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Relazione italiana del Cons. Pierpaolo Grauso – Firenze 11 ottobre 2019

La partecipazione ai processi decisionali dell’Amministrazione da parte dei cittadini  e i relativi rapporti tra PA e GA

Firenze, 11 ottobre 2019 – intervento del relatore italiano Cons. Pierpaolo Grauso

La partecipazione dei cittadini alle scelte amministrative che li riguardano come individui e come appartenenti a una determinata collettività, o gruppo di interessi, è un fenomeno variamente disciplinato dall’ordinamento giuridico italiano, che, come sapete, è caratterizzato da un’accentuata pluralità dei livelli di governo e di regolazione.

Le norme in materia di partecipazione costituiscono il nucleo della legge generale sul procedimento amministrativo (legge dello Stato 7 agosto 1990, n. 241), e, a suo tempo, ne hanno rappresentato uno degli elementi di maggiore novità, nella misura in cui, per la prima volta, i diritti partecipativi dei cittadini hanno trovato consacrazione in veri e propri istituti di diritto positivo.

Nella legge generale sul procedimento amministrativo, la partecipazione assume in primo luogo un significato di garanzia della posizione dei soggetti coinvolti dall’attività della pubblica amministrazione, nella prospettiva del conflitto tra la parte pubblica e la parte privata (si vedano l’art. 7 della legge n. 241/1990, in forza dei quali debbono obbligatoriamente partecipare al procedimento i soggetti “nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti”, ovvero i soggetti a carico dei quali il provvedimento finale possa produrre un pregiudizio; e il successivo art. 9, che dà facoltà di intervenire nel procedimento ai portatori di interessi pubblici o privati, nonché ai portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, “cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento” finale).

Da questa prospettiva, la giurisprudenza ha sviluppato la nozione e il principio del “giusto procedimento”, secondo cui i soggetti privati destinatari di un provvedimento amministrativo limitativo dei loro diritti debbono essere messi in condizione di esporre le proprie ragioni prima che il provvedimento stesso venga adottato dalla pubblica amministrazione. Nessuno dubita che si tratti di un principio fondamentale dell’ordinamento italiano (sebbene non di rango costituzionale: Corte Cost. nn. 71/2015, 312, 210 e 57 del 1995, 103 del 1993 e 23 del 1978; ordinanza n. 503 del 1987), a maggior ragione, oggi, alla luce dell’art. 41 della Carta di Nizza.

Al di là del tenore testuale delle norme, negli istituti di partecipazione disciplinati dalla legge n. 241/1990 gli studiosi e la giurisprudenza ravvisano – accanto alla dimensione difensiva – una dimensione collaborativa, volta a consentire alla pubblica amministrazione di acquisire elementi e informazioni utili per arricchire le proprie conoscenze relativamente all’oggetto del procedimento in corso e per assumere una decisione più ponderata[1].

Nella legge generale italiana sul procedimento manca, invece, la terza dimensione che gli studiosi sono soliti attribuire alla partecipazione procedimentale, quella in chiave democratica. In questa ottica, la partecipazione si traduce nella possibilità per la società civile di esprimere la propria opinione all’interno del processo di formazione della decisione amministrativa: il corpo sociale viene coinvolto e concorre alla formazione della decisione, la quale viene così a non essere più calata dall’alto, ha una migliore “qualità e legittimazione democratica” e, pertanto, maggiori chance di risultare accettabile almeno alla maggioranza dei suoi destinatari, particolarmente nel caso delle grandi opere pubbliche, o delle attività aventi sensibile impatto ambientale.

Mi riferisco, evidentemente, a istituti come l’inchiesta pubblica o il dibattito pubblico, da tempo noti ad altri ordinamenti, ma che in Italia non sono oggetto di disposizioni di carattere generale e che a livello statale solo in tempi recentissimi hanno ricevuto una regolamentazione compiuta, nel settore delle opere pubbliche.

A dire il vero, lo schema originario della legge n. 241/1990 (predisposto dalla commissione presieduta dal prof. Mario Nigro”) prevedeva lo svolgimento di una “istruttoria pubblica” per l’adozione di strumenti urbanistici, piani commerciali e paesistici, localizzazione di centrali energetiche e per l’esecuzione di opere pubbliche, incidenti in modo rilevante sull’economia e sull’assetto del territorio interessato. Tale previsione non solo è stata eliminata dal testo finale della legge, ma questa stabilisce (art. 13 della legge n. 241/1990) che le garanzie partecipative di ordine generale non si applicano ai procedimenti “diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione”, vale a dire proprio in quei casi in cui l’esigenza di partecipazione diffusa dei cittadini sono oggi maggiormente avvertite. Per queste tipologie di procedimenti, la legge 241/1990 rinvia alle specifiche discipline di settore e, lo vedremo subito, nei settori sensibili dell’ambiente e del governo del territorio la legislazione statale e regionale conosce forme di partecipazione ampia, che riecheggiano il principio e il modello democratico.

Merita ancora di essere precisato che, nel sistema della legge generale sul procedimento amministrativo, gli istituti della partecipazione attengono ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117 co. 2 lett. m) della Costituzione. La determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni è riservata alla legge dello Stato, il che significa che le leggi regionali possono, se del caso, fornire livelli di garanzia maggiori, ma mai inferiori a quelli stabiliti dalla legge generale sul procedimento.

La dimensione democratica della partecipazione, assente nella legge generale dello Stato sul procedimento amministrativo, compare – accanto alla partecipazione che ho definito “difensiva” – in alcune leggi regionali sul procedimento amministrativo (si tratta di materia nella quale lo Stato e le Regioni/Province autonome esercitano una potestà legislativa concorrente), immediatamente successive alla legge n. 241/1990, che conoscono istituti quali l’istruttoria pubblica (art. 18 della legge regionale Sardegna n. 40/1990, che riproduce l’istituto a suo tempo elaborato dalla “commissione Nigro”; art. 15 l.r. Lazio n. 57/1993, per il caso in cui “la natura o la complessità della questione lo richiedano, in relazione all’ampiezza ed alla rilevanza degli interessi coinvolti”, dietro valutazione di opportunità del responsabile del procedimento), le audizioni  pubbliche (art. 15 l.r. Emilia-Romagna n. 32/1993, secondo cui l’audizione si svolge mediante “discussione in apposita riunione pubblicamente convocata alla quale possono prendere parte le Amministrazioni pubbliche, le organizzazioni sociali e di categoria, le associazioni ed i gruppi portatori di interessi collettivi o diffusi, che vi abbiano interesse”), l’inchiesta pubblica per la realizzazione di opere, interventi o programmi di intervento che siano suscettibili di produrre rilevanti modificazioni degli assetti territoriali ed ambientali (art. 11 l.r. Abruzzo n. 11/1999: l’inchiesta “consiste nel fornire una completa informazione sul progetto al pubblico nelle forme più idonee al raggiungimento dello scopo e raccogliere osservazioni, proposte e controproposte al fine di acquisire tutti gli elementi necessari per una decisione ponderata sulla realizzazione dell’intervento”).

Di maggior rilievo, in termini operativi, sono tuttavia le previsioni dettate dai legislatori statale e regionali nelle specifiche materie dell’ambiente e dell’urbanistica/governo del territorio.

L’Italia ha ratificato con legge n. 108/2001 la Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, in materia di accesso all’informazione, partecipazione dei cittadini e accesso alla giustizia in materia ambientale.

Fra le misure adottate per assicurare l’attuazione dell’art. 6 della convenzione, che assicura appunto la partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale, vi è tutta la disciplina dettata dal Codice dell’ambiente (decreto legislativo n. 152/2006) per le procedure di valutazione ambientale strategica, valutazione di impatto ambientale e autorizzazione integrata ambientale, che prevedono meccanismi di consultazione di tutti i soggetti interessati.

In particolare, il Codice prevede una varietà di strumenti partecipativi, a partire dalla “consultazione” del pubblico su piani e programmi che possono avere impatti significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale, e che consente a chiunque di prendere visione della proposta di piano o programma e del relativo rapporto ambientale e presentare proprie osservazioni in forma scritta, anche fornendo nuovi o ulteriori elementi conoscitivi e valutativi (artt. 14 e 24).

Ai fini della valutazione di impatto ambientale, la consultazione può (dunque facoltativamente) assumere la forma della vera e propria “inchiesta pubblica” (art. 24-bis, introdotto nel 2017), se così disposto dall’autorità competente. Gli oneri dell’inchiesta sono a carico del soggetto che presenta il progetto da approvare, si svolge nel termine di novanta giorni e si conclude con una relazione sui lavori svolti ed un giudizio sui risultati emersi, predisposti dall’autorità competente.

Anche il rilascio delle autorizzazioni integrate ambientali per l’esercizio di impianti soggetti al rispetto delle normativa europea IPPC (Integrated Pollution Prevention and Control) deve essere preceduto dalla consultazione del pubblico nella forma della messa a disposizione di tutti i documenti e gli atti del procedimento e della presentazione di osservazioni scritte (contributi individuali), delle quali deve darsi conto in sede di rilascio dell’autorizzazione.

Nella materia ambientale, l’inchiesta pubblica era stata in effetti prevista sin dal primo recepimento della normativa europea sulla valutazione di impatto ambientale nel 1986 (art. 6 della legge n. 349/1986, istitutiva del Ministero dell’ambiente), e il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 27 dicembre 1988 ne aveva dettato le regole di svolgimento nell’ambito della procedura di approvazione dei progetti di centrali termoelettriche e turbogas[2].

L’inchiesta pubblica compare anche in diverse legislazioni regionali che si sono occupate e si occupano di valutazione di impatto ambientale, che, ancora una volta, la prevedono come strumento facoltativo e non obbligatorio. In Toscana abbiamo avuto la legge n. 68/1995, seguita dalla legge n. 79/1998 e, ora, dalla legge 10/2010, il cui art. 53 è dedicato all’inchiesta pubblica, che disciplina dettagliatamente[3].

Venendo all’urbanistica, negli ultimi anni, la legislazione e, di conseguenza, la giurisprudenza hanno progressivamente riconosciuto all’urbanistica un ruolo che va molto oltre la suddivisione del territorio in zone cui attribuire funzioni d’uso e destinazioni (zoning). Nell’esercitare i propri poteri di governo del territorio, le amministrazioni debbono tenere conto delle esigenze abitative della comunità di riferimento e della concreta vocazione dei luoghi, senza però trascurare i valori ambientali e paesaggistici, le esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, ma anche le esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio. Si tratta, cioè, di un’attività e di scelte amministrative che attengono al modello di sviluppo in senso lato che si vuole imprimere a un determinato contesto territoriale.

Se è così, la partecipazione dei portatori dei diversi interessi coinvolti – individuali, collettivi, diffusi – diviene un momento ineliminabile di acquisizione delle conoscenze necessarie all’amministrazione pubblica onde conseguire il miglior assetto possibile del territorio di competenza, attraverso decisioni che in tal modo finiscono anche per ricevere una più piena legittimazione democratica. Dovrebbe dunque risultarne esaltata la partecipazione in funzione di ausilio della pubblica amministrazione (per accrescerne l’efficacia) e di coinvolgimento preventivo della comunità interessata, più che la partecipazione con finalità difensive di tutela degli interessi individuali incisi dalla pianificazione.

La legislazione statale non prevede forme di partecipazione democratica basate sulla consultazione del pubblico. Lo strumento principe per l’esercizio della partecipazione continua, infatti, ad essere costituito dalle osservazioni/opposizioni scritte, che intervengono però in una fase avanzata del procedimento, quando lo strumento di pianificazione o di governo del territorio è stato quantomeno già adottato. Esse nascono nella legge urbanistica fondamentale del 1942 e sono consentite a “chiunque”, ricevendo perciò una connotazione a cavallo tra la difesa di interessi individuali e l’apporto collaborativo, ma non si prestano a svolgere quel ruolo propulsivo e di legittimazione democratica che si vorrebbe riconoscere alla partecipazione nella fase programmatoria delle azioni di governo del territorio, in vista della realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici e di valori costituzionalmente garantiti (quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost.).

Sono alcune legislazioni regionali, ancora una volta, ad affiancare alla partecipazione di stampo oppositivo/difensivo forme di partecipazione diffusa e democratica. Va ricordato che, in termini generali, la Corte Costituzionale ha da tempo chiarito (sentenza n. 379/2004) come il ricorso a forme di consultazione del corpo sociale e dei suoi organismi rappresentativi (es. associazioni di cittadini) non costituisca un ostacolo alla funzionalità delle istituzioni regionali e che il riconoscimento dell’autonomia degli organi rappresentativi non venga affatto negato da un disciplina trasparente dei rapporti fra le istituzioni rappresentative e frazioni della cosiddetta società civile.

Nelle legislazioni regionali è presente una varietà di istituti partecipativi, che vanno dalla presentazione di osservazioni scritte da parte dei cittadini fin dalla fase iniziale di presentazione e formazione del piano da adottare (l.r. Lombardia n. 12/2005; l.r. Liguria n. 36/1997; l.r. Calabria n. 19/2002; l.r. Puglia n. 20/2001; l.r. Piemonte n. 36/1997; l.r. Umbria n. 1/2015), alle “udienze pubbliche” per illustrare alla cittadinanza il progetto del piano urbanistico comunale (art. l.r. Liguria n. 36/1997), ai “laboratori di partecipazione” (urbani, di quartiere, territoriali), che possono riguardare anche le opere pubbliche, oltre che i piani urbanistici (art. 11 l.r. Calabria n. 19/2002), alla creazione di apposite strutture che fanno capo ai “garanti” dell’informazione e della comunicazione, figure istituite con il compito di assicurare appunto la conoscenza da parte dei cittadini dei contenuti dei piani territoriali da approvare e dei relativi effetti anche paesaggistici. Questo è il caso, ad esempio, della Regione Toscana (l.r. n. 65/2014), che prevede l’istituzione di un “garante dell’informazione e della partecipazione”, che non può essere un componente delle assemblee elettive della Regione o degli enti locali (consigliere regionale, provinciale o comunale), né il progettista del piano territoriale da approvare, e neppure il responsabile del procedimento di approvazione del piano.

Nel rispetto del principio di proporzionalità, di derivazione europea, la legge toscana stabilisce che le forme e le modalità di informazione e partecipazione dei cittadini sono individuate dai Comuni interessati in ragione dell’entità e dei potenziali effetti degli interventi previsti.

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