Relazione italiana dell’avv. Claudio Sironi – Spira – 29/09/2017
“Le controversie tra persone giuridiche di diritto pubblico davanti al giudice amministrativo”
1. Prima di entrare nel cuore del tema, occorre partire da alcune considerazioni preliminari relative all’ordinamento italiano.
Lo Stato (inteso come amministrazione) è un soggetto giuridico che agisce per fini propri, al pari degli altri soggetti pubblici o privati, ed è tenuto al rispetto delle norme giuridiche vigenti. Lo Stato è l’ente pubblico per eccellenza.
Lo Stato non è, tuttavia, l’unico ente pubblico. Nell’ordinamento italiano vige, infatti, il principio del pluralismo della Pubblica Amministrazione per cui coesistono, accanto allo Stato, altri soggetti dotati di capacità giuridica privata e di capacità giuridica pubblica.
L’art. 11 del Codice Civile prevede, infatti, che “le province e i comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”
L’art. 114 della Costituzione prevede, inoltre, che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Provincie, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statu, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.
Lo Stato è costituito, quindi, da enti pubblici territoriali così chiamati perché il territorio è l’elemento costitutivo di tali enti. Ogni punto del territorio nazionale appartiene a un solo Comune, a una sola Provincia, a una sola Regione. Per questi enti, il territorio rappresenta sia l’ambito sia l’oggetto dell’attività e ne costituisce elemento della personalità.
Gli enti territoriali sono i portatori, quindi, degli interessi generali della collettività che vive su quel determinato territorio, attraverso l’esercizio del potere autoritativo e l’emanazione di atti autoritativi, sia con riferimento all’attività organizzatoria, sia verso i terzi; l’elemento del territorio rappresenta, quindi, anche l’ambito che delimita la sfera di competenza ed efficacia dei poteri degli enti territoriali.
Alla luce di quanto sopra, appare evidente, che la Costituzione ha optato per l’adozione del principio di decentramento amministrativo (in opposizione al modello dello stato centrale) che si basa su un’organizzazione che prevede la distribuzione delle competenze decisionali tra soggetti diversi.
La distribuzione delle competenze avviene secondo il principio della sussidiarietà; in base a tale principio le funzioni politiche e amministrative dei singoli enti si intendono sussidiarie rispetto alle funzioni attribuite agli enti superiori (ad esempio, le attribuzioni del Comune sono sussidiarie rispetto quella della Regione) .
Occorre osservare, infine, che ai sensi dell’art. 1, comma 2 del D.lgs. 30 marzo 2001, “per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300” (si pensi ad esempio alle Agenzie delle Entrate e le Agenzie delle Dogane).
Tale norma ha allargato notevolmente il concetto di persona giuridica di diritto pubblico. Un ente si può qualificare come pubblico soltanto quando gli sia attribuito dalla legge o da un provvedimento amministrativo, fondato su una previsione di legge, la personalità giuridica pubblica; non è sufficiente, infatti, che la persona giuridica pubblica persegua finalità rientranti tra quelle della Pubblica Amministrazione. La caratteristica delle persone giuridiche pubbliche può, quindi, essere individuata, in via preminente, dall’essere titolari di poteri pubblici, di auto-organizzazione, di certificazione e di autotutela e dall’impossibilità che i suoi compiti vengano esercitati da altri soggetti. Ciò non esclude che le persone giuridiche pubbliche (o quantomeno alcune di esse) possano svolgere anche attività privatistiche.
2. Inquadrata, in via generale, la natura degli enti pubblici, osserviamo che l’ordinamento prevede un particolare sistema per la soluzione dei conflitti tra i poteri dello Stato; tale procedura esula dall’oggetto del presente convegno, ma pare utile farne un breve accenno al fini di un migliore inquadramento della tematica in Italia.
Sul punto, in via preliminare, occorre osservare che l’art. 134 della Costituzione statuisce che la Corte Costituzionale giudica “sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni”.
Il conflitto tra poteri dello Stato insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali.
Perché sorga il conflitto tra poteri dello Stato è necessario, quindi, che esso sorga i) tra organi appartenenti a poteri diversi, ii) fra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere, iii) per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali.
Sono esclusi dalla competenza della Corte i conflitti fra poteri appartenenti a giurisdizioni diverse, in ordine all’appartenenza della potestà di decisione di una determinata questione e i conflitti fra organi appartenenti ad uno stesso potere.
Il conflitto di attribuzione può essere sollevato da un potere dello Stato; il potere è definito come una figura organizzatoria composta da un organo o da più organi fra loro funzionalmente collegati ed alla quale va riferita una sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita.
Tra i poteri dello Stato rientrano, oltre a quelli legislativo, esecutivo e giudiziario, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale.
Il conflitto deve riguardare l’attribuzione da parte di norme costituzionali; spetta alla Corte costituzionale risolvere il conflitto sottoposto al suo esame. La Corte deve dichiarare, quindi, a chi spetta l’attribuzione in contestazione e, qualora trattasi di un’attribuzione causata da atto nullo, deve annullare l’atto.
È necessario, quindi, che a fondamento del conflitto sia posta l’attribuzione da parte di una norma costituzionale .
3. Cosa succede, tuttavia, quando il conflitto sorge tra enti pubblici relativamente alla vantata lesione di un diritto soggettivo e non alla contestazione circa l’attribuzione da parte della Costituzione?
In via preliminare e generale, occorre osservare che le persone giuridiche pubbliche, come d’altronde qualunque altro soggetto privato) sono soggetti al riparto di giurisdizione tipico dell’ordinamento italiano: se si interviene per la tutela di un interesse legittimo si dovrà ricorrere al Giudice amministrativo, mentre se si intende difendere un diritto soggettivo occorrerà rivolgersi al Giudice ordinario (ciò è quanto accade quando le persone giuridiche pubbliche operano nei confronti di terzi secondo il regime privatistico).
Fatta la premessa di cui sopra, occorre capire, allora, quali sono gli strumenti, che l’ordinamento riconosce in capo agli enti pubblici, volti a dirimere controversie relative alla lesione di un proprio diritto soggettivo da parte di un altro ente pubblico.
Innanzitutto, si osserva che l’Amministrazione ha una capacità giuridica in ordine ai poteri di diritto comune meno estesa di quella attribuita alle persone fisiche, non comprendendo, ad esempio, l’idoneità ad essere titolari di situazioni strettamente collegate alla natura propria dell’individuo (diritto di famiglia); a ciò si aggiunga le numerose disposizioni che escludono la possibilità agli enti di compiere talune attività di diritto comune (contratti aleatori – o contrarre discrezionalmente con chi vogliono).
Appare evidente che l’utilizzo degli strumenti di diritto comune da parte degli enti pubblici deve essere giustificato in ragione dell’attinenza al raggiungimento delle finalità curate dall’ente.
Sul punto vige il principio dell’inammissibilità di ricorsi fra organi dello stesso ente, ma non può essere messo in dubbio che un ente pubblico possa impugnare i provvedimenti amministrativi emanati da un altro ente .
Occorre individuare, tuttavia, i limiti e le possibilità riconosciute agli enti.
Con particolare riferimento agli enti territoriali, ai fini della tutela degli interessi dei propri amministrati, deve farsi riferimento non solo all’elaborazione consolidata della giurisprudenza ma anche, come si dirà appresso, alle innovazioni normative sopraggiunte medio tempore e, soprattutto, ai nuovi profili di intervento riconosciuti ad ogni tipologia di figura soggettiva esponenziale di interessi omogenei ai sensi del decreto legislativo 20 dicembre 2009 n. 198 “Attuazione dell’articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici”.
Da un lato, vi è stata la giurisprudenza che ha ricercato un criterio di collegamento tra gli interessi, che appartengono ontologicamente a tutti i componenti di una collettività, e i meccanismi processuali, che richiedono che l’azione sia portata avanti da un ben individuato soggetto dell’ordinamento.
In questo senso, la soluzione adottata è stata quella di ricercare una serie di elementi (personalità del soggetto agente, conformità dell’azione proposta ai suoi fini statutari, collegamento stabile con l’interesse protetto, ecc.) che tendessero a dare struttura all’interesse stesso. Questo indirizzo ha permesso di incanalare entro i consolidati ambiti del processo amministrativo le nuove esigenze di tutela a cui il legislatore non aveva ancora dato una soddisfacente risposta.
Dall’altro lato, l’attribuzione della legittimazione a figure soggettive che si ponevano anche in contrasto con i soggetti pubblici, normalmente incaricati della tutela degli interessi generali della collettività, ha evidenziato come la giurisprudenza amministrativa ritenesse che tali interessi non fossero di esclusiva pertinenza dell’azione pubblica (da qui, ad esempio, è stato riconosciuto la legittimità attiva, a determinate condizioni, delle associazioni private di categoria).
In questa direzione, il richiamo alla fonte costituzionale della protezione di tali interessi ha permesso di affermare, più o meno esplicitamente, che il meccanismo tradizionale di tutela (creazione di un ente pubblico ed attribuzione allo stesso della tutela dell’interesse, inteso come canone di comportamento nella sua attività) non fosse esaustivo delle possibilità rimesse ai cittadini.
Ne deriva che, grazie al riconoscimento diretto derivante dalla Costituzione, si deve ritenere che i diritti dei cittadini in tema di tutela di interessi diffusi possano trovare modi di esercizio paralleli ed ulteriori rispetto al meccanismo tradizionale dall’attribuzione della loro cura ad un soggetto pubblico predeterminato, sia esso già esistente o costituito ad hoc.
Il secondo snodo concettuale attiene alla possibilità di riconoscere, la legittimazione ad agire a qualsiasi ente esponenziale di interessi omogenei o agli enti territoriali, in virtù del loro collegamento con la collettività, ivi stanziata, e facendo perno sull’unico cardine della rappresentatività.
La giurisprudenza amministrativa, nel tentativo di strutturare tale interesse, ha cercato di individuare una serie di elementi tali da dimostrare il collegamento tra interesse azionato e soggetto agente, enucleando una serie di principi ancora fondamentalmente validi ed applicabili che possono valere anche con riferimento alla legittimazione degli enti territoriali in ipotesi in cui gli stessi non risultino attributari, ex lege, di specifiche competenze in materia.
Anche in questo caso, l’affermazione si fonda su una serie di presupposti impliciti.
In primo luogo, va evidenziato come gli enti territoriali siano effettivamente soggetti a cui, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, è stata assegnata la funzione di cura concreta degli interessi della collettività di riferimento. Una tale affermazione appare agevolmente riscontrabile sulla base della lettura del novellato art. 114 della Costituzione (i Comuni, le Province, le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione) e sulla previsione del principio di sussidiarietà, di cui all’art. 118 della Costituzione; tale principio affida all’ente locale più vicino ai cittadini la cura concreta di interessi.
Ne deriva, che, mentre nelle materie la cui tutela è affidata agli enti dalla legge vi è un riconoscimento normativo esplicito sulla loro legittimazione, dove tale riconoscimento manca non si vede ragione per trattare questi enti generali in maniera differente rispetto a qualsiasi associazione privata.
In secondo luogo, se è ben vero che la natura di ente territoriale consente di riconoscere per implicito la natura di soggetto di riferimento della comunità locale, ciò non esclude la permanente necessità di ricercare, in analogia con le associazioni private, gli ulteriori elementi che fondino la legittimazione. Ad un livello di maggior dettaglio, deve necessariamente rilevarsi che la decisione di agire in giudizio è espressione della volontà politica dell’ente stesso che, selezionando tra i tanti interessi ad esso non attribuiti quelli di cui vuole farsi portatore, si fa interprete della presunta volontà del corpo elettorale.
In ogni caso, l’equivalenza tra rappresentatività politica e capacità di esprimere i reali intendimenti della collettività è ancora soggetta ad alcuni dubbi; si pensi, ad esempio, alla difficoltà di ricondurre alla figura privatistica del mandato il rapporto tra elettori ed eletto e all’impossibilità logica che una competizione elettorale possa dare una precisa e coerente rappresentazione degli interessi e delle preferenze degli elettori.
Pertanto, premesso che gli enti territoriali sono, per norma costituzionale, titolari di poteri generali di tutela degli interessi rilevanti per la collettività stanziata, la loro legittimazione, per le materie non direttamente conferitegli dalla legge, va individuata secondo i criteri usuali e quelli che discendono dall’ordinamento.
In questo senso, occorre fare riferimento al citato decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198 “Attuazione dell’articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici”.
Ai sensi dell’art. 1, infatti, “al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente decreto, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi”.
Emerge dal testo come la legittimazione ad agire venga correlata, per un verso, all’esistenza di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, per altro verso, alla riferibilità di tali interessi ad un soggetto titolare, ed infine, all’esistenza di una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi.
Occorre tenere presente, in ogni caso, che, mentre nel privato l’autonomia è l’esito della capacità di autodeterminazione dei fini, nel pubblico la scelta dei fini non è rimessa alla libertà dell’ente in quanto questi sono conseguenti e collegati alle sue attribuzioni, a loro volta determinate dal decisore politico. In sintesi, per i privati l’autonomia è autodeterminazione dei fini; per il pubblico i fini sono eterodeterminati dalla legge o dall’atto costitutivo dell’ente, il che fa anche dubitare che si possa parlare di autonomia privata nelle scelte amministrative (Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2010, n. 8686).
4. Al fine di valutare gli aspetti concreti di precedentemente illustrato, passiamo ora ad esaminare un paio di casi.
Un Comune ha impugnato davanti al Tribunale amministrativo regionale il provvedimento con il quale la Provincia (ente territoriale superiore al Comune) aveva deciso l’aumento della quota a lei spettante della tassa rifiuti. Ebbene, in tale occasione, con la sentenza Tar Lazio, sez. II, 6 agosto 2014, n. 8748, il Giudice amministrativo ha statuito che, ferma la legittimazione attiva delle amministrazioni locali in giudizio, al fine di tutelare gli interessi collettivi della propria comunità, ciò non esclude la permanente necessità di ricercare, in analogia con quanto avviene per le associazioni private, gli ulteriori elementi che fondino la legittimazione, laddove si tratti di materie non direttamente conferite agli enti territoriali dalla legge.
In particolare, il Giudice amministrativo ha rilevato che “la sussidiarietà in senso verticale attiene al riparto delle competenze e delle funzioni pubbliche secondo un criterio di prossimità al cittadino destinatario, nel rispetto delle norme costituzionali e ordinarie; nessuna norma attribuisce ai Comuni la legittimazione ad impugnare tributi, tariffe o altre imposizioni economiche gravanti sui singoli residenti, così come è impraticabile ogni riferimento alla rappresentanza politica; a sua volta, la sussidiarietà in senso orizzontale depone in senso contrario alla soluzione affermata, dal momento che essa è finalizzata a promuovere e sostenere i cosiddetti corpi intermedi, le associazioni spontanee dei cittadini per la realizzazione e tutela dei loro interessi e non certamente per sostituirsi e sovrapporsi ad essi”.
Ne deriva, nel ragionamento del Tar che l’interesse collettivo della comunità comunale non può coincidere con l’interesse individuale dei soggetti di cui è composta la categoria dei cittadini utenti del servizio (nella specie quello della raccolta rifiuti), perché questo è perseguibile direttamente dal soggetto che ne è titolare esclusivo.
L’interesse diffuso o collettivo trascende il singolo cittadino per riferirsi alla comunità nel suo complesso, esso è di tutti e di nessuno singolarmente considerato, come l’interesse alla tutela dell’ambiente o dei beni archeologici, al governo del territorio, il diritto alla salute e simili; esso, sebbene riferibile ad una categoria di soggetti (i componenti la comunità locale), deve trascendere i singoli interessi, non potendo rappresentare la sommatoria di interessi individuali, che sono individualmente tutelabili.
Con riferimento, quindi, al caso concreto, dove la determinazione della tariffa spetta al Comune, in collaborazione con la Provincia, l’atto di determinazione dei costi sopportati dalla Provincia rappresenta un segmento procedimentale che si inserisce in un più ampio e complesso procedimento di formazione della tariffa, la cui delibazione è affidata alla competenza concorrente dei due enti locali ed il cui esito finale è l’elaborazione dell’importo tariffario che grava su ogni singolo utente.
Il Tar conclude, quindi, che le amministrazioni non sono in posizione di contrapposizione, ma concorrono, ognuna per il suo specifico ambito di attribuzione, alla determinazione dell’importo tariffario finale, ciò che conduce a ritenere il difetto di legittimazione a ricorrere in capo all’amministrazione comunale (si veda anche, TAR Campania, sez. I, 25 luglio 2011, n. 3973; Consiglio di Stato, sez. V, 3 maggio 2012, n. 2540).
L’eventuale impugnazione della tariffa spetterebbe, infatti, ai singoli cittadini o alle associazioni di categoria se esistenti.
In un’altra fattispecie, il Giudice amministrativo ha riconosciuto la legittimità attiva di alcuni Comuni che avevano impugnato il provvedimento finale con il quale il Ministero dello sviluppo economico, d’intesa con le Regioni di appartenenza dei Comuni ricorrenti, aveva autorizzato un soggetto privato a eseguire le operazioni di ricerca di idrocarburi gassosi e solidi sui loro territori. In particolare, i Comuni lamentavano l’omesso invito alla partecipazione al procedimento di autorizzazione.
Nel corso del giudizio, il Ministero ha sostenuto l’inammissibilità del ricorso introduttivo proposto dai Comuni interessati sul presupposto del difetto di interesse perché gli stessi non avrebbero indicato una lesione specifica e concreta degli interessi specifici da loro rappresentati.
Con la sentenza 7 giugno 2017, n. 2757, il Consiglio di Stato ha rilevato che la norma in materia nel prevedere “una partecipazione obbligatoria al procedimento delle amministrazioni locali interessate, delinea una ipotesi di legittimazione e di interesse ad agire “ex lege” e attribuisce agli enti locali l’interesse a ricorrere che si afferma mancante, laddove prevede il coinvolgimento delle amministrazioni locali nel procedimento in discussione, senza che necessitino requisiti ulteriori. Legittimazione e interesse discendono cioè, “ex lege”, dalla previsione di partecipazione al procedimento delle amministrazioni locali, e dalla riscontrata violazione di detta previsione”. Il Giudice amministrativo ha anche osservato che, in ogni caso, “la legittimazione si desume in via diretta dalla qualità, dell’amministrazione locale, di ente esponenziale delle collettività di riferimento” e che, nella fattispecie, “in definitiva, non può farsi questione di una carenza di interesse ad agire delle amministrazioni comunali ricorrenti in primo grado, sulla falsariga di quanto prospettato dalle appellanti, a causa della omessa dimostrazione di una lesione concreta e attuale di un interesse specifico in capo ai comuni medesimi”.
5. In conclusione, possiamo affermare che la legittimazione ad agire degli enti pubblici, in particolare, quella degli enti locali, si basa sulla presenza dei seguenti elementi fondamentali: i) la tutela di un interesse collettivo che ii) per sua natura deve essere generale e non attributivo di una legittimazione attiva del singolo cittadino, iii) dal fatto che tale interesse collettivo riguardi la comunità presente sul proprio territorio e, ovviamente, iv) qualora non sia la legge a riconoscere espressamente in capo all’ente la tutela di un determinato interesse legittimo proprio (e non, come detto, del singolo).
Da quanto sopra, esposto, appare altresì evidente che, al di fuori delle specifiche competenze della Corte Costituzionale in tema di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (ipotesi che non riguarda l’oggetto del presente convegno), l’ordinamento italiano non prevede competenze o procedimenti particolari nel caso in cui i ricorrenti siano persone giuridiche di diritto pubblico, rispetto a soggetti privati (singoli o collettivi). Gli enti pubblici possono ricorrere al Giudice amministrativo, per la tutela dei propri interessi legittimi, al pari del privato tenendo presente la verifica della presenza degli elementi che costituiscono al loro legittimazione attiva; tale valutazione spetterà, certamente, caso per caso, al Giudice amministrativo.
Claudio Sironi