Agatif | RELAZIONI
AGATIF propone lo scambio di esperienze professionali, anche nel quadro del diritto comunitario, la comparazione del diritto amministrativo e del diritto processuale amministrativo nei Paesi europei.
Agatif, giudici amministrativi italiani, tar lombardia, tar lazio, diritto amministrativo, avvocati amministrativi italiani, giudici amministrativi francesi, giudici amministrativi tedeschi, giurisprudenza, convegni diritto amministrativo
21892
paged,page,page-id-21892,page-template,page-template-blog-large-image,page-template-blog-large-image-php,paged-9,page-paged-9,ajax_fade,page_not_loaded,,select-theme-ver-3.1,wpb-js-composer js-comp-ver-4.11.2.1,vc_responsive

RELAZIONI

Relazione italiana dell’avv. Claudio Sironi – Spira – 29/09/2017

“Le controversie tra persone giuridiche di diritto pubblico davanti al giudice amministrativo”

1. Prima di entrare nel cuore del tema, occorre partire da alcune considerazioni preliminari relative all’ordinamento italiano.
Lo Stato (inteso come amministrazione) è un soggetto giuridico che agisce per fini propri, al pari degli altri soggetti pubblici o privati, ed è tenuto al rispetto delle norme giuridiche vigenti. Lo Stato è l’ente pubblico per eccellenza.
Lo Stato non è, tuttavia, l’unico ente pubblico. Nell’ordinamento italiano vige, infatti, il principio del pluralismo della Pubblica Amministrazione per cui coesistono, accanto allo Stato, altri soggetti dotati di capacità giuridica privata e di capacità giuridica pubblica.
L’art. 11 del Codice Civile prevede, infatti, che “le province e i comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”
L’art. 114 della Costituzione prevede, inoltre, che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Provincie, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statu, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.
Lo Stato è costituito, quindi, da enti pubblici territoriali così chiamati perché il territorio è l’elemento costitutivo di tali enti. Ogni punto del territorio nazionale appartiene a un solo Comune, a una sola Provincia, a una sola Regione. Per questi enti, il territorio rappresenta sia l’ambito sia l’oggetto dell’attività e ne costituisce elemento della personalità.
Gli enti territoriali sono i portatori, quindi, degli interessi generali della collettività che vive su quel determinato territorio, attraverso l’esercizio del potere autoritativo e l’emanazione di atti autoritativi, sia con riferimento all’attività organizzatoria, sia verso i terzi; l’elemento del territorio rappresenta, quindi, anche l’ambito che delimita la sfera di competenza ed efficacia dei poteri degli enti territoriali.
Alla luce di quanto sopra, appare evidente, che la Costituzione ha optato per l’adozione del principio di decentramento amministrativo (in opposizione al modello dello stato centrale) che si basa su un’organizzazione che prevede la distribuzione delle competenze decisionali tra soggetti diversi.
La distribuzione delle competenze avviene secondo il principio della sussidiarietà; in base a tale principio le funzioni politiche e amministrative dei singoli enti si intendono sussidiarie rispetto alle funzioni attribuite agli enti superiori (ad esempio, le attribuzioni del Comune sono sussidiarie rispetto quella della Regione) .
Occorre osservare, infine, che ai sensi dell’art. 1, comma 2 del D.lgs. 30 marzo 2001, “per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300” (si pensi ad esempio alle Agenzie delle Entrate e le Agenzie delle Dogane).
Tale norma ha allargato notevolmente il concetto di persona giuridica di diritto pubblico. Un ente si può qualificare come pubblico soltanto quando gli sia attribuito dalla legge o da un provvedimento amministrativo, fondato su una previsione di legge, la personalità giuridica pubblica; non è sufficiente, infatti, che la persona giuridica pubblica persegua finalità rientranti tra quelle della Pubblica Amministrazione. La caratteristica delle persone giuridiche pubbliche può, quindi, essere individuata, in via preminente, dall’essere titolari di poteri pubblici, di auto-organizzazione, di certificazione e di autotutela e dall’impossibilità che i suoi compiti vengano esercitati da altri soggetti. Ciò non esclude che le persone giuridiche pubbliche (o quantomeno alcune di esse) possano svolgere anche attività privatistiche.
2. Inquadrata, in via generale, la natura degli enti pubblici, osserviamo che l’ordinamento prevede un particolare sistema per la soluzione dei conflitti tra i poteri dello Stato; tale procedura esula dall’oggetto del presente convegno, ma pare utile farne un breve accenno al fini di un migliore inquadramento della tematica in Italia.
Sul punto, in via preliminare, occorre osservare che l’art. 134 della Costituzione statuisce che la Corte Costituzionale giudica “sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni”.
Il conflitto tra poteri dello Stato insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali.
Perché sorga il conflitto tra poteri dello Stato è necessario, quindi, che esso sorga i) tra organi appartenenti a poteri diversi, ii) fra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere, iii) per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali.
Sono esclusi dalla competenza della Corte i conflitti fra poteri appartenenti a giurisdizioni diverse, in ordine all’appartenenza della potestà di decisione di una determinata questione e i conflitti fra organi appartenenti ad uno stesso potere.
Il conflitto di attribuzione può essere sollevato da un potere dello Stato; il potere è definito come una figura organizzatoria composta da un organo o da più organi fra loro funzionalmente collegati ed alla quale va riferita una sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita.
Tra i poteri dello Stato rientrano, oltre a quelli legislativo, esecutivo e giudiziario, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale.
Il conflitto deve riguardare l’attribuzione da parte di norme costituzionali; spetta alla Corte costituzionale risolvere il conflitto sottoposto al suo esame. La Corte deve dichiarare, quindi, a chi spetta l’attribuzione in contestazione e, qualora trattasi di un’attribuzione causata da atto nullo, deve annullare l’atto.
È necessario, quindi, che a fondamento del conflitto sia posta l’attribuzione da parte di una norma costituzionale .
3. Cosa succede, tuttavia, quando il conflitto sorge tra enti pubblici relativamente alla vantata lesione di un diritto soggettivo e non alla contestazione circa l’attribuzione da parte della Costituzione?
In via preliminare e generale, occorre osservare che le persone giuridiche pubbliche, come d’altronde qualunque altro soggetto privato) sono soggetti al riparto di giurisdizione tipico dell’ordinamento italiano: se si interviene per la tutela di un interesse legittimo si dovrà ricorrere al Giudice amministrativo, mentre se si intende difendere un diritto soggettivo occorrerà rivolgersi al Giudice ordinario (ciò è quanto accade quando le persone giuridiche pubbliche operano nei confronti di terzi secondo il regime privatistico).
Fatta la premessa di cui sopra, occorre capire, allora, quali sono gli strumenti, che l’ordinamento riconosce in capo agli enti pubblici, volti a dirimere controversie relative alla lesione di un proprio diritto soggettivo da parte di un altro ente pubblico.
Innanzitutto, si osserva che l’Amministrazione ha una capacità giuridica in ordine ai poteri di diritto comune meno estesa di quella attribuita alle persone fisiche, non comprendendo, ad esempio, l’idoneità ad essere titolari di situazioni strettamente collegate alla natura propria dell’individuo (diritto di famiglia); a ciò si aggiunga le numerose disposizioni che escludono la possibilità agli enti di compiere talune attività di diritto comune (contratti aleatori – o contrarre discrezionalmente con chi vogliono).
Appare evidente che l’utilizzo degli strumenti di diritto comune da parte degli enti pubblici deve essere giustificato in ragione dell’attinenza al raggiungimento delle finalità curate dall’ente.
Sul punto vige il principio dell’inammissibilità di ricorsi fra organi dello stesso ente, ma non può essere messo in dubbio che un ente pubblico possa impugnare i provvedimenti amministrativi emanati da un altro ente .
Occorre individuare, tuttavia, i limiti e le possibilità riconosciute agli enti.
Con particolare riferimento agli enti territoriali, ai fini della tutela degli interessi dei propri amministrati, deve farsi riferimento non solo all’elaborazione consolidata della giurisprudenza ma anche, come si dirà appresso, alle innovazioni normative sopraggiunte medio tempore e, soprattutto, ai nuovi profili di intervento riconosciuti ad ogni tipologia di figura soggettiva esponenziale di interessi omogenei ai sensi del decreto legislativo 20 dicembre 2009 n. 198 “Attuazione dell’articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici”.
Da un lato, vi è stata la giurisprudenza che ha ricercato un criterio di collegamento tra gli interessi, che appartengono ontologicamente a tutti i componenti di una collettività, e i meccanismi processuali, che richiedono che l’azione sia portata avanti da un ben individuato soggetto dell’ordinamento.
In questo senso, la soluzione adottata è stata quella di ricercare una serie di elementi (personalità del soggetto agente, conformità dell’azione proposta ai suoi fini statutari, collegamento stabile con l’interesse protetto, ecc.) che tendessero a dare struttura all’interesse stesso. Questo indirizzo ha permesso di incanalare entro i consolidati ambiti del processo amministrativo le nuove esigenze di tutela a cui il legislatore non aveva ancora dato una soddisfacente risposta.
Dall’altro lato, l’attribuzione della legittimazione a figure soggettive che si ponevano anche in contrasto con i soggetti pubblici, normalmente incaricati della tutela degli interessi generali della collettività, ha evidenziato come la giurisprudenza amministrativa ritenesse che tali interessi non fossero di esclusiva pertinenza dell’azione pubblica (da qui, ad esempio, è stato riconosciuto la legittimità attiva, a determinate condizioni, delle associazioni private di categoria).
In questa direzione, il richiamo alla fonte costituzionale della protezione di tali interessi ha permesso di affermare, più o meno esplicitamente, che il meccanismo tradizionale di tutela (creazione di un ente pubblico ed attribuzione allo stesso della tutela dell’interesse, inteso come canone di comportamento nella sua attività) non fosse esaustivo delle possibilità rimesse ai cittadini.
Ne deriva che, grazie al riconoscimento diretto derivante dalla Costituzione, si deve ritenere che i diritti dei cittadini in tema di tutela di interessi diffusi possano trovare modi di esercizio paralleli ed ulteriori rispetto al meccanismo tradizionale dall’attribuzione della loro cura ad un soggetto pubblico predeterminato, sia esso già esistente o costituito ad hoc.
Il secondo snodo concettuale attiene alla possibilità di riconoscere, la legittimazione ad agire a qualsiasi ente esponenziale di interessi omogenei o agli enti territoriali, in virtù del loro collegamento con la collettività, ivi stanziata, e facendo perno sull’unico cardine della rappresentatività.
La giurisprudenza amministrativa, nel tentativo di strutturare tale interesse, ha cercato di individuare una serie di elementi tali da dimostrare il collegamento tra interesse azionato e soggetto agente, enucleando una serie di principi ancora fondamentalmente validi ed applicabili che possono valere anche con riferimento alla legittimazione degli enti territoriali in ipotesi in cui gli stessi non risultino attributari, ex lege, di specifiche competenze in materia.
Anche in questo caso, l’affermazione si fonda su una serie di presupposti impliciti.
In primo luogo, va evidenziato come gli enti territoriali siano effettivamente soggetti a cui, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, è stata assegnata la funzione di cura concreta degli interessi della collettività di riferimento. Una tale affermazione appare agevolmente riscontrabile sulla base della lettura del novellato art. 114 della Costituzione (i Comuni, le Province, le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione) e sulla previsione del principio di sussidiarietà, di cui all’art. 118 della Costituzione; tale principio affida all’ente locale più vicino ai cittadini la cura concreta di interessi.
Ne deriva, che, mentre nelle materie la cui tutela è affidata agli enti dalla legge vi è un riconoscimento normativo esplicito sulla loro legittimazione, dove tale riconoscimento manca non si vede ragione per trattare questi enti generali in maniera differente rispetto a qualsiasi associazione privata.
In secondo luogo, se è ben vero che la natura di ente territoriale consente di riconoscere per implicito la natura di soggetto di riferimento della comunità locale, ciò non esclude la permanente necessità di ricercare, in analogia con le associazioni private, gli ulteriori elementi che fondino la legittimazione. Ad un livello di maggior dettaglio, deve necessariamente rilevarsi che la decisione di agire in giudizio è espressione della volontà politica dell’ente stesso che, selezionando tra i tanti interessi ad esso non attribuiti quelli di cui vuole farsi portatore, si fa interprete della presunta volontà del corpo elettorale.
In ogni caso, l’equivalenza tra rappresentatività politica e capacità di esprimere i reali intendimenti della collettività è ancora soggetta ad alcuni dubbi; si pensi, ad esempio, alla difficoltà di ricondurre alla figura privatistica del mandato il rapporto tra elettori ed eletto e all’impossibilità logica che una competizione elettorale possa dare una precisa e coerente rappresentazione degli interessi e delle preferenze degli elettori.
Pertanto, premesso che gli enti territoriali sono, per norma costituzionale, titolari di poteri generali di tutela degli interessi rilevanti per la collettività stanziata, la loro legittimazione, per le materie non direttamente conferitegli dalla legge, va individuata secondo i criteri usuali e quelli che discendono dall’ordinamento.
In questo senso, occorre fare riferimento al citato decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198 “Attuazione dell’articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici”.
Ai sensi dell’art. 1, infatti, “al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente decreto, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi”.
Emerge dal testo come la legittimazione ad agire venga correlata, per un verso, all’esistenza di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, per altro verso, alla riferibilità di tali interessi ad un soggetto titolare, ed infine, all’esistenza di una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi.
Occorre tenere presente, in ogni caso, che, mentre nel privato l’autonomia è l’esito della capacità di autodeterminazione dei fini, nel pubblico la scelta dei fini non è rimessa alla libertà dell’ente in quanto questi sono conseguenti e collegati alle sue attribuzioni, a loro volta determinate dal decisore politico. In sintesi, per i privati l’autonomia è autodeterminazione dei fini; per il pubblico i fini sono eterodeterminati dalla legge o dall’atto costitutivo dell’ente, il che fa anche dubitare che si possa parlare di autonomia privata nelle scelte amministrative (Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2010, n. 8686).
4. Al fine di valutare gli aspetti concreti di precedentemente illustrato, passiamo ora ad esaminare un paio di casi.
Un Comune ha impugnato davanti al Tribunale amministrativo regionale il provvedimento con il quale la Provincia (ente territoriale superiore al Comune) aveva deciso l’aumento della quota a lei spettante della tassa rifiuti. Ebbene, in tale occasione, con la sentenza Tar Lazio, sez. II, 6 agosto 2014, n. 8748, il Giudice amministrativo ha statuito che, ferma la legittimazione attiva delle amministrazioni locali in giudizio, al fine di tutelare gli interessi collettivi della propria comunità, ciò non esclude la permanente necessità di ricercare, in analogia con quanto avviene per le associazioni private, gli ulteriori elementi che fondino la legittimazione, laddove si tratti di materie non direttamente conferite agli enti territoriali dalla legge.
In particolare, il Giudice amministrativo ha rilevato che “la sussidiarietà in senso verticale attiene al riparto delle competenze e delle funzioni pubbliche secondo un criterio di prossimità al cittadino destinatario, nel rispetto delle norme costituzionali e ordinarie; nessuna norma attribuisce ai Comuni la legittimazione ad impugnare tributi, tariffe o altre imposizioni economiche gravanti sui singoli residenti, così come è impraticabile ogni riferimento alla rappresentanza politica; a sua volta, la sussidiarietà in senso orizzontale depone in senso contrario alla soluzione affermata, dal momento che essa è finalizzata a promuovere e sostenere i cosiddetti corpi intermedi, le associazioni spontanee dei cittadini per la realizzazione e tutela dei loro interessi e non certamente per sostituirsi e sovrapporsi ad essi”.
Ne deriva, nel ragionamento del Tar che l’interesse collettivo della comunità comunale non può coincidere con l’interesse individuale dei soggetti di cui è composta la categoria dei cittadini utenti del servizio (nella specie quello della raccolta rifiuti), perché questo è perseguibile direttamente dal soggetto che ne è titolare esclusivo.
L’interesse diffuso o collettivo trascende il singolo cittadino per riferirsi alla comunità nel suo complesso, esso è di tutti e di nessuno singolarmente considerato, come l’interesse alla tutela dell’ambiente o dei beni archeologici, al governo del territorio, il diritto alla salute e simili; esso, sebbene riferibile ad una categoria di soggetti (i componenti la comunità locale), deve trascendere i singoli interessi, non potendo rappresentare la sommatoria di interessi individuali, che sono individualmente tutelabili.
Con riferimento, quindi, al caso concreto, dove la determinazione della tariffa spetta al Comune, in collaborazione con la Provincia, l’atto di determinazione dei costi sopportati dalla Provincia rappresenta un segmento procedimentale che si inserisce in un più ampio e complesso procedimento di formazione della tariffa, la cui delibazione è affidata alla competenza concorrente dei due enti locali ed il cui esito finale è l’elaborazione dell’importo tariffario che grava su ogni singolo utente.
Il Tar conclude, quindi, che le amministrazioni non sono in posizione di contrapposizione, ma concorrono, ognuna per il suo specifico ambito di attribuzione, alla determinazione dell’importo tariffario finale, ciò che conduce a ritenere il difetto di legittimazione a ricorrere in capo all’amministrazione comunale (si veda anche, TAR Campania, sez. I, 25 luglio 2011, n. 3973; Consiglio di Stato, sez. V, 3 maggio 2012, n. 2540).
L’eventuale impugnazione della tariffa spetterebbe, infatti, ai singoli cittadini o alle associazioni di categoria se esistenti.
In un’altra fattispecie, il Giudice amministrativo ha riconosciuto la legittimità attiva di alcuni Comuni che avevano impugnato il provvedimento finale con il quale il Ministero dello sviluppo economico, d’intesa con le Regioni di appartenenza dei Comuni ricorrenti, aveva autorizzato un soggetto privato a eseguire le operazioni di ricerca di idrocarburi gassosi e solidi sui loro territori. In particolare, i Comuni lamentavano l’omesso invito alla partecipazione al procedimento di autorizzazione.
Nel corso del giudizio, il Ministero ha sostenuto l’inammissibilità del ricorso introduttivo proposto dai Comuni interessati sul presupposto del difetto di interesse perché gli stessi non avrebbero indicato una lesione specifica e concreta degli interessi specifici da loro rappresentati.
Con la sentenza 7 giugno 2017, n. 2757, il Consiglio di Stato ha rilevato che la norma in materia nel prevedere “una partecipazione obbligatoria al procedimento delle amministrazioni locali interessate, delinea una ipotesi di legittimazione e di interesse ad agire “ex lege” e attribuisce agli enti locali l’interesse a ricorrere che si afferma mancante, laddove prevede il coinvolgimento delle amministrazioni locali nel procedimento in discussione, senza che necessitino requisiti ulteriori. Legittimazione e interesse discendono cioè, “ex lege”, dalla previsione di partecipazione al procedimento delle amministrazioni locali, e dalla riscontrata violazione di detta previsione”. Il Giudice amministrativo ha anche osservato che, in ogni caso, “la legittimazione si desume in via diretta dalla qualità, dell’amministrazione locale, di ente esponenziale delle collettività di riferimento” e che, nella fattispecie, “in definitiva, non può farsi questione di una carenza di interesse ad agire delle amministrazioni comunali ricorrenti in primo grado, sulla falsariga di quanto prospettato dalle appellanti, a causa della omessa dimostrazione di una lesione concreta e attuale di un interesse specifico in capo ai comuni medesimi”.
5. In conclusione, possiamo affermare che la legittimazione ad agire degli enti pubblici, in particolare, quella degli enti locali, si basa sulla presenza dei seguenti elementi fondamentali: i) la tutela di un interesse collettivo che ii) per sua natura deve essere generale e non attributivo di una legittimazione attiva del singolo cittadino, iii) dal fatto che tale interesse collettivo riguardi la comunità presente sul proprio territorio e, ovviamente, iv) qualora non sia la legge a riconoscere espressamente in capo all’ente la tutela di un determinato interesse legittimo proprio (e non, come detto, del singolo).
Da quanto sopra, esposto, appare altresì evidente che, al di fuori delle specifiche competenze della Corte Costituzionale in tema di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (ipotesi che non riguarda l’oggetto del presente convegno), l’ordinamento italiano non prevede competenze o procedimenti particolari nel caso in cui i ricorrenti siano persone giuridiche di diritto pubblico, rispetto a soggetti privati (singoli o collettivi). Gli enti pubblici possono ricorrere al Giudice amministrativo, per la tutela dei propri interessi legittimi, al pari del privato tenendo presente la verifica della presenza degli elementi che costituiscono al loro legittimazione attiva; tale valutazione spetterà, certamente, caso per caso, al Giudice amministrativo.
Claudio Sironi

Relazione tedesca Dr. Silke Wittkopp – Bergamo – 6/5/2015

Relazione tedesca Bergamo

Dr. Silke Wittkopp, Richterin am Oberverwaltungsgericht Münster

In Italien und Frankreich handelt es sich bei unserem diesjährigen Thema – nach allem, was wir gerade gehört haben – um eine näher definierte Rechtsfigur, die vor allem besondere Eilbefugnisse des Bürgermeisters umschreibt. Das ist in Deutschland anders. Als solches wird dieses Thema im deutschen Verwaltungsrecht nicht behandelt. Auf der Suche nach entsprechenden Aufsätzen oder Abhandlungen wird man daher nicht recht fündig. Die dahinter stehende Problematik gibt es aber natürlich auch bei uns: Um Gefahren effektiv abwehren zu können, muss es der Verwaltung im Einzelfall möglich sein, schnell wirksam werdende Maßnahmen zu treffen. Diese fallen allerdings nicht in die (persönliche) Zuständigkeit des Bürgermeisters , sondern werden von der zuständigen staatlichen Ordnungsbehörde oder von der Polizei angeordnet.

Zur Veranschaulichung möchte ich zunächst einen kleinen Fall voranstellen, der die deutschen Gerichte beschäftigt hat und weiter beschäftigt. Dabei geht es um die Abschaltung der älteren deutschen Atomkraftwerke nach der Nuklearkatastrophe von Fukushima. Ihnen allen ist bekannt, dass sich ab dem 11. März 2011 nach einem Erdbeben in dem japanischen Kernkraftwerk eine Reihe schwerer Störfälle ereignet haben. Große Mengen an radioaktivem Material wurden freigesetzt und kontaminierten Luft, Böden, Wasser und Nahrungsmittel in der Umgebung. Schon wenige Tage später traf die Regierung Merkel die politische Entscheidung, alle 17 deutschen Atomkraftwerke einer Sicherheitsprüfung zu unterziehen und zu diesem Zweck die sieben ältesten Kraftwerke drei Monate lang stillzulegen (sogenanntes Atom-Moratorium). Die Bundesregierung bat die Atomaufsichtsbehörden der Länder, die befristete Abschaltung dieser Kraftwerke anzuordnen. Das Hessische Umweltministerium ordnete deshalb eine Woche nach Fukushima gegenüber dem Energieversorgungsunternehmen RWE an, den Betrieb des Kernkraftwerks Biblis vorübergehend einzustellen. RWE kam dieser Anordnung nach, erhob aber dagegen Klage. Der Hessische Verwaltungsgerichtshof hat inzwischen rechtskräftig entschieden, dass die Anordnung der vorübergehenden Betriebseinstellung formell und materiell rechtswidrig gewesen ist. Auf die Gründe komme ich später noch zurück. Im August 2014 hat RWE das Land Hessen und den Bund auf Schadensersatz in Höhe von mehr als 200 Mio. Euro verklagt. Für derartige Amtshaftungsklagen sind in Deutschland historisch die Zivilgerichte zuständig, hier das Landgericht Essen, dessen Entscheidung mit Spannung erwartet wird.

Dieser Sachverhalt verdeutlicht, dass die Verwaltung in Situationen, die zum Schutz der Bürger vor Umwelt- und Gesundheitsgefahren ein schnelles Eingreifen zu erfordern scheinen, die rechtlichen Anforderungen nicht aus dem Blick verlieren darf, wenn sie sich nicht dem Risiko anschließender Schadensersatzansprüche aussetzen will. Worin bestehen nun diese rechtlichen Anforderungen? Das deutsche Verwaltungsrecht trägt den Besonderheiten eilbedürftiger Maßnahmen durch eine Vielzahl von verstreuten Regelungen Rechnung. Diese lassen zur Erleichterung eines effektiven behördlichen Eingreifens bestimmte Abweichungen von den üblichen Rechtmäßigkeitsanforderungen an behördliche Entscheidungen und ihre Durchsetzung zu. Sie berücksichtigen aber immer auch die berechtigten Belange der von solchen Anordnungen – möglicherweise zu Unrecht – Betroffenen. Dabei wird teilweise noch weiter nach dem Grad der jeweiligen Dringlichkeit differenziert.

Vertieft behandeln möchte ich hier nur die Gefahrenabwehr durch Verwaltungsakt. Der Verwaltungsakt stellt im Bereich der Gefahrenabwehr die übliche Handlungsform der Verwaltung dar. Hier lassen sich Besonderheiten dringlicher Entscheidungen auf drei Ebenen ausmachen: Erstens werden die formellen und materiellen Anforderungen an Verwaltungsakte, mit denen dringende Gefahren abgewendet werden sollen, in verschiedener Weise modifiziert. Zweitens hat die Behörde die Möglichkeit, die aufschiebende Wirkung von Rechtsmitteln auszuschalten, indem sie die sofortige Vollziehbarkeit des Verwaltungsakts anordnet. Und drittens gibt auch das Verwaltungsvollstreckungsrecht den Behörden das notwendige Instrumentarium an die Hand, um bei Gefahr im Verzug rechtzeitig eingreifen zu können.

Ich möchte im Folgenden einen Überblick über die in diesen drei Bereichen vorgesehenen Anforderungen des Gesetzgebers und der Rechtsprechung geben. Am Schluss werde ich noch kurz auf die Gefahrenabwehr durch staatliches Informationshandeln – also durch behördliche Warnungen – eingehen.

1. Zunächst zum Verwaltungsakt selbst: Dem Verantwortlichen wird damit ein Tun oder Unterlassen aufgegeben, um eine Gefahr für die Umwelt oder Rechtsgüter des Einzelnen abzuwenden oder eine bereits eingetretene Störung zu beseitigen. Beispiele sind etwa die Anordnung zur Beseitigung einer Ölspur oder die Stillegung einer Anlage, deren Betrieb Gefahren für die Gesundheit oder die Umwelt verursacht.

a) Schon bei der formellen Frage, welche Behörde für eine bestimmte Anordnung zuständig ist, sind Sonderregeln für

dringliche Entscheidungen vorgesehen. Maßnahmen der Gefahrenabwehr fallen grundsätzlich in die Zuständigkeit der allgemeinen und besonderen Verwaltungsbehörden, in Nordrhein-Westfalen sind dies die Ordnungsbehörden. Für Maßnahmen zum Schutz der Umwelt oder Gesundheit sind dabei überwiegend besondere Ordnungsbehörden zuständig, etwa die Immissionsschutzbehörden, Abfallbehörden, Atomaufsichtsbehörden oder Lebensmittelbehörden. Ist keine besondere Zuständigkeit gegeben, werden die allgemeinen Ordnungsbehörden tätig. Bei Gefahr im Verzug kann jede Ordnungsbehörde in ihrem Bezirk die Befugnisse einer anderen Ordnungsbehörde ausüben. Alle diese Behörden werden allerdings „am Schreibtisch“ tätig, also nur während der regelmäßigen Dienstzeit. Damit ist ein rechtzeitiges Einschreiten auf diese Weise nicht immer möglich. Die Polizeigesetze der Länder sehen deshalb eine Notzuständigkeit der Polizei vor: Sie hat in eigener Zuständigkeit einzugreifen, soweit ein Handeln der zuständigen Behörden nicht oder nicht rechtzeitig möglich erscheint. Die Polizei darf also unaufschiebbare Maßnahmen treffen, um Gefahren abzuwehren und Störungen zu beseitigen, und sie darf diese Maßnahmen so lange aufrecht erhalten, bis die noch erforderlichen Maßnahmen von der zuständigen Behörde getroffen sind. Greift ein Verwaltungsakt in Rechte des Betroffenen ein, muss dieser zuvor angehört werden (§ 28 Abs. 1 Verwaltungsverfahrensgesetz – VwVfG). Er muss mit anderen Worten die Gelegenheit erhalten, zu der beabsichtigten Maßnahme Stellung zu nehmen. Hiervon kann unter anderem dann abgesehen werden, wenn eine sofortige Entscheidung wegen Gefahr im Verzug notwendig erscheint (§ 28 Abs. 2 Nr. 1 VwVfG). Dafür gilt ein strenger Maßstab: Es muss durch die Anhörung als solche selbst bei einer sehr kurzen Äußerungsfrist ein Zeitverlust eintreten, der mit hoher Wahrscheinlichkeit zur Folge hätte, dass die gebotenen Maßnahmen zu spät kommen würden. Eine solche unvertretbare Verzögerung kann im Einzelfall auch damit verbunden sein, dass die Betroffenen, die anzuhören sind, erst festgestellt werden müssen. Bei der Anordnung zur Abschaltung des Atomkraftwerks Biblis hatte das Hessische Umweltministerium eine Anhörung des Betreibers RWE für entbehrlich gehalten. Es war der Auffassung, die wesentlichen Inhalte der Anordnung seien RWE aus den Äußerungen der Bundesregierung bereits bekannt, und RWE habe sich hierzu auch gegenüber den öffentlichen Medien geäußert. Dies hat der Hessische Verwaltungsgerichtshof – bestätigt durch das Bundesverwaltungsgericht – nicht für ausreichend gehalten. Für die vor Erlass einer atomrechtlichen Aufsichtsmaßnahme erforderliche Anhörung ist nämlich nicht der Bund zuständig, sondern allein die für die Anordnung zuständigeLandesbehörde. Dieser wäre es auch unter den besonderen Umständen des Einzelfalles möglich gewesen, zumindest eine sehr kurze, nach Stunden oder Tagen bemessene Frist zur Anhörung zu setzen. Zwar wäre ein Verzicht auf die Anhörung in Betracht gekommen, wenn RWE im Rahmen informaler Kontakte mit Bundesorganen Gelegenheit gehabt hätte, sich zu der konkret beabsichtigten Sachentscheidung zu äußern. Dies konnte das Hessische Ministerium jedoch nicht näher belegen. Da die Anhörung auch im gerichtlichen Verfahren nicht nachgeholt worden war und sich nicht ausschließen ließ, dass die Entscheidung nach einer Anhörung von RWE anders ausgefallen wäre, war die Anordnung schon wegen des Anhörungsmangels rechtswidrig. Eine weitere formelle Erleichterung für die Behörde besteht darin, dass ein Verwaltungsakt grundsätzlich auch mündlich ergehen kann und in diesem Fall zunächst keiner Begründung bedarf (§ 37 Abs. 2, 39 Abs. 1 VwVfG). Ein mündlicher Verwaltungsakt ist allerdings schriftlich oder elektronisch zu bestätigen – und dann auch zu begründen –, wenn hieran ein berechtigtes Interesse besteht und der Betroffene dies unverzüglich verlangt. In der Praxis werden derartige schriftliche Bestätigungen regelmäßig auch ohne ein ausdrückliches Verlangen gegeben. Das gilt jedenfalls, wenn Rechtsmittel des Adressaten zu erwarten sind und es deshalb wichtig ist, die Erwägungen zur Begründung der Maßnahme schriftlich zu fixieren.

b) Schwieriger wird es bei den materiellen Voraussetzungen der Rechtmäßigkeit einer dringlichen Entscheidung. Hier befinden sich die Behörden regelmäßig in dem Dilemma, dass sie einerseits zu einem Schutz bedeutsamer Rechtsgüter des Einzelnen und der Allgemeinheit verpflichtet sind. Andererseits ist es in der Kürze der zur Verfügung stehenden Zeit oft nicht möglich, den Sachverhalt vollständig aufzuklären und sich über bestimmte Ursachenzusammenhänge die volle Gewissheit zu verschaffen. Eine Entscheidung „auf Verdacht“ kann, wenn sich dieser nachträglich als unbegründet erweist, bei den in Anspruch genommenen Bürgern oder Unternehmen zu empfindlichen wirtschaftlichen Einbußen führen. Für die Behörde kann sich daraus das Risiko ergeben, mit Amtshaftungsansprüchen konfrontiert zu werden.

aa) Grundsätzlich bleibt die Bindung der Behörde an die Gesetze und die Grundrechte auch bei eilbedürftigen Entscheidungen bestehen; es gilt nicht der Grundsatz: „Not kennt kein Gebot.“ Damit ist es zunächst Aufgabe des Gesetzgebers, die erforderlichen Eingriffsgrundlagen zu schaffen, um auch dringliche Maßnahmen zu ermöglichen. Nach der Dringlichkeit differenzierende Regelungen finden sich zum Beispiel in § 20 Abs. 1 Bundesimmissionsschutzgesetz (BImSchG): Danach „kann“ die zuständige Behörde den Betrieb einer genehmigungsbedürftigen Anlage ganz oder teilweise bis zur Erfüllung bestimmter Pflichten untersagen, wenn der Betreiber gegen diese Pflichten verstoßen hat. Wenn ein derartiger Verstoß jedoch eine unmittelbare Gefährdung der menschlichen Gesundheit oder der Umwelt verursacht, dann „hat“ die Behörde den Betrieb ganz oder teilweise zu untersagen. Bei einer derart gesteigerten, auch zeitlich nahen Gefahr für Umwelt oder Gesundheit braucht dieBehörde also kein Ermessen auszuüben, sondern muss den Betrieb (vorläufig) untersagen. Das ist – wohlgemerkt – kein verallgemeinerungsfähiger Rechtsgrundsatz, sondern gilt grundsätzlich nur, wenn es sich aus der jeweiligen Eingriffsgrundlage ergibt.

bb) Bei den Anforderungen an die Ermittlung des Sachverhalts und die Gefahrenprognose hat die Rechtsprechung immer auch eine effektive Gefahrenabwehr im Blick. Sie hat den Begriff der Gefahr so ausgelegt und konkretisiert, dass der Behörde auch in Eilfällen ein wirksames Einschreiten möglich bleibt. Ob eine Gefahr – also die konkrete Möglichkeit eines Schadenseintritts – vorliegt, bestimmt sich aus der ex ante-Sicht eines verständigen Betrachters. Hat die Behörde von diesem Standpunkt aus eine Gefahr rechtsfehlerfrei angenommen, wird eine behördliche Anordnung zur Gefahrenabwehr nicht dadurch rechtswidrig, dass sich nachträglich herausstellt, dass eine Gefahr nicht bestand oder von dem Adressaten der behördlichen Maßnahme jedenfalls nicht verursacht worden ist. In solchen Fällen können diesem allerdings Entschädigungsansprüche gegen die Verwaltung zustehen, wenn er die von ihm geforderten Maßnahmen auf eigene Kosten durchgeführt hat.

Darüber hinaus gibt es Fälle, in denen die Behörde selbst noch nicht sicher abschätzen kann, ob eine Gefahr vorliegt, weil der Sachverhalt noch ungewiss ist. Hält sie aufgrund tatsächlicher Anhaltspunkte das Vorliegen einer Gefahr für möglich, spricht man von einem Gefahrenverdacht. Dieser rechtfertigt behördliche Maßnahmen jedenfalls dann, wenn eine gesetzliche Grundlage ausdrücklich hierzu ermächtigt. Ein Beispiel ist § 9 Abs. 2 des Bundesbodenschutzgesetzes: Besteht aufgrund konkreter Anhaltspunkte der hinreichende Verdacht einer schädlichen Bodenveränderung oder einer Altlast, kann die zuständige Behörde anordnen, dass der Verantwortliche die notwendigen Untersuchungen zur Gefährdungsabschätzung durchzuführen hat. Soweit derartige spezielle Rechtsgrundlagen nicht einschlägig sind, wird diskutiert, ob der Gefahrenverdacht einer Gefahr gleichzustellen ist und damit bereits ein Eingreifen der Behörden aufgrund der Rechtsgrundlagen rechtfertigt, die zur Gefahrenabwehr ermächtigen. Nach einer verbreiteten Auffassung darf die Behörde nur die notwendigen Maßnahmen anordnen, um den Gefahrenverdacht weiter abzuklären. Zulässig sind danach jedenfalls Gefahrerforschungsmaßnahmen gegenüber dem Verursacher des Gefahrenverdachts. Umstritten ist dabei allerdings, ob der Betroffene dabei nur zur Duldung behördlicher Maßnahmen – z.B. auf seinem Grundstück – verpflichtet werden kann, oder ob ihm auch die Vornahme von Ermittlungsmaßnahmen aufgegeben werden kann.

Im Fall des Atomkraftwerks Biblis hatte das Hessische Umweltministerium die Stillegungsverfügung auf § 19 Abs. 3 Atomgesetz gestützt. Danach kann die Behörde unter anderem anordnen, dass der Betrieb eines Kernkraftwerks vorläufig eingestellt wird, wenn ein Zustand vorliegt, aus dem sich durch die Wirkung ionisierender Strahlen Gefahren für Leben, Gesundheit oder Sachgüter ergeben können. Diese Voraussetzungen waren nach Auffassung des Hessischen Verwaltungsgerichtshofs nicht gegeben; er hat die vorläufige Betriebseinstellung daher auch für materiell rechtswidrig gehalten. Der Beklagte hatte einen gefahrauslösenden Zustand der konkreten Anlage – des Kernkraftwerks Biblis – nicht dargelegt. Allerdings ist der atomrechtliche Gefahrenbegriff nach einer verbreiteten Auffassung weit zu verstehen und umfasst auch den sogenannten Gefahrenverdacht. Da sich beim Gefahrenverdacht der Kausalverlauf nicht mit hinreichender Wahrscheinlichkeit prognostizieren lässt, muss auf die Ermittlung und Darstellung konkreter Umstände besonderer Wert gelegt werden. Die pauschale Annahme des Ministeriums, die Ereignisse in Japan rechtfertigten zumindest eine Neubestimmung des Risikos, hat der Hessische Verwaltungs-gerichtshof nicht für ausreichend gehalten. Er hat betont, das Ministerium gehe selbst davon aus, dass sich an der Sicherheit des Kernkraftwerks Biblis nichts geändert habe.

cc) Maßnahmen der Gefahrenabwehr stehen üblicherweise im Ermessen der Behörde. Dies wird im Gesetz dadurch zum Ausdruck gebracht, dass die Behörden die notwendigen Maßnahmen anordnen „können“ (und nicht müssen). Die Behörde muss deshalb in der Regel auch in dringlichen Fällen sorgfältig prüfen und darlegen, warum sie überhaupt tätig wird und warum sie unter mehreren in Betracht kommenden Maßnahmen eine bestimmte ausgewählt hat. Dabei ist auch das Prinzip der Verhältnismäßigkeit zu berücksichtigen. Dies ist umso wichtiger, je stärker die in Aussicht genommenen Maßnahmen in Grundrechte der Adressaten eingreifen.

Auch diesen Anforderungen hat die vorläufige Betriebseinstellung im Fall „Biblis“ nicht genügt: Anstatt sein Ermessen selbst auszuüben, hatte das Hessische Ministerium lediglich mitgeteilt, dass die Bundesregierung entschieden habe, die ältesten Kernkraftwerke für die Dauer von drei Monaten vom Netz zu nehmen. Diese ist für die Anordnung nach der gesetzlichen Regelung jedoch nicht zuständig gewesen. Die einstweilige Einstellung des genehmigten Betriebs war nach Auffassung des Hessischen Verwaltungsgerichtshofs außerdem unverhältnismäßig. Sie stellte einen erheblichen Eingriff in das grundrechtlich (Art. 12 Abs. 1 und Art. 14 Abs. 1 GG) geschützte und durch den Genehmigungsbescheid gesicherte Recht zum Betrieb der kerntechnischen Anlage dar. Der Beklagte habe mit diesem Eingriff pauschal auf nicht überschaubare und völlig unterschiedlich gewichtige Szenarien einer möglichen Beeinträchtigung durch Erdbeben und Springfluten reagiert. Eine Abwägung unter den Gesichtspunkten der Geeignetheit, der Erforderlichkeit und der Verhältnismäßigkeit im engeren Sinne sei nicht erfolgt. Mildere Mittel seien nicht in Betracht gezogen worden. Dies betreffe etwa die Frage, ob die Möglichkeit bestanden hätte, die vorgesehene Sicherheitsüberprüfung während des laufenden Betriebs durchzuführen. Der Beklagte habe auch nicht ausreichend geltend gemacht, dass vorrangige öffentliche Belange oder ein schutzwürdiges Interesse anderweitig Betroffener das Interesse am Bestandsschutz der ergangenen Genehmigungen zum Betrieb der Anlage überwogen hätten.

2. Ich komme nun zu den Voraussetzungen einer Vollziehung behördlicher Eilmaßnahmen. Anders als in Frankreich bestimmt § 80 Abs. 1 Satz 1 der Verwaltungsgerichtsordnung (VwGO) als gesetzlichen Regelfall, dass eine Klage gegen einen Verwaltungsakt grundsätzlich aufschiebende Wirkung hat. Das bedeutet, dass eine behördliche Anordnung erst nach rechtskräftigem Abschluss eines Gerichtsverfahrens über mehrere Instanzen beachtet werden muss und vollzogen werden kann. Es liegt auf der Hand, dass nach diesem Grundsatz Maßnahmen der Gefahrenabwehr in der Regel zu spät kämen; eine effektive Gefahrenabwehr wäre in den meisten Fällen unmöglich. Deshalb sind bereits kraft Gesetzes bestimmte Ausnahmen von der aufschiebenden Wirkung vorgesehen. So haben Klagen gegen unaufschiebbare Maßnahmen von Polizeibeamten keine aufschiebende Wirkung; dasselbe gilt für Klagen gegen Maßnahmen der Verwaltungsvollstreckung. Soweit diese gesetzlichen Ausnahmen nicht einschlägig sind, ermöglicht § 80 Abs. 2 Satz 1 Ziff. 4 VwGO es der Behörde, durch eine Einzelfallentscheidung im öffentlichen Interesse die sofortige Vollziehbarkeit eines Verwaltungsakts anzuordnen. Dies hat zur Folge, dass die aufschiebende Wirkung der Klage entfällt und der Verwaltungsakt damit schon vor seiner Bestandskraft befolgt werden muss und vollstreckt werden kann. Die Anordnung der sofortigen Vollziehbarkeit muss grundsätzlich schriftlich erfolgen, denn § 80 Abs. 3 Satz 1 VwGO verpflichtet die Behörde, das besondere Interesse an der sofortigen Vollziehbarkeit des Verwaltungsakts schriftlich zu begründen. Sie muss einzelfallbezogen darlegen, warum eine besondere Eilbedürftigkeit besteht. Das besondere Vollzugsinteresse muss dabei grundsätzlich über das Interesse hinausgehen, das den Verwaltungsakt selbst rechtfertigt. Bei Maßnahmen der Gefahrenabwehr liegt die Eilbedürftigkeit aber oft derart auf der Hand, dass die Verwaltungsgerichte an die Begründung keine hohen Anforderungen stellen.

Diese Begründung kann ausnahmsweise unterbleiben, wenn die Behörde bei Gefahr im Verzug – vor allem bei drohenden Nachteilen für Leben, Gesundheit oder Eigentum – vorsorglich eine Notstandsmaßnahme im öffentlichen Interesse trifft (§ 80 Abs. 3 Satz 2 VwGO). Damit sind Fälle einer noch gesteigerten Dringlichkeit gemeint.

Im Zusammenhang mit der vorläufigen Abschaltung des Atomkraftwerks Biblis hatte das Hessische Umweltministerium die sofortige Vollziehbarkeit nicht angeordnet, obwohl die Angelegenheit erkennbar für dringlich gehalten wurde. Die Klage des Betreibers RWE hatte damit aufschiebende Wirkung. Gleichwohl hielt sich RWE an die Verfügung und stellte den Betrieb ein. Für die – vom Landgericht Essen zu entscheidende – Frage, ob RWE vom Land Hessen für die rechtswidrig angeordnete Betriebseinstellung Schadensersatz verlangen kann, kann jetzt von Bedeutung sein, ob RWE an der Entstehung des Schadens ein Mitverschulden trifft. Das Unternehmen wäre zu der Betriebseinstellung nach Erhebung der Klage ja rechtlich nicht verpflichtet gewesen. Hätte RWE die Anordnung nicht befolgt, hätte das Hessische Umweltministerium allerdings mit einiger Wahrscheinlichkeit die sofortige Vollziehbarkeit angeordnet. Das könnte gegen ein Mitverschulden sprechen.

3. Den letzten Schritt einer effektiven Gefahrenabwehr bildet die Möglichkeit der Behörde, vollziehbare Maßnahmen im Wege der Verwaltungsvollstreckung zwangsweise durchzusetzen. Einen sofort vollziehbaren Verwaltungsakt muss der Adressat – sofern ihm das Verwaltungsgericht nicht vorläufigen Rechtsschutz gewährt – unmittelbar befolgen. Tut er dies nicht, kann das ihm aufgegebene Tun oder Unterlassen schon vor rechtskräftiger Entscheidung über seine Klage von der Behörde mit Zwangsmitteln durchgesetzt werden. Betreibt er etwa eine Chemieanlage trotz sofort vollziehbarer Stilllegungsverfügung fort, kann die Behörde diese mittels unmittelbaren Zwangs stilllegen. Kommt der Verursacher einer Ölspur der vollziehbaren Anordnung, diese zu beseitigen, nicht nach, kann die Behörde die Beseitigung im Wege der Ersatzvornahme selbst durchführen oder durch ein beauftragtes Unternehmen durchführen lassen. Die Kosten dieser Maßnahme werden anschließend regelmäßig dem Pflichtigen auferlegt.

Derartige Zwangsmittel müssen im Regelfall zuvor unter Fristsetzung angedroht und festgesetzt werden. Dies dient dem Schutz des Verantwortlichen; er soll zunächst die Möglichkeit haben, die Maßnahme – möglicherweise kostengünstiger – selbst durchzuführen. Eine tatsächliche Gefahrenbeseitigung ist damit nach dem üblichen Verfahrensablauf erst möglich, wenn der Verantwortliche hierzu durch Verwaltungsakt aufgefordert worden ist, die sofortige

Vollziehbarkeit dieses Verwaltungsakts angeordnet worden ist und dem Verantwortlichen für den Fall der nicht fristgerechten Befolgung des Verwaltungsakts ein Zwangsmittel angedroht und dieses festgesetzt worden ist. Selbstverständlich muss es in besonders dringlichen Fällen auch hiervon Ausnahmen geben, um Gefahren wirksam und rechtzeitig abwenden zu können. Die Verwaltungsvollstreckungsgesetze der Länder und des Bundes sehen deshalb abweichend von dem dargestellten „gestreckten“ Verfahren auch ein abgekürztes Verfahren vor, das sich „Sofortvollzug“ (ähnlich auch: „unmittelbare Ausführung“) nennt. Danach sind Maßnahmen der Verwaltungsvollstreckung ohne vorausgehenden Verwaltungsakt zulässig, wenn das zur Abwehr einer gegenwärtigen Gefahr notwendig ist und die Vollzugsbehörde hierbei innerhalb ihrer Befugnisse handelt. Unter diesen Voraussetzungen kann auch von der Androhung und Festsetzung des Zwangsmittels abgesehen werden. Dieser Sofortvollzug kommt vor allem bei unaufschiebbaren Maßnahmen in Betracht, aber auch dann, wenn der für die Gefahr Verantwortliche noch nicht ermittelt oder nicht erreichbar ist.

4. Zuletzt noch ein paar Worte zum Problemkreis der staatlichen Warnungen. Diese sind vor allem im Bereich der Gesundheitsverwaltung ein immer häufiger genutztes Mittel, um die Bürgerinnen und Bürger vor dem Konsum gesundheitsschädlicher oder minderwertiger Produkte und Lebensmittel zu schützen. Das bekannteste Beispiel aus der Rechtsprechung des Bundesverfassungsgerichts ist die

Warnung des Bundesgesundheitsministers vor glykolhaltigen Weinen, zu der es in den 80er-Jahren beim sogenannten Glykol-Skandal gekommen war. 2011 war im Zusammenhang mit den in Deutschland und Frankreich aufgetretenen EHEC-Infektionen zunächst vor dem Verzehr von Gurken, Tomaten und Blattsalaten gewarnt worden, später dann vor dem Verzehr roher Sprossen.

Die dargestellten Besonderheiten bei der Gefahrenabwehr durch Verwaltungsakt lassen sich darauf nur bedingt übertragen: Hier gibt es nichts zu vollziehen oder zu vollstrecken; die Warnung erzielt die bezweckte verhaltenslenkende Wirkung bereits selbst und führt schon als solche zu Einbußen der Hersteller bei ihrer unternehmerischen Tätigkeit. Ähnlich wie bei der Gefahrenabwehr durch Verwaltungsakt kann aber auch hier häufig eine Gefahrenlage noch nicht sicher festgestellt werden, weil sich die genauen Ursachenzusammenhänge in der Kürze der Zeit nicht zweifelsfrei klären lassen. Voraussetzung für eine Information der Öffentlichkeit ist dann zumindest ein durch Tatsachen begründeter hinreichender Verdacht. Die gegebenen Informationen müssen sachlich gehalten und richtig sein. Dabei ist auch der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit zu beachten.

Viel diskutiert wurde die Frage, ob für derartige behördliche Warnungen eine gesetzliche Grundlage erforderlich ist. Nach der Rechtsprechung hängt dies davon ab, ob mit der Warnung im Einzelfall vergleichbare Wirkungen verbunden sind wie mit einem gezielten Grundrechtseingriff. Das ist vor allem dann der Fall, wenn sie sich wie ein gesetzliches Verkaufsverbot auswirkt. Warnungen, die faktisch solche Wirkungen haben, sind nur auf einer gesetzlichen Ermächtigungsgrundlage zulässig; die allgemeine Aufgabe der Staatsleitung genügt dafür nicht. Ende letzten Jahres hat das Bundesverwaltungsgericht daher die öffentliche Warnung einer Gesundheitsministerin vor dem Handel und Verkauf von E-Zigaretten für rechtswidrig erklärt. Hierfür wäre eine gesetzliche Grundlage erforderlich gewesen, die nicht vorhanden war.

Mehrere Oberverwaltungsgerichte haben außerdem entschieden, dass es für die Information der Öffentlichkeit über Hygienemängel in Lebensmittelbetrieben derzeit wohl an einer hinreichenden gesetzlichen Grundlage fehlt. Sie haben den betroffenen Betrieben deshalb vorläufigen

Rechtsschutz gewährt und den zuständigen Lebensmittelbehörden im Wege der einstweiligen Anordnung untersagt, die festgestellten Verstöße gegen Hygienevorschriften im Internet zu veröffentlichen. Die dafür vorgesehene Rechtsgrundlage im Lebensmittel-, Bedarfsgegenstände- und Futter-mittelgesetzbuch (§ 40 Abs. 1a LFGB) sei voraussichtlich verfassungswidrig. Sie greife unverhältnismäßig in die Grundrechte der Produktionsbetriebe ein, weil sie für die vorgesehene Veröffentlichung keine zeitliche Grenze vorsehe.

Ob eine – eingriffsgleiche – staatliche Warnung bei großer Eilbedürftigkeit und besonders schwerwiegenden Gesundheitsgefahren ausnahmsweise auch ohne eine spezielle gesetzliche Grundlage möglich ist, ist in der Rechtsprechung wohl noch nicht abschließend geklärt. Vielleicht gelingt Ihnen dies heute Nachmittag bei der Bearbeitung der praktischen Fälle.

Relazione tedesca Spira – Prof. Dr. Ulrich Stelkens – 29/9/2017

Rechtsstreitigkeiten zwischen juristischen Personen des Öffentlichen Rechts vor dem Verwaltungsgericht,

Univ.-Prof. Dr. Ulrich Stelkens

Einführung

Entscheidung von Rechtsstreitigkeiten zwischen juristischen Personen des öffentlichen Rechts

– war schon vor 1949 eine klassische Aufgabe der Verfassungsgerichtsbarkeit, deren Zuständigkeit nach 1949 (auch) in dieser Hinsicht erheblich ausgebaut wurde;

– war auch schon vor 1949 eine klassische Aufgabe der Verwaltungsgerichtsbarkeit, die aber erst nach 1949 zu ihrer vollen Entfaltung kam;

– ist eine Aufgabe, die daneben auch von den Gerichten anderer Gerichtszweige wahrgenommen wird, insbes. von der ordentlichen Gerichtsbarkeit (v. a. in Staatshaftungssachen und im Rahmen anderer Sonderzuständigkeiten) und den Sozialgerichten (insbes. in Bezug auf Ausgleichsansprüche zwischen Sozialleistungsträgern).

Verwaltungsgerichtsordnung (VwGO) § 40

(1) Der Verwaltungsrechtsweg ist in allen öffentlich-rechtlichen Streitigkeiten nichtverfassungsrechtlicher Art gegeben, soweit die Streitigkeiten nicht durch Bundesgesetz einem anderen Gericht ausdrücklich zugewiesen sind. Öffentlich-rechtliche Streitigkeiten auf dem Gebiet des Landesrechts können einem anderen Gericht auch durch Landesgesetz zugewiesen werden..

(2) Für vermögensrechtliche Ansprüche aus Aufopferung für das gemeine Wohl und aus öffentlich-rechtlicher Verwahrung sowie für Schadensersatzansprüche aus der Verletzung öffentlich-rechtlicher Pflichten, die nicht auf einem öffentlich-rechtlichen Vertrag beruhen, ist der ordentliche Rechtsweg gegeben; dies gilt nicht für Streitigkeiten über das Bestehen und die Höhe eines Ausgleichsanspruchs im Rahmen des Artikels 14 Abs. 1 Satz 2 des Grundgesetzes. Die besonderen Vorschriften des Beamtenrechts sowie über den Rechtsweg bei Ausgleich von Vermögensnachteilen wegen Rücknahme rechtswidriger Verwaltungsakte bleiben unberührt.

Entscheidung von Rechtsstreitigkeiten zwischen juristischen Personen des öffentlichen Rechts

– nimmt in der Tätigkeit deutscher Verwaltungsgerichte durchaus eine bedeutsamen Stellenwert ein (allerdings: keine Statistiken, aus denen sich der Anteil derartiger Streitigkeiten an der Gesamtbelastung der Verwaltungsgerichte entnehmen ließe)

– wird dennoch vielfach als eher „zweckwidrige“ Inanspruchnahme der Verwaltungsgerichtsbarkeit gesehen, deren eigentliche Aufgabe es ist, den Einzelnen vor Verwaltungswillkür zu schützen.

I. Verfassungsrechtlicher Rahmen für verwaltungsgerichtliche Streitigkeiten zwischen juristischen Personen des öffentlichen Rechts

1. Der Verfassungsrechtsstreit als Vorbild für verwaltungsgerichtliche Streitigkeiten zwischen juristischen Personen des öffentlichen Rechts

2. Kernauftrag der Verwaltungsgerichtsbarkeit: Schutz des Einzelnen

II. Arten verwaltungsgerichtlicher Streitigkeiten zwischen juristischen Personen des öffentlichen Rechts

1. Verfassungsrechtsstreit als Vorbild …  

Verfassungsgeschichtliche Tradition einer „Staatsgerichtsbarkeit“ I

Art. 76 der Verfassung des Deutschen Reichs vom 16. April 1871:  Streitigkeiten zwischen Bundesstaaten und Verfassungsstreitigkeiten innerhalb der Bundesstaaten werden vom Reichsrat entschieden.

– Streitigkeiten zwischen Bundesstaaten (nicht zwischen Reich und Bundesstaaten)

– Verfassungsstreitigkeiten innerhalb der Bundesstaaten = Insbesondere Streitigkeiten zwischen Parlament und (oft monarchischer) Regierung

– Reichsrat: Politisches Organ mit Übergewicht von Preußen

Verfassungsgeschichtliche Tradition einer „Staatsgerichtsbarkeit“ II

Art. 19 der Verfassung des Deutschen Reichs vom 11. August 1919 (sog. Weimarer Reichsverfassung – WRV):

Über Verfassungsstreitigkeiten innerhalb eines Landes, in dem kein Gericht zu ihrer Erledigung besteht, sowie über Streitigkeiten nichtprivatrechtlicher Art zwischen verschiedenen Ländern oder zwischen dem Reiche und einem Lande entscheidet auf Antrag eines der streitenden Teile der Staatsgerichtshof für das Deutsche Reich, soweit nicht ein anderer Gerichtshof des Reichs zuständig ist.

Verfassungsgeschichtliche Tradition einer „Staatsgerichtsbarkeit“ III

Art. 19 WRV umfasste:

– Zwischenländerstreitigkeiten

– Erstmals: Bund-Länderstreitigkeiten

– Mit „Verfassungsstreitigkeiten innerhalb eines Landes“ Streitigkeiten zwischen Landesparlament und Landesregierung und sonstige „Organstreitigkeiten“ Klagen von Kommunen gegen Gesetze, die sie in ihrem Recht auf kommunale Selbstverwaltung beeinträchtigten

– Nicht: Organstreitigkeiten auf Reichsebene

Verfassungsgeschichtliche Tradition einer „Staatsgerichtsbarkeit“ umfasst damit

– Föderale Streitigkeiten: Streitigkeiten zwischen Bund und Ländern sowie zwischen Ländern

– Organstreitigkeiten: Streitigkeiten zwischen den obersten Staatsorganen des Bundes / der Länder über ihre sich aus der Bundes- bzw. Landesverfassung ergebenden wechselseitigen Rechte und Pflichten

– Kommunale Verfassungsbeschwerden: Insbesondere Kontrolle der Bundes- oder Landesgesetzgebung auf ihre Vereinbarkeit mit der Garantie kommunaler Selbstverwaltung auf Antrag einer Kommune

„Staatsgerichtsbarkeit“ vor dem Bundesverfassungsgericht

Grundgesetz Art. 93 (1)

Das Bundesverfassungsgericht entscheidet:

1. über die Auslegung dieses Grundgesetzes aus Anlaß von Streitigkeiten über den Umfang der Rechte und Pflichten eines obersten Bundesorgans oder anderer Beteiligter, die durch dieses Grundgesetz oder in der Geschäftsordnung eines obersten Bundesorgans mit eigenen Rechten ausgestattet sind;

3. bei Meinungsverschiedenheiten über Rechte und Pflichten des Bundes und der Länder, insbesondere bei der Ausführung von Bundesrecht durch die Länder und bei der Ausübung der Bundesaufsicht;

4. in anderen öffentlich-rechtlichen Streitigkeiten zwischen dem Bunde und den Ländern, zwischen verschiedenen Ländern oder innerhalb eines Landes, soweit nicht ein anderer Rechtsweg gegeben ist;

4b. über Verfassungsbeschwerden von Gemeinden und Gemeindeverbänden wegen Verletzung des Rechts auf Selbstverwaltung nach Artikel 28 durch ein Gesetz, bei Landesgesetzen jedoch nur, soweit nicht Beschwerde beim Landesverfassungsgericht erhoben werden kann;

Verfassungsgeschichtliche Tradition einer „Staatsgerichtsbarkeit“ führte zur Erkenntnis,

– dass auch Streitigkeiten über Kompetenzen und Befugnisse der einzelnen „Staatsuntergliederungen“ Rechtsstreitigkeiten sind,

– über die Gerichte entscheiden können und sollen

– und die damit nicht (allein) mit Mitteln der Politik zu lösen und zu entscheiden sind,

– weil dies der Sicherung des (verfassungs-)gesetzlich (ausgewogen) ausgestalteten Kompetenzgefüges dient.

Mittelbare Folge: Anerkennung der Existenz „öffentlich-rechtlicher Streitigkeiten nichtverfassungsrechtlicher Art“ i. S. des § 40 Abs. 1 Satz 1 VwGO zwischen juristischen Personen des öffentlichen Rechts.

2. Kernauftrag der Verwaltungsgerichtsbarkeit: Schutz des Einzelnen

Grundgesetz Art. 19 (4): Wird jemand durch die öffentliche Gewalt in seinen Rechten verletzt, so steht ihm der Rechtsweg offen. Soweit eine andere Zuständigkeit nicht begründet ist, ist der ordentliche Rechtsweg gegeben. […].

 Wird heute als „Systementscheidung“ verstanden:

– Verwaltungsgerichte dienen hiernach v. a. dem – effektiven – Individualrechtsschutz.

– Ausweitung der Zuständigkeiten der Verwaltungsgerichte auf alle (auch nicht individualschützende) öffentlich-rechtlichen Rechtsstreitigkeiten durch § 40 VwGO ist nicht verfassungsrechtlich geboten (aber auch nicht verfassungsrechtlich untersagt).

Was bedeutet die von Art. 19 Abs. 4 GG getroffene Systementscheidung für den Individualrechtsschutz für unser Thema?

– Verwaltungsgerichte dienen vornehmlich dem Grundrechtsschutz

– Juristische Personen des öffentlichen Rechts und ihre Organe und Behörden können sich niemals (bei keiner ihrer Tätigkeiten) auf den Schutz von Grundrechten berufen (BVerfG, 1 BvR 699/06 v. 22.2.2011, Abs. 48 ff. = BVerfGE 128, 226, 245 ff.; BVerfG (K), 2 BvR 470/08 v. 19.7.2016, Abs. 30 = NJW 2016, 3153 Abs. 30) Ausnahmen bei Rundfunkanstalten und Universitäten, bei denen aus den Grundrechten der Rundfunkfreiheit bzw. der Forschungs- und Lehrfreiheit Selbstverwaltungsrechte hergeleitet werden

– Dies schließt nicht aus, dass jPöR einfachrechtlich (z. B. in den Enteignungsgesetzen) dieselben Rechtspositionen gewährt werden, wie sie Privaten als Folge ihrer Grundrechtsträgerschaft gewährt werden – dann wird ihnen auch i.d.R. Rechtsschutz gewährt wie Privaten.

1. Verwaltungsgerichtliche Organstreitigkeiten

– Erste Entscheidungen der Verwaltungsgerichte über sog. „Kommunalverfassungsstreitigkeiten“ schon in den 1950er Jahren: Gegenstand: Konflikte zwischen Bürgermeister und Gemeinderat oder interne Gemeinderatskonflikte (z. B. über Tagesordnung, Ausschluss von Ratsmitgliedern)

– Ausgangsidee: Rechtsbeziehungen zwischen Organen einer juristischen Person des öffentlichen Rechts sind öffentlich-rechtlich geregelt und können damit zu öffentlich-rechtlichen Streitigkeiten i. S. des § 40 Abs. 1 VwGO führen.

– Leitbild: Verfassungsgerichtlicher Organstreit

– Heute herrschende Meinung: Rechtsschutzgarantie des Art. 19 Abs. 4 GG erfasst derartige Streitigkeiten nicht, so dass Rechtsweg für derartige Streitigkeiten nur einfachrechtlich garantiert ist.

In der Praxis betreffen derartige Streitigkeiten nicht mehr nur Kommunen, sondern auch Sozialversicherungsträger, Selbstverwaltungskörperschaften der Wirtschaft, Universitäten etc…

Mittlerweile gibt es solche Streitigkeiten auch auf der Ebene der Staatsverwaltung, etwa zwischen Behördenleitung und Gleichstellungsbeauftragten und ähnlichen Beauftragten über deren Mitwirkungsrechte

2. (Rechts-)Aufsichtsstreitigkeiten

– Jede Maßnahme einer Kommune unterliegt (zumindest) einer staatlichen Rechtsaufsicht a posteriori, die in konkreten einseitigen Rechtsaufsichtsmaßnahmen (Beanstandung oder Aufhebung kommunaler Beschlüsse, Anordnung kommunaler Maßnahmen oder ihre Durchführung im Wege der Ersatzvornahme) münden kann

– Als Rechtsaufsichtsmaßnahmen in diesem Sinne gelten ferner Genehmigungsvorbehalte für Satzungen, Verträge etc.

– Rechtsaufsichtsmaßnahmen, die die Kommune für rechtswidrig hält, können innerhalb bestimmter Fristen von den Kommunen unter Behauptung einer Verletzung ihres Selbstverwaltungsrechts gerichtlich angegriffen werden. Nach Fristablauf werden Rechtsaufsichtsmaßnahmen bestandskräftig.

– Für den Rechtsschutz der Kommune gelten i.d.R. die allgemeinen Regeln der VwGO über die Anfechtungsklage

Ähnliche Grundsätze gelten auch in Bezug auf die Rechtsaufsicht gegenüber anderen Trägern der mittelbaren Staatsverwaltung (Sozialversicherungsträger, Selbstverwaltungskörperschaften der Wirtschaft, Universitäten etc…)

Wichtig: Soweit die Kommunen oder andere Selbstverwaltungsträger (z. B. im Gefahrenabwehrrecht) staatliche Aufgaben wahrnehmen, gibt es gegenüber staatlichen Aufsichtsmaßnahmen i.d.R. keinen Rechtsschutz, da insoweit die Selbstverwaltungsgarantie nicht greift.

Wichtig: Die Länder unter stehen keiner vergleichbaren Rechtsaufsicht durch den Bund. Streitigkeiten zwischen Bund und Ländern betreffend die Ausführung von Bundesgesetzen sind i.d.R. verfassungsrechtliche Streitigkeiten, über die das Bundesverfassungsgericht entscheidet

3. Streitigkeiten wegen Inanspruchahme juristischer Personen des öffentlichen Rechts aus Normen, die „an sich“ Pflichten von Privaten begründen

Streitigkeiten als Folge einer Inanspruchnahme einer juristischen Person aus Normen, die an sich auf das „Staat-Bürger-Verhältnis“ zugeschnitten sind:

– Abgaben- und Steuerpflichten juristischer Person des öffentlichen Rechts;

– Enteignung einer juristischen Person des öffentlichen Rechts im „normalen“ Enteignungsverfahren

– Verpflichtung einer juristischen Person des öffentlichen Rechts aus baurechtlichen, umweltrechtlichen, straßen(verkehrs-)rechtlichen, gefahrenabwehrrechtlichen Vorschriften;

– Gewährung einer Finanzhilfe/Subvention an eine juristische Person des öffentlichen Rechts nach allgemeinen Regeln, die auch für private Subventionsempfänger gelten

– Beteiligung einer juristischer Person des öffentlichen Rechts als Bieter in einem Vergabeverfahren ….

Hauptprobleme in diesen Fällen:

Wann ist eine juristische Person des öffentlichen Rechts eigentlich als aus allgemeinen, an sich auf das Staat-Bürger-Verhältnis zugeschnittenen Normen als verpflichtet anzusehen – und wann gelten (nur) besondere (ggf. ungeschriebene) verwaltungsorganisationsrechtliche Regeln?

Wann ist eine juristische Person des öffentlichen Rechts der „Hoheitsgewalt“ einer anderen juristischen Person des öffentlichen Rechts wie ein „normaler Bürger“ unterworfen?

Gelten bei der Anwendung der „an sich“ auf das Staat-Bürger-Verhältnis zugeschnittenen auf juristische Personen des öffentlichen Rechts im Hinblick auf deren fehlende Grundrechtsfähigkeit Besonderheiten?

4. Streitigkeiten zwischen gleichgeordneten juristischen Personen des öffentlichen Rechts

 Streitigkeiten über die Anwendbarkeit und Auslegung von Vorschriften, die speziell die Abgrenzung von Zuständigkeiten und die Finanzbeziehungen zwischen einzelnen juristischen Personen des öffentlichen Rechts regeln:

Beispiele:

Streitigkeiten im Infrastrukturrecht: Hat eine Gemeinde Anspruch auf Beteiligung des Bundes und des Landes an den Kosten, die dadurch entstehen, dass die kommunale Entwässerungsanlage auch das Niederschlagswasser aufnehmen muss, das von einem komplexen Kreuzungsbauwerk abfließt, an dem sich eine Land- und eine Bundesstraße mit einer kommunalen Straßenbahn kreuzen?

Streitigkeiten aus vertraglichen Regelungen zwischen juristischen Personen des öffentlichen Rechts (z. B. zur Gründung eines Zweckverbands)

Streitigkeiten über die Anwendbarkeit und Auslegung von Vorschriften, die speziell die Abgrenzung von Zuständigkeiten und die Finanzbeziehungen zwischen einzelnen juristischen Personen des öffentlichen Rechts

– werden grundsätzlich als Streitigkeiten zwischen „gleichgeordneten“ Verwaltungsträgern verstanden, auch wenn z. B. eine Kommune ein Land oder den Bund verklagt: Keine allgemeine Hierarchie in der deutschen Verwaltung;

– sind oft indirekte Folge einer „Herabzonung“ von Verwaltungsaufgaben auf die kommunale Ebene, weil sich dann neue Fragen der Abgrenzung der (Finanzierungs-)Zuständigkeiten stellen;

– häufen sich in Zeiten „knapper Kassen“ und allgemeiner Sparmaßnahmen – paradoxerweise, weil sie die Kosten des Verwaltungsvollzugs insgesamt (um die Kosten des Rechtsstreits) erhöhen, ohne die öffentlichen Mittel insgesamt zu mehren.

Fazit

– Die Verwaltungsgerichte werden durch Rechtsstreitigkeiten zwischen juristischen Personen des öffentlichen Rechts in durchaus nennenswerter Weise belastet.

– Rechtsstreitigkeiten zwischen juristischen Personen des öffentlichen Rechts unterscheiden sich von „normalen“ Streitigkeiten zwischen Bürger und Verwaltung erheblich, auch weil oft nur schwer zugängliches, schlecht „erschlossenes“ Recht anwendbar ist.

– Rechtsstreitigkeiten zwischen juristischen Personen des öffentlichen Rechts sind oft indirekte Folge schlecht gemachter Verwaltungsreformen und strikter Sparpolitik.

– Generell sollte mehr über Möglichkeiten eines „Rückschnitts“ derartiger Streitigkeiten zu Gunsten „verwaltungsinterner“ Streitlösungsmechanismen nachgedacht werden.

Relazione tedesca Dr. Andreas Middeke – Cagliari 8/6/2018

Das Einschreiten gegen illegale bauliche Anlagen und Möglichkeiten ihrer Legalisierung unter bes. Berücksichtigung von Schutzgebieten (*)
VRVG Dr. Andreas Middeke, Verwaltungsgericht Münster
Gentile Signore e Signori, Medames et messieurs, meine verehrten Damen und Herren, liebe Kolleginnen und Kollegen, cher collègues, cari colleghi,

A. Die Thematik ist sehr komplex und betrifft verschiedene Rechtsgebiete und Zuständigkeiten, die in der Bundesrepublik Deutschland unterschiedlich geregelt sind. Neben dem Baurecht, dem Naturschutz- und dem Wasserrecht, für die der Bund die Gesetzgebungskompetenz hat, kommt die Zuständigkeit der einzelnen Bundesländer hinzu, die in diesen Rechtsgebieten ebenfalls besteht. Letztlich sind es aber die Kommunen (Städte, Gemeinden und Regionen), die beim Einschreiten gegen illegale Bauten, sog. Schwarzbauten, gefordert sind und über das Verwaltungsvollstreckungsrecht ihre Verfügungen durchsetzen müssen. In dieser – ich nenne es einmal Dreieckskonstellation – bewegt sich das Einschreiten und die Durchsetzung gegen illegale Bauten im Außenbereich.

B. Die Kommune ist gefordert, illegale Bauten in landschaftlich reizvoller Lage zu beseitigen. Hierzu sehen die Bauordnungen der einzelnen Bundesländer Vorschriften vor. Es gibt zwar eine sog. Musterbauordnung (MBO), die eine gewisse Gleichheit innerhalb der Länder herstellen möchte, doch sind die Regelungen in der MBO nur Empfehlungen, keine zwingende Verpflichtungen, so dass sich die meisten landesrechtlichen Bauordnungen doch unterscheiden können. Ich werde mich im Folgenden auf die Generalklausel in NRW – beschränken, die im Wesentlichen gleichlautend mit § 58 Abs. 2 MBO ist.

„Die Bauaufsichtsbehörden haben bei der Errichtung, der Änderung, dem Abbruch, der Nutzung, der Nutzungsänderung sowie der Instandhaltung baulicher Anlagen sowie anderer Anlagen und Einrichtungen i.S. d. § 1 Abs. 1 S. 2 darüber zu wachen, dass die öffentlich-rechtlichen Vorschriften und die auf Grund dieser Vorschriften erlassenen Anordnungen eingehalten werden. Sie haben in Wahrnehmung dieser Aufgaben nach pflichtgemäßem Ermessen die erforderlichen Maßnahmen zu treffen.“

Im Rahmen ihres pflichtgemäßen Ermessens können die Bauaufsichtsbehörden bei illegalen Bauten entscheiden, ob sie

a) die Nutzung der baulichen Anlage untersagen,

b) die Arbeiten an dem Bauvorhaben stilllegen oder aber

c) die (ganze) bauliche Anlage beseitigen wollen.

Für eine Nutzungsuntersagung oder Stilllegungsverfügung reicht es aus, wenn die bauliche Anlage „formell illegal“ ist, d.h. wenn das betreffende Bauvorhaben nicht durch eine rechtswirksame Baugenehmigung gedeckt ist oder in der Vergangenheit nicht irgendwann rechtmäßig errichtet war und auch aus der Sicht der Behörde nicht – nachträglich – genehmigt werden kann.

Eine bauliche Anlage zu beseitigen, kann mitunter schwieriger sein. „Die Beseitigung einer baulichen Anlage kann zunächst dadurch erfolgen, dass diese schlicht fortbewegt (beiseite geschafft) wird, ohne dass in ihre Substanz eingegriffen wird. Das trifft etwa zu bei einem Materialcontainer, … einer Werbeanlage“ oder einem Hausboot . Von dieser Form der Beseitigung zu unterscheiden ist der vollständige oder teilweise Abbruch einer Anlage, der naturgemäß mit einer Zerstörung der Bausubstanz verbunden ist. „Diese Form … einer „Beseitigung“ wird besser umschrieben mit „Abbruchverfügung“ oder „Abrissgebot“.“

„In der deutschen Rechtsprechung und Literatur ist seit langem anerkannt, dass für das Gebot der Beseitigung einer baulichen Anlage, wenn hierfür keine wesentliche Substanzzerstörung erfolgen muss, keine höheren rechtlichen Anforderungen erfüllt zu sein brauchen, als bei der eben genannten Nutzungsuntersagung.“ Soll demgegenüber ein vorhandener „Bau“ beseitigt, d.h. abgerissen, also dem Erdboden gleichgemacht werden, wird durch den Substanzverlust massiv in das geschützte Eigentumsgrundrecht eingegriffen. Angesichts dessen wird wegen der möglichen Substanzvernichtung bei einer von der Bauaufsicht verfügten Beseitigung eines „formell illegalen“ Bauvorhabens zusätzlich deren „materielle Illegalität“ verlangt. Dies bedeutet, dass das Bauvorhaben auch mit den materiell-rechtlichen öffentlich-rechtlichen Vorschriften nicht in Einklang steht. Hierzu zählen zunächst alle Vorschriften, die die Bauaufsichtsbehörden auch im Genehmigungsverfahren zu prüfen haben. Aber auch, wenn das Bauvorhaben genehmigungsfrei sein sollte, entbindet es den Bauherrn der baulichen Anlage nicht von der Verpflichtung, die öffentlich-rechtlichen Vorschriften, namentlich die des Bauplanungsrechts, des Landschaftsschutzrechts und des Naturschutzrechts einzuhalten. Zu den Voraussetzungen im Einzelnen:

I. Formelle Illegalität

Grundsätzlich bedarf in der Bundesrepublik Deutschland jeder, der die Errichtung, die Änderung, die Nutzungsänderung und den Abbruch baulicher Anlagen sowie anderer Anlagen und Einrichtungen, an die die BauO Anforderungen stellt, verfolgt, einer Baugenehmigung, es sei denn, das Gesetz sieht ausnahmsweise etwas anderes vor. Formell baurechtswidrig ist ein (genehmigungspflichtiges) Vorhaben dann, wenn es ohne die erforderliche Baugenehmigung errichtet wird oder errichtet worden ist, weil es dann gegen „öffentlich-rechtliche Vorschriften“ verstößt. Mit der Beseitigung/ dem Abbruch eines Gebäudes, einer baulichen Anlage (alles, was nicht dem dauerhaften Wohnen von Menschen bestimmt ist, wie z.B. Aufschüttung, Wall) allein wegen einer fehlenden erforderlichen Baugenehmigung tut sich die verwaltungsgerichtliche Rechtsprechung in Deutschland wegen des unmittelbaren und schweren Eingriffs in das Eigentumsgrundrecht schwer. Würde allein das bestätigende Papier der erforderlichen Genehmigung fehlen, könnte ein solches auch später noch beschafft werden. Der Abriss einer baulichen Anlage, die u. U. etliche Tausend Euro gekostet hat, hätte dann irreparable Folgen, die – unterstellt, es fehlt nur die Genehmigung – unverhältnismäßig wären. Eine Ausnahme wird nur dann gemacht, wenn eine Beseitigung der betreffenden baulichen Anlage o h n e Substanzverlust, d.h. ohne grundlegende Zerstörung der Baumaterialien möglich wäre, wie z. B. bei einem Wohnwagen, einem Container, einer Werbeanlage oder Fertiggarage oder auch Hausboot, ohne Motor . Solche Fälle dürften im Außenbereich aber eher die Ausnahme sein. Grundsätzlich ist der Abbruch einer baulichen Anlage bei allein formeller Illegalität n u r dann möglich, wenn die finanziellen Auswirkungen für den Eigentümer durch die Beseitigung gering sind und eine effektive Durchsetzung des Baurechts anders nicht möglich wäre.

II. Materielle Illegalität

Bei einem Abbruchgebot, welches unweigerlich die Zerstörung der Bausubstanz zur Folge hätte, ist deshalb nach der höchstrichterlichen Rechtsprechung des BVerwG zu fordern, dass das Bauobjekt nicht nur gegen das Genehmigungserfordernis verstößt – also formell illegal ist -, sondern – zusätzlich – seit seiner Errichtung auch fortdauernd gegen materiell-rechtliche Vorschriften verstößt – und damit auch materiell illegal ist. Eine Baugenehmigung dürfte also, auch wenn sie – nachträglich – beantragt würde, nicht erteilt werden können, weil das Bauvorhaben auch inhaltlich gegen Anforderungen des materiellen öffentlichen Rechts wie dem Bauplanungs-, dem Naturschutz- oder Landschaftsschutzrecht oder dem Wasserrecht verstößt. Die Bauaufsichtsbehörden haben im Rahmen ihrer Beseitigungsverfügung damit quasi fiktiv zu prüfen, ob für das abzureißende Bauvorhaben grundsätzlich auch nachträglich noch eine Baugenehmigung erteilt werden könnte.

1. Verstoß gegen § 35 BauGB?

In materieller Hinsicht muss ein Bauvorhaben den planungsrechtlichen Vorschriften des BauGB entsprechen. Da wir unser Augenmerk besonders auf die geschützten Bereiche von Natur und Landschaft legen wollen, möchte ich im Folgenden nur auf den sog. Außenbereich eingehen, da dort im Wesentlichen die geschützten Bereiche von Bedeutung sind. Im Außenbereich, also in einem nicht durch Bauleitplanung beschlossenen oder nicht durch eine zusammenhängende Bebauung geprägten Bereich sind nach § 35 Abs. 1 BauGB entweder privilegierte Bauvorhaben zulässig oder solche, die wegen ihrer Zweckbestimmung nur im Außenbereich ausgeführt werden können. Dies sind nach der Vorstellung des bundesdeutschen Gesetzgebers zum einen land- oder forstwirtschaftliche Betriebe, Gartenbaubetriebe oder Vorhaben, die der öffentlichen Versorgung mit Energie dienen. Zum anderen wegen ihrer Emissionen aber auch Windenergieanlagen, Kernenergieanlagen, Biogasanlagen oder Tiermastbetriebe. Allgemeine Wohnhäuser sind im Außenbereich regelmäßig nicht gestattet. Hintergrund ist, dass der Außenbereich von einer Versiegelung der Fläche verschont bleiben soll. Die nicht vermehrbaren unbebauten Flächen sollen der Natur und Landschaft sowie dem Erholungswert der Menschen vorbehalten bleiben, die der Gesetzgeber u. a. als gewichtige öffentliche Belange festgelegt hat, die einem Vorhaben nicht entgegenstehen dürfen. Weitere wichtige öffentliche Belange, die nicht beeinträchtigt werden dürfen, können sein: Widerspruch zu den Darstellungen eines Flächennutzungsplans oder eines Landschaftsplans, Hervorrufen schädlicher Umwelteinwirkungen, Gefährdung der Wasserwirtschaft oder des Hochwasserschutzes. Nur dann, wenn die Beeinträchtigung solcher öffentlicher Belange ausscheidet, können im Einzelfall auch sonstige, d.h. nicht privilegierte Vorhaben zugelassen werden, wenn zudem die Erschließung gesichert ist.

2. Verstoß gegen BNatSchG?

Ein solcher wichtiger öffentlicher Belang ist die Vereinbarkeit mit dem Naturschutzrecht. Aus § 35 Abs. 3 Nr. 5 BauGB ergibt sich, dass ein nicht privilegiertes Bauvorhaben die Belange des Naturschutzes und der Landschaftspflege nicht beeinträchtigen darf. Die Bauaufsichtsbehörden haben – in enger Zusammenarbeit mit den Naturschutz- und Landschaftsbehörden – zu prüfen, ob naturschutzrechtliche oder landschaftsschutzrechtliche Belange nicht nur betroffen, sondern beinträchtigt werden. Sie sind also gut beraten, die Fachbehörden einzubeziehen und ihre Stellungnahme zu erbitten. Eine solche Beeinträchtigung durch einen illegalen Bau ist immer dann anzunehmen, wenn das illegale Gebäude in einem durch Naturschutz- und Landschaftsschutzbestimmungen geschützten Gebiet liegt (z. B. FFH- oder Vogelschutzgebiet). Aber auch ohne förmliche Ausweisung eines bestimmten Landstrichs als besonders schützenswertes Naturschutzgebiet können diese Belange beeinträchtigt sein. So zielen die Belange des Natur- und Landschaftsschutzes darauf ab, die Leistungsfähigkeit des Naturhaushalts, die Nutzfähigkeit der Naturgüter, die Tier- und Pflanzenwelt sowie die Vielfalt, Eigenart und Schönheit von Natur und Landschaft als Lebensgrundlagen des Menschen nachhaltig zu sichern. Die Prüfung, ob ein Verstoß gegen artenschutzrechtliche Verbote vorliegt, setzt eine ausreichende Ermittlung und Bestandsaufnahme der im Einwirkungsbereich der Anlage vorhandenen Tierarten und ihrer Lebensräume voraus. Die Untersuchungstiefe hängt maßgeblich von den naturräumlichen Gegebenheiten im Einzelfall ab. Folgende Beispiele hat die deutsche Rechtsprechung entschieden: Verstoß eines Wochenendhauses, welches in einem 50 m breiten Uferstreifen errichtet wurde, der aber freizuhalten war. Beseitigung eines Blockbohlenhauses auf einer Wiese als wesensfremde Bebauung. Ein Mehrzweckraum für einen Naturfreundeverein, der im Außenbereich ein Wildgehege als Pächter betreibt.

3. Verstoß gegen WHG?

Entsprechendes gilt bei der Gefährdung der Wasserwirtschaft durch den errichteten Bau. Eine solche Gefährdung kann durch die Abwasserbeseitigung, die Beseitigung von Abfall und Müll oder durch die Lagerung von Öl oder anderen Stoffen, die das Grundwasser verseuchen oder einen Wasserlauf verunreinigen können, hervorgerufen werden. Das VG Münster hatte im letzten Monat über eine Baugenehmigung für einen Schweinemastbetrieb zu entscheiden, wo unklar war, wieviel Nitrat und Phosphat von der Gülle (Tierausscheidungen) in ein benachbartes stehendes Gewässer (See) eintrat. Hier muss die Behörde noch nachermitteln. Aber auch die Lagerung landwirtschaftlicher Gerätschaften im Wasserschutzgebiet ist kritisch zu sehen, wenn diese mit grundwassergefährdeten Stoffen befüllt sind. Mit dem Gesetz zur Verbesserung des Hochwasserschutzes vom 3. Mai 2005 (BGBl. I S. 1224) hat der Gesetzgeber den Hochwasserschutz als öffentlichen Belang ausdrücklich hervorgehoben (BT-Drs. 15/3168, 9). Zu den Zielen dieses Gesetzes gehört auch, die Siedlungsentwicklung dem Hochwasserschutz anzupassen und die durch Hochwasser drohenden Schäden zu mindern (BT-Drs. 15/3168, 8). Im Hinblick auf den einschlägigen Maßstab der verständigen Plausibilität ist eine Beeinträchtigung jedenfalls anzunehmen, wenn das Vorhabengrundstück in einem Überschwemmungsgebiet (im Sinne des § 78 Abs. 1 Satz 1 WHG liegt), und viel dafür spricht, dass es bereits bei einem schweren Hochwasser überschwemmt wurde und die zuständige Behörde keinen Dispens vom allgemeinen Bauverbot erteilt hat (enger wohl OVG NRW, Urt. v. 30. Oktober 2009 – 10 A 1074/08 – juris).

4. Die zu beseitigende illegale bauliche Anlage darf nicht während ihrer Errichtung oder später einmal dem materiellen Recht entsprochen haben, weil sie dann ggf. Bestandsschutz genießt; sie verstieß dann zu irgendeinem Zeitpunkt nicht mehr gegen öffentliche Vorschriften (z. B. bei aktiver Duldung durch die Behörde oder einer nachträglichen Legalisierung). Für ein Eingreifen des Bestandsschutzes reicht es nicht aus, dass die Anlage unbemerkt von der Bauaufsichtsbehörde bereits seit längerer Zeit an dieser Stelle steht. Dies wird aber häufig von den Betroffenen als Argument angeführt, dass die bauliche Anlage jetzt – nach Jahr und Tag – nicht mehr abgerissen werden dürfe. Eine schutzwürdige Position erlangt der Eigentümer einer illegalen Immobilie nicht dadurch, dass es ihm gelungen ist, die Anlage über Jahre vor der Behörde zu verbergen oder diese von der Illegalität des Baus keine Kenntnis erlangt hat. Bestandsschutz für eine bauliche Anlage liegt nur dann vor, wenn sie zu irgendeinem Zeitpunkt wirksam genehmigt wurde oder jedenfalls nach den (damaligen) gesetzlichen Vorschriften materiell-rechtlich genehmigungsfähig gewesen ist. Für die zweite Alternative kommt es darauf an zu prüfen, ob ein fiktiver Bauantrag, wäre er vorher gestellt worden, erfolgreich gewesen wäre, und zwar im Zeitpunkt der Errichtung der Anlage oder zu irgendeinem späteren Zeitpunkt für einen nicht unbeachtlichen Zeitrahmen. Wird Bestandsschutz geltend gemacht, trägt die Beweislast für den rechtlich einwandfreien Zustand der Anlage zu irgendeinem Zeitpunkt, der Bauordnungspflichtige/ der Bauherr. Denn er beruft sich auf ein Gegenrecht, für dessen Behauptung er beweisbelastet ist. Dies ist aber bei Verlust oder Untergang der entsprechenden Bauakten häufig schwierig bis unmöglich. Bei Bauten, die vor dem 2. Weltkrieg errichtet wurden und bis in die jüngste Zeit unbeanstandet genutzt worden sind, hat das Berufungsgericht (Kassationsgericht) in unserem Bundesland eine Erleichterung eingeführt. Danach hat die Bauaufsichtsbehörde im Rahmen ihrer Ermessensbetätigung die Angemessenheit einer “Stichtagsregelung” zu erwägen. Ob der nordrhein-westfälische Landesgesetzgeber diese Rechtsprechung aufnimmt und in einer derzeit im Umbruch befindlichen Bauordnung unterbringt, bleibt abzuwarten. Zur Vermeidung von Missverständnissen hat der Senat des OVG NRW aber darauf hingewiesen, dass eine solche “Stichtagsregelung” im vorgenannten Sinne nicht automatisch das Nicht-Einschreiten gegen vor dem gewählten Stichtag errichtete “Schwarzbauten” zur Folge hat; auch eine solche “Ermessensrichtschnur” ist Ausnahmen zugänglich, die allerdings – gemessen am Gleichheitssatz – hinreichend sachlich begründet sein müssen, etwa im Hinblick auf eine qualifizierte Beeinträchtigung öffentlicher Belange.

III. Ermessen

Liegen die Voraussetzungen der formellen und materiellen Illegalität vor, liegt die Entscheidung der Beseitigung des Gebäudes oder der baulichen Anlage im Ermessen der Bauaufsichtsbehörde („kann“). Allerdings geht die deutsche Rechtsprechung hier von einem sog. intendierten Ermessen aus. D.h. die Bauaufsichtsbehörde soll bei Vorliegen der tatbestandlichen Voraussetzungen im Regelfall mittels eines Verwaltungsaktes die Beseitigung der illegalen bauliche Anlage verfügen und darf lediglich ausnahmsweise bei Vorliegen begründeter Einzeltatsachen von einem Abbruchgebot absehen, was dann aber besonders zu begründen ist. Gegenstand der Bauordnungsverfügung kann nur die bauliche Anlage als Ganzes sein, da sie im Ganzen dem materiellen Recht widerspricht. Die Ermessensentscheidung, eine Beseitigungs- oder Rückbauverfügung zu erlassen, kann die Bauaufsichtsbehörde im Regelfall ordnungsgemäß damit begründen, dass die zu beseitigende Anlage formell und materiell illegal ist und dass ein öffentliches Interesse daran besteht, keinen Präzedenzfall- oder Berufungsfall für andere (Dritte) zu schaffen. Eine weitergehende Abwägung des “Für und Wider” einer Beseitigungsanordnung ist nur dann geboten, wenn konkrete Anhaltspunkte ausnahmsweise für die Angemessenheit einer vorübergehenden oder dauerhaften Duldung sprechen. Im Rahmen dieses behördlichen Ermessens muss sich die Bauaufsichtsbehörde mit einer Vielzahl von Einwendungen der Ordnungs-pflichtigen beschäftigen. Häufig wird ein Verstoß gegen den Verhältnismäßigkeitsgrundsatz geltend gemacht. Allerdings muss die Behörde bei einer Beseitigungsverfügung immer prüfen, ob der Verstoß so schwer wiegt, dass er die Maßnahme des vollständigen Abbruchs rechtfertigt. Je schwerer der Eingriff in das Grundrecht des Eigentums wiegt, umso schwerer und unabweisbarer müssen die entgegenstehenden öffentlichen Belange sein. Hierzu gehören – wie zuvor benannt – der Naturschutz und die Wasserwirtschaft. Häufig wird eingewandt, der Abriss sei angesichts der aufgewandten Bausummen unverhältnismäßig; die Behörde habe aufgrund des langen Zeitablaufs kein Recht mehr zum Einschreiten. Diese Rechtsauffassung der Betroffenen wird im Regelfall aber kaum überzeugen, da sich der Betroffene über geltendes Recht hinweg und selbst ins Unrecht gesetzt hat. Ansonsten würde auch die Ordnungsfunktion des Bauaufsichtsrechts entwertet. Der gesetzestreue Bürger, der sein Bauvorhaben nur auf der Grundlage einer vollziehbaren Baugenehmigung verwirklicht, würde gegenüber dem rechtswidrig handelnden „Schwarzbauer“ ungerechtfertigt benachteiligt. Auch eine Verwirkung zum Einschreiten durch die Baubehörde kann kaum angenommen werden, da es sich bei der Beseitigungsverfügung der Bauaufsichtsbehörde nicht um ein „Recht“, sondern um eine legislative „Pflicht“ zur Überwachung der Einhaltung der Vorschriften handelt. Allerdings ist dem Ordnungspflichtigen auf Antrag zu gestatten, ein anderes ebenso wirksames Mittel anzuwenden, sofern die Allgemeinheit dadurch nicht stärker beeinträchtigt wird. Das kann ein lediglich teilweiser Rückbau sein. Voraussetzung ist aber immer, dass der dann verbleibende Bauteil für sich genommen genehmigungsfähig und nicht rechtswidrig ist. In dem Fall kann die Behörde von der Durchsetzung ihrer Verfügung Abstand nehmen.

IV. Zwangsvollstreckungsvoraussetzungen

Nach dem VerwVG des Bundes und der Länder kann ein Verwaltungsakt wie die Beseitigungsverfügung mit Zwangsmitteln durchgesetzt werden, wenn er unanfechtbar ist oder wenn ein Rechtsmittel keine aufschiebende Wirkung hat. Ein Zwangsmittel ist das Zwangsgeld, welches wiederholbar und auch mit höheren Beträgen bis zu jeweils 100.000,- Euro angedroht werden kann. Bei der Bemessung des Zwangsgeldes ist das wirtschaftliche Interesse des Betroffenen an der Nichtbefolgung der Beseitigungsmaßnahme zu berücksichtigen. Im Falle der Uneinbringlichkeit des Zwangsgeldes, z.B. bei Insolvenz, kann das Verwaltungsgericht auf Antrag der Vollstreckungsbehörde ersatzweise eine Inhaftierung anordnen, wenn der Betroffene zuvor darauf hingewiesen wurde. Die Ersatzzwangshaft beträgt mindestens einen Tag und höchstens zwei Wochen. Als weiteres Zwangsmittel kommt die Ersatzvornahme in Betracht. D.h., der Abriss muss nicht durch den Betroffenen selbst durchgeführt werden, sondern die Behörde droht an, die Beseitigung durch eine Fachfirma (Abbruchunternehmen) auf Kosten des Beseitigungspflichtigen vorzunehmen. Als drittes Zwangsmittel kommt die Versiegelung des Geländes oder des zu beseitigenden Bauwerks in Betracht. Damit wird jedem Unberechtigten der Zugang zu der baulichen Anlage verwehrt. Eine solche Zwangsmaßnahme kommt aber nur dann in Betracht, wenn unmittelbare Gefahren für Leib oder Leben durch Betreten der baulichen Anlage bestehen (Stichwort: Statik, Einsturzgefahr). Eine Beseitigung der Anlage ist damit noch nicht verbunden.

C. Mögliche Formen der Legalisierung

I. Bauleitplanung

Ist der Außenbereich bereits durch ein – ehemals legales Bauvorhaben (z.B. Altenteilerhaus) – schon versiegelt, kann das Bauwerk, auch nachdem seine privilegierte Nutzung aufgegeben wurde, unter engen Voraussetzungen im Interesse des Eigentümers beibehalten werden. Den in § 35 Abs. 4 BauGB angeführten Nutzungsänderungen, Erweiterungs- oder Wiederaufbaumaßnahmen kann nicht entgegengehalten werden, dass dieses Bauvorhaben dem Flächennutzungsplan, der Eigenart der Landschaft widerspricht oder die Entstehung oder Verfestigung einer Splittersiedlung befürchten lässt. Nur diese Belange sind aufgrund der gesetzlichen Regelung überwindbar. Die sonstigen weiteren öffentlichen Belange, wie Naturschutz und Wasserwirtschaft, bleiben davon unberührt. Falls diese beeinträchtigt werden, kann auch ein nach § 35 Abs. 4 BauGB beschriebenes Vorhaben nicht zugelassen werden. Voraussetzung ist zudem immer, dass es sich bei dem Bauvorhaben, welches nunmehr – ohne Nutzung – im Außenbereich steht, um ein ehemals „zulässigerweise errichtetes“ Bauvorhaben handelt. Darin kommt zum Ausdruck, dass die Regelung an Bestandsgesichtspunkte anknüpft. Ein formell und materiell illegales Bauvorhaben kann demnach nicht nach dieser Vorschrift legalisiert werden.

II. Außenbereichs- oder Innenbereichssatzung

Nach dem deutschen Baurecht kann eine Gemeinde für bebaute Bereiche im Außenbereich, die nicht überwiegend landwirtschaftlich geprägt sind und in denen eine Wohnbebauung von einigem Gewicht vorhanden ist, durch Satzung bestimmen, dass Wohnzwecken dienenden Vorhaben im Sinne des Absatzes 2 nicht entgegengehalten werden kann, dass sie einer Darstellung im Flächennutzungsplan über Flächen für die Landwirtschaft oder Wald widersprechen oder die Entstehung oder Verfestigung einer Splittersiedlung befürchten lassen. Die Satzung kann auch auf Vorhaben erstreckt werden, die kleineren Handwerks- und Gewerbebetrieben dienen. Entgegengehalten werden können solchen Bauvorhaben aber immer noch naturschutz- und wasserrechtliche Belange. Bebauung in Naturschutz- und Wasserschutzgebieten sollen damit generell vermieden werden, so dass auch insoweit eine Legalisierung ausscheidet.

III. Duldung

Eine Form der Legalisierung ist neben der Erteilung einer (nachträglichen) Baugenehmigung (wohl nur unter den vorgenannten Einzelfallvoraussetzungen und nur dann, wenn keine naturschutz- oder wasserrechtlichen Belange beeinträchtigt sind), die Form der Duldung. Hierbei ist zwischen der „aktiven“ und der „passiven“ oder „faktischen“ Duldung zu unterscheiden. Die „passive“ Duldung unterscheidet sich von der „aktiven“ Duldung dadurch, dass die Baubehörde einen illegalen Zustand hinnimmt, ohne gegen das Bauvorhaben in irgendeiner Form ordnungsrechtlich einzuschreiten. Aus ihr kann der Pflichtige keinen Vertrauenstatbestand herleiten. Die Bauaufsichtsbehörde kann nicht alle Gebäude und baulichen Anlagen ständig auf ihre Rechtmäßigkeit hin überprüfen. Nur dann, wenn die Behörde positive Kenntnis von einem illegalen Bauvorhaben hat (sei es über Nachbarn oder durch andere Behörden) und zu erkennen gibt, dass sie sich auf Dauer mit dem illegalen Bau und seiner Existenz abfinden will, spricht man von einer sog. „aktiven“ Duldung. Wegen dieser einer „Zusicherung“ nahekommenden Wirkung setzt dies aber voraus, dass die Behörde erklärt, ob und in welchem Umfang und über welchen Zeitraum hinweg, sie diesen illegalen Zustand hinnehmen will. Liegt eine „aktive Duldung“ vor, können sich hieraus für vergleichbare Fälle Einschränkungen hinsichtlich der Ermessensausübung unter dem Gesichtspunkt der Gleichbehandlung ergeben. Eine Ungleichbehandlung liegt beispielsweise dann vor, wenn die Behörde bei vergleichbaren baulichen Anlagen, die materiell illegal errichtet wurden, in Kenntnis ihrer Rechtswidrigkeit nur eine Anlage oder wenige mit einer Beseitigungsverfügung überzieht (z. B. Wochenendhäuser an einem Flusslauf oder an einem See).

D. Ausblick

Bei uns in der Region begegnen die Bauaufsichtsbehörden Bauanträgen, die im Außenbereich errichtet werden sollen, in jüngster Vergangenheit mit allergrößter Vorsicht. Mitunter werden Privilegierungen (landwirtschaftliche Nutzungen) vorgegeben, um diese dann aber bei Unwirtschaftlichkeit nach mehreren Jahren einzustellen. Die Privilegierung wird aufgegeben, dass Gebäude steht aber in reizvoller Umgebung. Die Schwierigkeiten, solche Gebäude beseitigen zu lassen, habe ich gerade versucht, aufzuzeigen. Deshalb sind die Bauaufsichtsbehörden dazu übergegangen, die Zulassungsvoraussetzungen sehr gründlich und sehr streng zu prüfen. Bei Zweifeln an der materiellen Legalität wird das Bauvorhaben auch auf die Gefahr eines Rechtsstreites abgelehnt. Die Behörden wissen selbst, dass die Mühlen der Justitia zwar mahlen, aber relativ langsam. So lange bleibt der Außenbereich, bleibt die Natur und Landschaft vor weiterer Bebauung geschützt. Umgekehrt ist es aber auch so: Bis eine Beseitigungsverfügung durch alle Gerichtsinstanzen rechtlich überprüft wurde, können Jahre vergehen. Solange bleibt das Gebäude stehen. Hier können sich die Baubehörden damit behelfen, dass sie neben der Beseitigungsverfügung auch eine Untersagung der Nutzung des illegalen Gebäudes verfügen. Dann kann der Ordnungspflichtige jedenfalls für die Zeit des Rechtsstreits die Früchte seiner illegalen Tätigkeit nicht nutzen.

Ich danke für Ihre Aufmerksamkeit.