l’eventualità che essa venga sottoposta al vaglio del giudice, il quale a sua volta potrà avvalersi del quadro informativo-conoscitivo frutto della consultazione e dell’istruttoria condotta dall’amministrazione, e su tali ampie basi verificherà la correttezza e legittimità della decisione finale, senza farsi condizionare dagli esiti “democratici” della consultazione.

In definitiva, mi pare di poter concludere – come già mi è capitato di fare in altre occasioni in cui ho trattato questi temi – che di fronte ai diritti di partecipazione l’atteggiamento dell’operatore del diritto, e del giudice in particolare, debba essere improntato alla verifica rigorosa, caso per caso, del contenuto delle norme attributive di quei diritti, con riferimento all’individuazione dei soggetti legittimati, all’ampiezza delle prerogative loro offerte e alla possibile incidenza della partecipazione sull’attività decisoria rimessa, in ultima analisi, all’amministrazione. Quello che il giudice non deve fare è rimanere ancorato alle vecchie massime, che non tengono conto del contenuto dei nuovi diritti partecipativi riconosciuti dalla legge, ma neppure servirsi di scale di valore da lui determinate al di fuori di quanto la legge stabilisce.

 Cons. Pierpaolo Grauso

magistrato amministrativo

[1] Tralascio volutamente il tema della partecipazione che si realizza e sfocia nella conclusione di accordi tra la pubblica amministrazione e il privato, ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241/1990 (in qualche misura avvicinabili al contratto di diritto pubblico disciplinato dalla legge tedesca sul procedimento amministrativo).

[2] Si prevedeva che l’inchiesta pubblica avesse luogo nel Comune in cui era proposta l’ubicazione della centrale, oppure nel capoluogo di provincia, sotto la presidenza di un magistrato del Consiglio di Stato assistito da 3 esperti designati dal Ministero dell’ambiente e da 3 esperti, di comprovata competenza nel settore, designati rispettivamente dalla regione, dalla provincia e dal comune interessati. Chiunque ne avesse interesse poteva fornire contributi di valutazione sul piano scientifico e tecnico attraverso la presentazione di memorie scritte strettamente inerenti l’installazione della centrale sul sito proposto e le sue conseguenze sul piano ambientale. L’inchiesta, che poteva anche prevedere lo svolgimento di audizioni, si concludeva con la trasmissione al Ministero dell’ambiente delle memorie presentate, con una relazione di sintesi delle attività svolte.

[3] L’inchiesta è condotta da un comitato composto dal presidente e da almeno due commissari, tutti esperti in materia ambientale. La composizione della commissione deve garantire il bilanciamento di eventuali posizioni contrapposte. L’inchiesta si compone di almeno tre audizioni aperte al pubblico, ognuna delle quali si può articolare in una o più sessioni: a) audizione preliminare, in cui il presidente procede alla indicazione dei commissari e presenta ai partecipanti la proposta di programma dei lavori; b) audizione generale, in cui sono discussi tutti gli aspetti, programmatici, progettuali ed ambientali del progetto oggetto di valutazione, nonché le osservazioni, i pareri e i contributi pervenuti all’autorità competente nell’ambito del procedimento; c) audizione finale, in cui il presidente illustra la relazione finale sui lavori svolti recante anche il giudizio sui risultati emersi, in collaborazione con i commissari. Alle audizioni possono partecipare: gli autori di eventuali osservazioni, il proponente e gli estensori del progetto e dello studio di impatto ambientale, nonché i soggetti competenti in materia ambientale. Sono altresì ammessi a partecipare alle audizioni gli ulteriori soggetti che ne facciano richiesta.

[4] Il legislatore toscano riconosce il diritto di partecipare alle politiche regionali e locali, e lo riconosce non soltanto ai cittadini, ma anche agli stranieri residenti e comunque a tutte le persone che lavorano, studiano o soggiornano nel territorio le quali hanno interesse al territorio stesso o all’oggetto del processo partecipativo. È istituita un’Autorità indipendente per la garanzia e la promozione della partecipazione, con il compito, fra l’altro, di indire il dibattito pubblico sulle grandi opere di iniziativa pubblica o privata che interessano il territorio regionale. Il dibattito pubblico è definito dalla legge come “processo di informazione, confronto pubblico e partecipazione su opere, progetti o interventi che assumono una particolare rilevanza per la comunità regionale, in materia ambientale, territoriale, paesaggistica, sociale, culturale ed economica.”; esso si svolge, di norma, nelle fasi preliminari di elaborazione di un progetto, o di un’opera o di un intervento, quando tutte le diverse opzioni sono ancora possibili, ma può svolgersi anche in fasi successive, purché prima dell’avvio della progettazione definitiva. La legge prevede peraltro che gruppi di cittadini, ma anche gli enti locali o le istituzioni scolastiche o le imprese, possano chiedere all’Autorità l’ammissione di progetti partecipativi diversi dal dibattito pubblico, sempre in relazione a opere, progetti o interventi da realizzare nel territorio di riferimento.

[5] Esso deve essere organizzato e gestito in relazione alle caratteristiche dell’intervento e alle peculiarità del contesto sociale e territoriale di riferimento, ed è obbligatorio per le opere che presentino le soglie dimensionali individuate dal regolamento incrociando il criterio finanziario con quello dimensionale. Le soglie sono ridotte del 50% se gli interventi ricadono, anche in parte, su beni del patrimonio culturale e naturale iscritti nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco, nella “zona tampone” come definita nelle Linee guida operative emanate dall’Unesco, nei parchi nazionali e regionali e nelle aree marine protette.

Inoltre, il dibattito pubblico è obbligatorio anche per opere inferiori alle soglie (entro i due terzi del valore di soglia) su richiesta qualificata della Presidenza del Consiglio, di un consiglio regionale, o di una provincia o di una città metropolitana o di un comune capoluogo di provincia di uno o più consigli comunali o di unioni di comuni territorialmente interessati dall’intervento, se complessivamente rappresentativi di almeno 100.000 abitanti, oppure di almeno 50.000 cittadini elettori nei territori in cui è previsto l’intervento, o, ancora, di almeno un terzo dei cittadini elettori per gli interventi che interessano le isole con non più di 100.000 abitanti e per il territorio di comuni di montagna.

Resta fermo che il dibattito pubblico può comunque essere effettuato ogniqualvolta l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore ne rilevino l’opportunità.

[6] Il coordinatore è individuato tra soggetti di comprovata esperienza e competenza nella gestione di processi partecipativi ovvero nella gestione ed esecuzione di attività di programmazione e pianificazione in materia infrastrutturale, urbanistica, territoriale e socio-economica. In assenza di dirigenti pubblici in possesso di tali requisiti, il coordinatore può essere individuato dall’amministrazione aggiudicatrice in esito a procedura di appalto di servizi.

Non possono assumere l’incarico di coordinatore i soggetti residenti o domiciliati nel territorio di una provincia o di una città metropolitana ove la stessa opera è localizzata.

 

[7] Vi è poi tutta una serie di norme speciali che, di nuovo, regolano altre forme di partecipazione del pubblico nell’ambito di settori di servizi pubblici (es. l’art. 14 d.lg. 30 dicembre 1992, n. 502 come mod. dal d.lg. 7 dicembre 1993, n. 517 e dall’art. 11 bis d.lg. 19 giugno 1999, n. 229, riguardante la partecipazione degli utenti nel settore del servizio sanitario; l’art. 2 comma 12 lett. h, m, n e comma 23 l. 11 novembre 1995, n. 481, riguardante la partecipazione ai servizi presieduti dall’Autorità di regolazione dei servizi per l’energia elettrica e il gas; l’art. 1 comma 28 l. n. 249 del 1997, riguardante la partecipazione ai servizi cui fa capo l’Autorità garante nelle comunicazioni).