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Relazione italiana 3 del dott. G. Demaio – Catanzaro – 26/5/2017

Il principio chi inquina paga fra prevenzione, regolazione e riparazione

Affrontare la tematica del principio chi inquina paga risulta di non facile impostazione alla luce della oggettiva trasversalità dello stesso che spazia dal diritto internazionale a quello europeo per giungere a quello nazionale e in considerazione del suo stretto collegamento con altri principi in materia ambientale (principio di precauzione, principio dello sviluppo sostenibile etc.) che lo rendono parte di un sistema complesso volto a tutelare l’ecosistema.

L’approccio utilizzato nella presente relazione è dunque di inquadramento del principio nell’ambito della più ampia categoria della tutela ambientale che contiene in sé diversi modelli di gestione e diverse fasi; fra tutte quella preventiva, quella regolatoria e quella riparatoria.

L’interpretazione del principio ha costituito oggetto di dibattito, se pur l’orientamento prevalente in dottrina ritiene che esso sia “aperto”, nel senso che può trovare applicazione sia mediante forme di risarcimento del danno ambientale basate sulla responsabilità civile, sia mediante l’irrogazione di sanzioni amministrative, sia attraverso l’istituzione di tributi ambientali.

Infatti va da subito precisato che ai fini di tutela ambientale di certo non basterebbe prevedere solo ed esclusivamente il ristoro di un danno ambientale già avvenuto ma occorre indurre comportamenti “virtuosi” negli operatori che possano “arginare” le conseguenze negative delle loro attività produttive, specie se in re ipsa esso sono pericolose per la salute e l’ambiente.

In tale ottica la dottrina in Italia suole distinguere fra vari modelli di gestione dei problemi ambientali. In particolare individua il modello affidato al diritto privato ed il modello affidato all’intervento pubblicistico.

Circa il primo va da subito precisato che esso attiene alla fase in cui il danno è stato già prodotto. La disciplina sul danno ambientale prevista dalla Parte IV del d.lgs. 152/2006 (codice dell’ambiente), infatti, configura una responsabilità ambientale che, almeno secondo le intenzioni del legislatore, si configura di tipo civilistico fondata sul rimedio risarcitorio e di cui si occuperà in via successiva la Dott.ssa Lo Sapio con riferimento ad alcuni aspetti processuali.

Il principio chi inquina paga, pertanto, in tale accezione, si riferisce alle situazioni in cui un danno è stato cagionato, imponendo che i costi della sua riparazione siano supportati dal responsabile, in una logica di internalizzazione delle esternalità negative. Tuttavia, l’imputazione dei costi che esso comporta produce un forte incentivo per i responsabili dell’inquinamento a investire per migliorare le proprie prestazioni ambientali e per ridurre l’inquinamento. Gli agenti, sapendo di correre il rischio di essere obbligati a risarcire i danni ambientali (esternalità negative) sono indotti ad adottare le misure più opportune finalizzate a ridurre al minimo i rischi di un danno connesso alla propria attività.

Tale rimedio tuttavia mostra i suoi limiti sotto vari profili; fra tutti la circostanza che l’incertezza scientifica influisce sul nesso di causalità rendendo difficile dimostrare che il danno è la conseguenza di una certa azione ed inoltre i danni sono spesso difficilmente quantificabili o monetizzabili in un giudizio risarcitorio.
Nei documenti infatti dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico quanto in quelli comunitari tra gli strumenti di attuazione del principio non compare mai la tecnica riparatoria ma l’attenzione è volta ai meccanismi di natura amministrativa che realizzano una tutela di tipo preventivo.

In tale ottica il principio chi inquina paga concerne il fenomeno del cd. inquinamento continuo, controllabile da parte dell’apparato pubblico nella sua dimensione qualitativa e quantitativa. Non riguarda invece i danni causati da incidenti che esulano da ogni meccanismo di controllo preventivo.
Con riferimento all’inquinamento continuo l’attuazione del principio di realizza tramite strumenti idonei a realizzare una tutela di tipo preventivo.

Appare dunque corretto far riferimento anche ad altri modelli di gestione dei problemi ambientali ed in particolare a quelli affidati all’intervento pubblicistico, rientranti nel cd. command and control.
Tale modello in cui in cui rientrano i poteri autorizzatori, i poteri di pianificazione, i poteri di controllo e quelli sanzionatori, si caratterizza per la fissazione di standard, limiti o divieti generali e per la presenza del soggetto pubblico che può emanare ordinanze per fronteggiare situazione imprevedibili, imporre divieti e ordini e regolamentare l’attività dei privati.

Circa il collegamento fra il principio chi inquina paga e tale modello di tutela ambientale, va sottolineato che il d. lgs. 152/2006 all’art. 3, nell’introdurre i principi dell’azione ambientale fra cui quello de quo, statuisce che tali principi sono regola generali della materia ambientale nell’adozione degli atti normativi, di indirizzo e di coordinamento e nell’emanazione dei provvedimenti di natura contingibile ed urgente.

Sulla scorta di tale richiamo la dottrina dunque sostiene che la disciplina del codice dell’ambiente sia, innanzitutto, una disciplina procedimentale. Ed in tal senso si colloca anche l’opinione di chi (G. ROSSI) sottolinea il ruolo del decisore pubblico nella tutela dell’ambiente affermando che “la protezione dell’ambiente rappresenta il risultato di una pluralità di comportamenti virtuosi da parte dell’insieme di soggetti privati e pubblici e la funzione dell’amministrazione è quella di garantire tale risultato”.

Il tradizionale sistema di regolazione operato attraverso l’azione amministrativa, pertanto, nell’imporre il rispetto delle norme fissate dai pubblici poteri dà attuazione al principio chi inquina paga, costringendo le imprese a sopportare i costi necessari per gli opportuni adeguamenti delle strutture produttive.

Per tutelare l’ambiente, infatti, sono stati predisposti una serie di procedimenti, per lo più autorizzatori, volti a verificare la compatibilità con l’ambiente di certe attività, tentando di bilanciare gli interessi in vista di un‘ottimizzazione della tutela ambientale. Ci si riferisce, in particolare, alle procedure di VAS (valutazione ambientale strategica), di VIA (valutazione di impatto ambientale), AIA (autorizzazione integrata ambientale).

Tuttavia tale sistema non ha incontrato il consenso degli economisti che hanno ritenuto costituisca un sistema poco incentivante e hanno proposto soluzioni alternative tramite la tassazione ambientale e la compravendita dei diritti di inquinamento.

Per fare un esempio, si può considerare il caso della legge Merli (319/76) sugli scarichi, la quale avrebbe dovuto portare alla graduale eliminazione degli scarichi non a norma; tuttavia, a causa dell’eccessiva rigidità, non distingueva tra inquinanti biodegradabili e tossici, nè considerava le condizioni ambientali dei corpi ricettori e ciò portò al suo fallimento.

Si è passati, così, all’uso di strumenti di tipo economico-finanziario, idonei a garantire equilibrio tra «ambiente» e «mercato», migliorando gli standards qualitativi della tutela ambientale, giungendo alla conclusione della necessità di “instrument mix”, e cioè di un approccio multiforme che tenga in debita considerazione l’oggettiva circostanza che i problemi ambientali sono poliedrici.

Circa le tasse ambientali, giova ricordare che l’economista Pigou elaborò una prima proposta di correttivo delle diseconomie esterne in campo ambientale, prevedendo l’introduzione di imposte correttive speciali gravanti sulle attività economiche che causino effetti sociali indesiderati a terzi estranei ad ogni rapporto economico con l’attività da sottoporre a tassazione.

Ad oggi, invece, le imposizioni fiscali previste nell’ordinamento nazionale sono molte, in particolare a livello nazionale troviamo le tasse sulle emissioni di sostanze nocive (tasse sulle emissioni di anidride solforosa (SO2) e di ossido di azoto (NOx) provenienti da grandi impianti di combustione).
Al momento della loro formulazione, questi tributi necessitano di considerazioni che soppesino i vari interessi economici, sociali ed ambientali individuando le modalità e le misure più idonee per permettere appunto uno sviluppo sostenibile. Infatti la tassa che hanno una potenza termica superiore ai 50 MW, trova applicazione e regolamentazione a livello statale.

Va menzionata anche la tassa speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, altrimenti chiamata Ecotassa, istituita con la legge n. 549 del 1995, la cui finalità è espressamente ambientale, posto che la motivazione giustificatrice è data dal fine di ridurre la produzione di rifiuti, incentivarne il recupero di energia o altre materie prime dai rifiuti stessi, finanziare le opere di bonifica dei siti contaminati o le opere di recupero delle aree degradate. In particolare rappresenta un tributo ambientale in senso stretto sulla base della relazione causale e diretta che intercorre tra l’unità fisica impiegata per la commisurazione dell’imposta ed il danno cagionato all’ambiente. Sulla base infatti delle qualità e quantità di rifiuti depositati in discarica, il soggetto passivo del tributo, quale il gestore dell’attività di stoccaggio dei rifiuti, è tenuto al versamento di un ammontare pari al danno effettivo.

Tuttavia, la politica di tutela ambientale non viene attuata solo attraverso l’ausilio di tributi ambientali, bensì è possibile ricorrere ad altri strumenti per la sua realizzazione, spesso molto efficienti. I limiti della tassazione ambientale hanno spinto a impiegare degli incentivi alle imprese, per indurre i produttori a scelte che incidono meno sull’equilibrio ambientale.

Si cerca infatti, di incorporare tutti i costi ambientali prodotti durante la vita del bene, facendo sì che, anche se prodotto secondo criteri ecologici, non subisca dei danni concorrenziali, provocati dai prodotti più inquinanti.
La loro legittimazione risiede nella scelta di singoli e imprese, di porsi su un piano di “competitività non di prezzo”, essi cioè si accollano i maggiori costi derivanti dalla produzione di beni ecologicamente compatibili, dando spazio a mercati in cui i consumatori danno molto rilievo agli aspetti sociali e ambientali.

Gli incentivi possono assumere forme diverse, ad esempio si possono ricordare disposizioni che condizionano il riconoscimento di sgravi contributivi all’osservanza di norme a tutela dell’ambiente, vantaggi procedimentali alle imprese che aderiscono a sistemi di gestione ambientale, sussidi per ammodernare gli impianti di depurazione, contributi finanziari agli enti locali per costruire impianti pubblici di disinquinamento e per incentivare l’innovazione tecnologica a favore di processi produttivi meno inquinanti, senza tralasciare le politiche di promozione relative alle fonti di energie rinnovabili.

Si possono menzionare anche i finanziamenti per stimolare l’acquisto di autoveicoli eco-compatibili, agevolazioni fiscali per incitare ad un maggiore impiego di impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica da fonte solare. Lo scopo è di influenzare i comportamenti dei produttori incitandoli a rivolgersi verso tecniche ed attività a minore pressione fiscale, ma utili per lo sviluppo eco-compatibile e quindi alla tutela dell’ambiente. Gli interventi sono relativi ad es. alla riqualificazione energetica complessiva di edifici esistenti, alla riduzione della perdita di energia, all’ installazione di pannelli solari, all’installazione di caldaie ad elevata efficienza.

Connessa alla scelta di politica ambientale è la creazione di un “ mercato di diritti di inquinamento”, volto a far sì che le imprese negozino quote di inquinamento, se non considerano più conveniente o non riescano a limitare in altro modo le emissioni inquinanti della loro produzione. Le autorità competenti o con norme o con regolamenti stabiliscono il livello massimo di inquinamento tollerato e rilasciano un certo numero di permessi di inquinamento che corrispondono a quote di inquinamento consentito, lasciando poi alle singole imprese la scelta se investire in tecnologie ecologiche, in impianti di depurazione oppure acquistare i permessi .

Il cd. Emission Trading Scheme, cioè il sistema dei permessi negoziabili, assieme alle tasse ambientali, influenza un comportamento ecologicamente corretto, garantendo il rispetto di un limite di inquinamento, che altrimenti, sarebbe stato violato. Ogni impresa, sulla base di un’analisi dei costi e benefici, deve optare o per l’acquisto o la vendita nel mercato di una quota di inquinamento (imprese con maggiore costo di disinquinamento tendono a comprare), oppure rivolgersi a forme alternative di produzione meno inquinanti (imprese con costi minori tendono a vendere).

Esso prevede determinate quote di CO2 che le imprese possono produrre, eventualmente comprando quelle necessarie per coprire le quote in eccesso. Ovviamente a strumenti diversi corrispondono costi e benefici diversi. Mentre i permessi negoziabili richiedono maggiori controlli, pur garantendo maggiore certezza di risultati, i tributi sono più facilmente applicabili e influenzano maggiormente i comportamenti e garantiscono una produzione di gettito, ottenibile dai primi solo attraverso un’asta pubblica delle quote.

Nell’ambito dei permessi rientrano i cd Certificati verdi, disciplinati dall’art 11 del d.lgs.16 marzo 1999 n. 79, che impone a coloro che producono o importano energia elettrica da fonte non rinnovabile di immettere ogni anno nel sistema elettrico nazionale una quota di energia prodotta da fonti rinnovabili. Il Gestore dei servizi elettrici, rilascia infatti ai produttori in possesso di tali impianti IAFR tali certificati verdi, i quali, hanno la peculiarietà di poter essere oggetto di scambio e di negoziazioni bilaterali da parte di produttori che non possono o non ritengono opportuno investire in impianti di energia rinnovabili, ma gravati dall’obbligo di legge.

L’obbligo di legge, pertanto, può essere adempiuto o attraverso la produzione/immissione diretta di elettricità da fonti rinnovabili e/o acquistando diritti rilasciati ad altri produttori di energia rinnovabile (la cui produzione, evidentemente, eccede la loro quota-dovuta). Lo scopo è quello di incrementare il ricorso a fonti di energia rinnovabili, sulla base di un obbligo di legge. I produttori in tal modo ricevono un finanziamento in ragione dell’energia pulita prodotta, che si aggiunge alla vendita dell’energia generata.

Un ulteriore meccanismo di tutela ambientale è il sistema di cauzioni. Tale strumento è stato per lo più utilizzato per la riduzione dei costi. Un esempio è la cauzione sui contenitori di bevande, in particolare di vetro, consiste in un deposito all’atto dell’acquisto ed un rimborso all’atto della restituzione del contenitore. Impiegato per lo più in un ‘ottica preventiva, combina in sé elementi propri della tassazione e del sussidio e ne massimizza i vantaggi, consentendo di raggiungere gli effetti tipici di una tassa, tuttavia garantendone il rimborso perciò più facilmente sopportabile dai consociati.
Permette il recupero a costo ridotto di materiali difficilmente smaltibili, senza danni ambientali, un esempio sono, le batterie esauste, ovvero le ipotesi in cui si voglia ottenere il riciclaggio per evitare un inutile spreco di risorse facilmente riciclabili, quali, ad esempio, il vetro o l’alluminio. L’ iniziativa può essere degli stessi operatori economici privati (per finalità economiche),oppure di quelli pubblici per incentivare il riciclaggio.

Da ultimo occorre aggiungere qualche osservazione circa le fasi finali di attuazione del principio chi inquina paga, e cioè quella della riparazione e del ripristino.

L’azione di riparazione, così come delineata dal codice dell’ambiente, comprende due tipologie di iniziative, quelle volte a “controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto immediato” gli inquinanti o qualsiasi altro fattore di danno da una parte e, dall’altra le vere e proprie misure di riparazione, a seconda della tempestività dell’intervento. L’autorità competente può approvare le misure di riparazione proposte dall’operatore o deciderle essa stessa anche con la sua collaborazione.

La riparazione del danno all’acqua o alle specie e agli habitat naturali protetti consiste nel riportare l’ambiente alle condizioni originarie e ciò è possibile tramite tre misure di riparazione.
In primis vi è la riparazione “primaria”, costituita da misure in grado di riportare le risorse e/o i servizi danneggiati alle condizioni originarie o verso esse.
Segue la riparazione “complementare”, consistente in qualsiasi intervento finalizzato a compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati. Lo scopo è quello di ottenere, se opportuno anche in un sito alternativo, un livello di risorse naturali e/o servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie.
Da ultimo vi è la riparazione “compensativa”, comprendente qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita contemporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo, vale a dire fino al momento in cui le risorse e/o i servizi siano stati ripristinati o almeno ricondotti verso le condizioni originarie.
Le perdite temporanee sono quelle che derivano dal mancato svolgimento delle normali funzioni ecologiche o dalla mancata fornitura di servizi ad altre risorse naturali o al pubblico. La compensazione, dunque, consiste in ulteriori miglioramenti delle risorse naturali nel sito danneggiato o in un sito alternativo, non è una compensazione finanziaria al pubblico.

Le azioni di riparazione primaria da intraprendere sono quelle utili a riportare direttamente le risorse naturali e i servizi alle condizioni originarie in tempi brevi o tramite il ripristino naturale.

In tali casi, l’autorità competente può prescrivere il metodo, ad esempio la valutazione monetaria, per determinare la portata delle necessarie misure di riparazione complementare e compensativa. Se tuttavia la valutazione delle risorse di sostituzione non può essere eseguita in tempi e a costi ragionevoli, l’autorità competente può scegliere misure di riparazione il cui costo sia equivalente al valore monetario stimato delle risorse e/o servizi perduti.

La scelta delle opzioni di riparazione dovrebbe avvenire con l’aiuto delle migliori tecnologie disponibili, valutando una serie di criteri: l’effetto sulla salute e la sicurezza pubblica; il costo di attuazione; la probabilità di successo, la misura in cui ciascuna opzione impedisce danni futuri e collaterali in seguito alla sua attuazione; la misura in cui giova ad ogni componente della riosrsa naturale e/o del servizio; la misura in cui ciascuna opzione tiene conto dei pertinenti aspetti sociali, economici e culturali e di altri fattori specifici della località; il tempo necessario per l’efficace riparazione del danno ambientale; la misura in cui ciascuna opzione realizza la riparazione del sito colpito dal danno; il collegamento geografico al sito danneggiato.

In deroga a quanto appena descritto, l’autorità competente può decidere di non intraprendere ulteriori misure di riparazione qualora, a seguito delle misure già adottate, non esiste più un rischio significativo di effetti nocivi per la salute umana, l’acqua, le specie e gli habitat naturali protetti e i costi delle misure di riparazione primaria siano sproporzionati rispetto ai vantaggi ambientali ricercati.

In applicazione del principio comunitario “chi inquina paga”, il D.lgs 152/2006 stabilisce che i costi necessari per realizzare le misure di prevenzione e ripristino ambientale sono posti a carico dell’operatore responsabile del danno anche esercitando l’azione di rivalsa, qualora le spese siano anticipate per garantire un intervento immediato nel caso in cui il responsabile rimanga inerte o non sia individuato.

In conclusione va ricordato l’opinione di autorevole dottrina (FRACCHIA) secondo cui l’approccio a molti problemi ambientali richiede l’apporto della scienza, la quale non è in grado di dare certezze assolute. Le altre caratteristiche dei problemi ambientali sono la globalità e le asimmetrie informative. Infatti i problemi ambientali hanno un carattere globale ed una profondità temporale e spaziale per cui noi subiamo gli effetti ambientali di comportamenti tenuti da altri in tempo diverso o luogo diverso dal nostro.
Basti pensare al rapporto fra il fenomeno del global warming e le prospettive per le generazioni future. Come conseguenza di ciò diventa difficile individuare i responsabili e inoltre i pregiudizi causati hanno molto spesso carattere diffuso.
In tale contesto compito del diritto, dunque, è anche quello di “attutire” e di “gestire” gli effetti collegati a cause su cui non si può incidere (terremoti etc..) posto che in tale settore rileva, altresì, il tema delle asimmetrie informative che possono colpire chi è danneggiato da un problema ambientale o il decisore pubblico che non hanno le necessarie informazioni per decidere o provare un danno.

Relazione italiana 2 del dott. Lo Sapio – Catanzaro – 26/5/2017

“I principi astratti possono trascendere eccessivamente l’esigenza umana. La situazione concreta è pressoché tutto”

  1. Berlin, on the Pursuit of the Ideal

 

1.L’attuazione del principio polluter pays in Italia, attraverso la responsabilità per danno ambientale: la logica di fondo e la sommatoria di “incertezze”.

Nell’attuazione del principio chi inquina paga, mediante la responsabilità per danno ambientale, si intersecano due settori connotati da ampi margini di “frammentarietà”: quello del “diritto amministrativo ambientale” e quello della responsabilità extracontrattuale, entro cui è tradizionalmente annoverata la responsabilità per danno ambientale.

E’ pertanto un progetto quanto meno ambizioso del legislatore quello di attuare a tale nesso funzionale (principio polluter pays/responsabilità ambientale) uno dei principi fondamentali del diritto ambientale europeo ed internazionale che invece fa leva sulla “calcolabilità” degli scenari e della comparazione tra i costi delle misure dirette a ridurre l’inquinamento e i costi del danno ambientale atteso.

2.Le incertezze del diritto ambientale.

Il diritto dell’ambiente viene diffusamente configurato come un “diritto sonda”, precursore delle prospettive future del diritto amministrativo, anticipatore di linee evolutive. Per questo affascinante, ma anche fonte di disorientamento, essendo difficilmente intellegibile con l’utilizzo di categorie tradizionali[1].

Qualunque sia la nozione, ampia o ristretta, che si accolga dell’ambiente, esso è indiscutibilmente un bene “di tutti e di nessuno”, non avente un prezzo di mercato e non suscettibile di essere oggetto di proprietà privata; un bene per il quale viene invocata la categorie dei giuristi romani delle “res communes omnium”, di pertinenza del “Populus”, inteso quale “collettività indistinta” (Maddalena).

A tali incertezze intellettuali, si aggiungono le incertezze “della natura delle cose”, il tasso di imprevedibilità dei fenomeni naturali, la dinamicità dei sistemi ecologici e la variabile non sempre governabile del fattore tempo, che spesso è notevole tra la condotta lesiva e l’emersione dei suoi effetti.

  1. La frammentazione del sistema di responsabilità civile.

Nel diritto civile italiano, però, anche il settore della responsabilità extracontrattuale, in cui si vorrebbe inquadrare la responsabilità per danno ambientale, presenta analoghi ampi spazi di incertezza.

Pur trattandosi di una partizione del diritto non di recente emersione come il diritto ambientale, la responsabilità civile cd. “aquiliana” appare non più come un sistema ordinato focalizzato sulla norma cardine prevista dall’art. 2043 del codice civile e su figure speciali, derogatorie del criterio di imputazione della responsabilità per colpa, ma come un insieme di “sottosistemi”, alcuni di derivazione europea (responsabilità del medico, dell’avvocato, delle imprese di produzione, della pubblica amministrazione, dei magistrati); ognuno con proprie finalità e criteri di imputazione, in cui non è possibile tracciare la linea di demarcazione tra la regola e l’eccezione: più che un sistema, “un aggregato di isole” (Alpa).

  1. Il principio chi inquina paga: la calcolabilità delle decisioni nella incertezza degli scenari.

L’attuazione del principio chi inquina paga mediante la responsabilità per danno ambientale è pertanto un’area di interferenza tra due “cantieri aperti” (diritto ambientale e illecito civile). Eppure il principio polluter pays si fonda su un assioma che appare in contraddizione con tali incertezze: quello “calcolabilità delle decisioni”.

E’ infatti noto che esso, per come è stato elaborato anche nel diritto internazionale e fin dalla sua prima apparizione nella Raccomandazione dell’OCSE sulla politica ambientale 45 anni fa[2], non ha alcuna finalità sanzionatoria, ma è un criterio di imputazione dei costi.

Ha lo scopo di internalizzare le diseconomie (cd. spill-over effects) che le attività produttive, ma pericolose per l’ambiente, procurano alla collettività sotto il profilo ambientale, addossandone il costo a chi ne è responsabile, il quale è ritenuto anche il soggetto più in grado di “governarle” in senso preventivo.

Esso si rivolge ad “operatori economici” – e nella prospettiva della Direttiva Europea 2004/35/CE cd. “Enviromental Liability Directive” ad operatori economici qualificati – a soggetti cioè abituati a prendere decisioni su investimenti, scelte strategiche aziendali, assetti organizzativi in condizioni almeno di “prevedibilità degli scenari” ed, anzi, presuppone che siano proprio i produttori delle esternalità negative delle attività inquinanti a detenere le più accurate informazioni sull’impatto ambientale delle loro attività e sui relativi costi di prevenzione.

Il principio pertanto – o meglio la sua attuazione mediante istituti giuridici specifici, come quello della responsabilità ambientale – funziona se il rischio di incorrere nella misura risarcitoria per danno ambientale ha un effetto persuasivo nei confronti  degli operatori economici; ovvero li induce ad adottare sistemi di prevenzione, più rispettosi dell’ecosistema e del territorio in cui si svolge l’attività, almeno fino al punto in cui il costo marginale delle misure dirette a ridurre l’inquinamento non è superiore al costo del danno ecologico atteso.

Perché tale meccanismo artificiale sia efficace – in un settore in cui i fenomeni di riferimento fattuale sono, come detto, caratterizzati dalla imprevedibilità e sono oggetto di una continua ricerca tecnologica e scientifica –è quindi fondamentale che le regole giuridiche che disciplinano la responsabilità per danno ambientale garantiscano almeno due condizioni:

  1. la loro certezza e conoscibilità, con particolare riferimento ai criteri legali per determinare le misure risarcitorie e i costi del danno ambientale, compresi i “costi amministrativi” per il suo accertamento;
  2. la disponibilità di dati e delle informazioni in materia di danno ambientale, per verificare come le regole astratte sono applicate in concreto, dalla giurisprudenza.

La domanda cui si tenta di trovare risposta è se tali condizioni minime di “esigibilità” del buon funzionamento della disciplina del danno ambientale siano rispettate dal diritto nazionale, con particolare riguardo a tre aspetti che concernono più da vicino l’esercizio della giurisdizione:

  1. l’individuazione della normativa nazionale di riferimento, considerata la sovrapposizione tra diverse discipline della responsabilità dal danno ambientale, prima e dopo la “ELD”, con particolare riguardo alle regole di determinazione delle misure ripristinatorie e alla quantificazione del loro costo;
  2. la legittimazione ad agire in giudizio per far valere la responsabilità nei confronti dei responsabili;
  3. soprattutto, l’individuazione di quale sia il giudice, civile o amministrativo, davanti al quale viene attivata la tutela risarcitoria.
  4. L’evoluzione della normativa nazionale sulla responsabilità per danno ambientale e le fughe in avanti le legislatore.

Prima che la responsabilità per danno ambientale fosse disciplinata dal legislatore con la legge 349/1986, e molto prima che lo stesso bene giuridico dell’Ambiente trovasse un riconoscimento espresso nella Costituzionale Italiana (avutosi solo con la Legge Costituzionale n.3 del 2001 che ha inserito l’ambiente e l’ecosistema nell’art. 117 Cost tra le materia di competenza legislativa esclusiva statale), l’esigenza di una tutela giuridica dell’interesse ambientale fu colta dalla giurisprudenza, sia della Corte di Cassazione che della Corte dei Conti attraverso una interpretazione estensiva di istituti preesistenti: il diritto alla salute (art. 32 Cost.), la tutela della proprietà dalle immissioni intollerabili (art. 844 c.c.), da un lato; il danno erariale (dall’altro).

Il primo casom che notoriamente si riporta nella ricostruzione storica del danno ambientale, è quello dei cd. Fanghi Rossi di Scarlino degli anni 70, confluito in uno storico conflitto di giurisdizione tra Corte dei Conti e Cassazione civile, poi risolto a favore di quest’ultima[3].

Il caso è emblematico perché in esso si anticipano tutte le questioni che negli anni successivi e ancora oggi si agitano nella responsabilità per danno ambientale, prima tra tutte, la commistione tra pubblico e privato e la conseguente “concorrenza” tra le giurisdizioni.

Qualche mese prima dopo che il principio “chi inquina paga” fosse enunciato nel diritto europeo, con l’Atto Unico Europeo firmato  a Lussemburgo il 28 febbraio 1986, ma prima che entrasse in vigore (1 luglio del 1987), nell’ordinamento italiano fu introdotta la Legge 349/1986 che istituiva il Ministero dell’Ambiente e disciplinava – esperienza unica nel panorama europeo – la responsabilità per danno ambientale.

Si trattava – come osservato dalla dottrina prevalente – di un “ibrido” a metà strada tra l’illecito civile delineato dall’art. 2043 c.c., visto il criterio di imputazione della responsabilità fondato sulla colpa, e una sanzione pubblicistica con finalità puntive, considerato che la legittimazione ad agire per chiedere il risarcimento del danno era riservata sia allo Stato che agli enti pubblici territoriali nel cui ambito si era verificato il danno e che nella quantificazione anche equitativa del danno ambientale il giudice civile doveva tener conto “della gravità della colpa individuale, il costo necessario per il ripristino e il profitto economico conseguito dal trasgressore”.

L’opzione per una forma di responsabilità soggettiva, e il conseguente gravoso onere probatorio addossato all’ente pubblico che agiva in giudizio, fu subito criticata dalla maggior parte della dottrina che guardava all’esperienza, non solo d’oltralpe ma anche americana, in cui invece si consolidava l’idea che il criterio di imputazione oggettiva fondato sul “rischio di impresa” fosse più adeguato alla finalità preventiva e sollecitatoria del principio polluter pays.

In questo vivace dialogo, si inserisce la tormentata attuazione della Direttiva 2004/35/CE.

Il legislatore italiano ha attuato la direttiva europea più che in anticipo, troppo in fretta.

L’attuazione è avvenuta un anno prima della dead line fissata per il 30 aprile 2007, con la parte VI del Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente” che impropriamente è denominato “Codice dell’ambiente”.

Il recepimento della direttiva europea sulla responsabilità per danno ambientale è stato segnato da una procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea nel 2007 (procedura n. 2007/4679) che ha imposto una modifica legislativa a due tappe del testo normativo, nel 2009 e nel 2013.

Le censure mosse dalla Commissione riguardavano, in particolare:

– il criterio di imputazione della responsabilità, ancora incentrato – come nell’art. 18 della L. 349/1986 – sulla colpa (o dolo), con l’effetto di una eccessiva restrizione dell’ambito di applicazione della direttiva;

-l’introduzione di una causa di esenzione della responsabilità, nel caso fossero state avviate le procedure di bonifica;

-la previsione della misura risarcitoria pecuniaria, in alternativa alle misure di riparazione, in violazione del principio della priorità delle misure ripristinatorie (suddivise in misure primarie, complementari e compensative).

Con la modifica legislativa del 2013, l’Italia si è alla fine adeguata alla direttiva europea, sia con riguardo al criterio di imputazione oggettivo, fondato sul rapporto di causalità tra attività pericolosa e danno (escludendosi ogni responsabilità “da posizione”), sia con riferimento alle misure risarcitorie (art. 311 D.Lgs. 152/2006), dando priorità a quelle ripristinatorie. Secondo quanto indicato dalla normativa europea, solo nell’ipotesi in cui le misure di riparazione primaria – volte a riportare la risorsa ambientale alla condizione originaria (cd. baseline) – o complementare – volta a ricostituire l’ambiente danneggiato in un sito diverso da quello originario – e compensative – dirette a porre rimedio alle perdite provvisorie, verificatesi nelle more del recupero completo dell’ecosistema – non sono attuate secondo i tempi e le modalità determinate in via giudiziale (o, in alternativa, in via amministrativa), è possibile una quantificazione monetaria parametrata sui costi per la loro attuazione.

Visto il continuo sovrapporsi di interventi legislativi, una elementare condizione di certezza del quadro normativo dovrebbe pertanto essere costituita dalla individuazione di quale norma si applica nel tempo, anche considerando lo spazio temporale spesso notevole tra la condotta pericolosa e l’emergere del danno prodotto.

Condizione che però non pare sia completamente rispettata.

In effetti, da un lato, l’art. 303 del D.lgs. 152/2006 (co. 1 lett. f) stabilisce che la disciplina sulla responsabilità per danno ambientale non si applica al danno “causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatisi” prima della sua entrata in vigore, nonché ai danni – evidentemente lungolatenti – “in relazione ai quali siano trascorsi più di trent’anni dalla emissione, dall’evento o dall’incidente che l’hanno causato; con la conseguenza che ai fatti pregressi si continuerà ad applicare la disciplina antecedente, prevista dall’art. 18 della L. 349/1986 (ovvero il criterio soggettivo della colpa specifica da esso previsto e il conseguente più gravoso onere probatorio a carico dell’attore/ente pubblico).

Dall’altro, però per il metodo di quantificazione delle misure di riparazione, si applica però alle controversie pendenti, senza alcuna esclusione, la nuova normativa.

L’art. 311 co. 3 del D.Lgs. 152/2006 stabilisce, infatti, che “i criteri e i metodi anche di valutazione monetaria per determinare la portata delle misure di riparazione complementare e compensativa devono essere definiti con un decreto del Ministero dell’Ambiente da approvarsi entro 60 giorni dall’entrata in vigore della norma” e che essi “trovano applicazione anche ai giudizi pendenti” non ancora definiti alla data di entrata in vigore del predetto decreto ministeriale.

Le maggiori perplessità sorgono dalla considerazione che tale decreto – che ha un’efficacia regolamentare – a distanza di oltre dieci anni dall’entrata in vigore del cd. Codice dell’Ambiente non è stato ancora adottato[4].

  1. La legittimazione ad agire esclusiva dello Stato e l’intreccio tra assetti organizzativi e rimedi ripristinatori.

Su un punto, però, la normativa italiana di attuazione della cd. ELD ha apportato quanto meno chiarezza, stabilendo che l’unico soggetto legittimato ad agire in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni all’ambiente è il Ministero dell’Ambiente[5]. Resta impregiudicato, anche nel nuovo testo, il diritto dei singoli di agire in giudizio per i danni “nella loro salute o nei beni di loro proprietà”.

La proliferazione di azioni da parte di più soggetti pubblici – e in particolare da parte degli enti locali, legittimati ad agire in base all’art. 18 della L. 349/1986, mossi evidentemente da un approccio alle problematiche ambientali diverse, è stata valutata, ex ante, come un ulteriore aggravio di “costi amministrativi”, e il monopolio in capo al Ministero della legittimazione ad agire aveva l’obiettivo di ridurla.

La scelta del legislatore del 2006 ha superato il vaglio della Corte Costituzionale che, con la sentenza 126/2016, ha ritenuto la disciplina adeguata a salvaguardare la tutela dell’ambiente.

La decisione è particolarmente interessante perché mette in luce, sia pure esaminando un aspetto processuale quale è la legittimazione ad agire, l’intreccio indissolubile che, nel campo della responsabilità per danno ambientale – come in tutto il diritto ambientale –si registra tra assetti organizzativi, tecniche di tutela e situazioni giuridiche soggettive.

La Corte ha posto l’accento sul cambio di prospettiva remediale imposto dalle norme europee sul danno ambientale: se al centro del sistema vi è il ripristino ambientale e, quindi, una gestione unitaria degli interventi di riparazione – i quali spettano in via primaria a colui che inquina, ma in via sussidiaria allo Stato – tale unitarietà “gestionale” deve tradursi anche in una unitarietà di decisione dell’attivazione della tutela risarcitoria nella sede giudiziaria, che è prima di tutto “volta a garantire alla istituzione su cui incombe la responsabilità per il risanamento, la disponibilità delle risorse necessarie, risorse che hanno appunto questa specifica ed esclusiva destinazione” (Corte Cost. 126/2016)

A oltre dieci anni dall’entrata in vigore del cd. Codice Ambientale, può dirsi che l’obiettivo di ridurre la proliferazione delle azioni giudiziarie per risarcimento del danno che si era posto il legislatore è stato più che centrato.

Nella relazione inviata nel 2013 dal Ministero dell’Ambiente alla Commissione Europea per la verifica dell’attuazione della Direttiva 2004/35/CE è emerso che, negli anni 2007-2012:

– sono stati accertati 17 casi confermati di danni ambientali (rispetto ad oltre 1000 denunce di fattispecie lesive)

– per nessuno di essi è stata segnalata l’attivazione della tutela giudiziaria davanti al giudice civile, con la domanda di risarcimento per danno ambientale.

La sostanziale non applicazione della norma è una conclusione fondata sulla base dei dati disponibili. Invero, come più volte segnalato anche dalla Commissione Europea (anche da ultimo nel Programma di Azione 2017-2020 del febbraio 2017) uno dei maggiori ostacoli all’attuazione concreta del principio chi inquina paga attraverso la “responsabilità per danno ambientale”, e alla misurazione del grado di efficacia delle normative nazionali di derivazioni europea, è la mancanza di banche dati e di informazioni affidabili; condizione, come anticipato, essenziale affinché il meccanismo dissuasivo operi concretamente, essendo il principio “chi inquina paga” rivolto ad operatori economici e, indirettamente, al mercato delle imprese di assicurazione del rischio ambientale .

Sul punto, è stata fortemente raccomandata dalle istituzioni europee – ma non resa vincolante in nessun atto normativo – l’istituzione del Registro dei casi attinenti l’attuazione della Direttiva 2000/35/CE che però l’Italia non ha ancora adottato (né si conoscono, allo stato, proposte normative in merito).

  1. L’alternativa alla strada giudiziaria: la scelta del Ministero di esercitare i poteri amministrativi e l’impatto sulla giurisdizione.

In realtà, la spiegazione della mancata attivazione del rimedio risarcitorio davanti al giudice civile (o davanti al giudice penale, quale parte civile) sta presumibilmente nel fatto che il Ministero dell’Ambiente ha a disposizione uno strumento alternativo all’azione civile, che è quello di esercitare il potere amministrativo ed ordinare a coloro che risultano “responsabili”, secondo il principio chi inquina paga, l’adozione delle misure di riparazione.

Si tratta dell’adozione dell’ordinanza-ingiunzione “immediatamente esecutiva” prevista dall’art. 313 del D.lgs. 152/2006 che viene adottata dopo un’istruttoria in contraddittorio e con la previsione di modalità e termini.

 Viene peraltro spontaneo chiedersi perché mai il Ministero dell’Ambiente dovrebbe assumere l’iniziativa giudiziaria davanti al giudice civile, se può ottenere lo stesso risultato, svolgendo in sede procedimentale i propri poteri autoritativi, utilizzando i poteri di indagine “sul campo” e le valutazioni tecniche di organismi pubblici e governando i tempi e le modalità dell’istruttoria.

In assenza di dati utili a fare previsioni, può immaginarsi che l’azione giudiziaria civile avrà uno spazio residuale, essendo riservata alle ipotesi in cui il Ministero non si attivi con la via amministrativa nei termini perentori che sono previsti dal D.Lgs. 152/2006 (180 giorni decorrenti dalla comunicazione di avvio del procedimento o due anni dalla “notizia del fatto”: art. 313 co. 4 D.Lgs. 152/2006).

L’opzione tra i due strumenti di tutela –esercizio di poteri amministrativi/opzione A o azione civile/opzione B– è di esclusiva spettanza del Ministero dell’ambiente e non pare sindacabile dal giudice amministrativo, trattandosi di una scelta di opportunità, anche di strategie di approccio difensivo rispetto al danno ambientale.

Essa però ha un rilevante impatto sulle aspirazioni di certezza e prevedibilità degli scenari di riferimento degli operatori, con particolare riferimento proprio ai profili processuali.

Va infatti osservato che:

  1. incide sui processi eventualmente in corso: l’adozione dell’ordinanza-ingiunzione interrompe il processi civile di risarcimento del danno ambientale, valendo di fatto come una “rinuncia all’azione”;
  2. determina, soprattutto, il giudice, ordinario o amministrativo, avente giurisdizione sulla (medesima) controversia di danno ambientale.

Ciò in quanto, mentre l’azione di risarcimento del danno ambientale appartiene alla giurisdizione del giudice civile – secondo la tradizionale configurazione della fattispecie risarcitoria come ipotesi “speciale” di illecito civile, già adottata dal legislatore del 1986 – le controversie sulle ordinanze ingiunzioni adottate in alternativa spettano al giudice amministrativo, “in sede di giurisdizione esclusiva” (art. 133 co. 1 lett. s) del Codice del Processo Amministrativo[6]) rientrando tra quelle “speciali materie” in cui si intrecciano posizioni di diritto soggettivo e posizioni di interesse legittimo (o forse, meglio, non è definibile il perimetro tra le due categorie di posizioni soggettive) previste dall’art. 103 Cost.

Si apre, pertanto, in un’area già ampiamente offuscata nei suoi aspetti sostanziali, uno spazio di ulteriore incertezza normativa, una vera e propria “concorrenza delle giurisdizioni” civile e amministrativa (Giampietro), che è fondata sulla scelta politico-amministrativa riservata al Ministero dell’Ambiente circa le modalità della tutela; ciò senza considerare che, se il danno ambientale è attribuibile alla responsabilità di dipendenti pubblici, riemerge la giurisdizione contabile della Corte di Conti per “danno erariale” e il Ministero è tenuto interrompere anche il procedimento amministrativo, trasmettendo gli atti alla Procura Generale presso la Corte di Conti territorialmente competente.

  1. Attuazione del principio chi inquina paga con il risarcimento del danno ambientale e profili processuali: un’occasione persa?

La stretta connessione tra la finalità riparatoria del danno ambientale e i poteri di gestione degli interventi di ripristino devoluti all’amministrazione – che è stata evidenziata dalla Corte Costituzionale con la sentenza 126/2016 – e la alternativa tra azione di risarcimento e esercizio di poteri amministrativi inducono a domandarsi se non vi sia stata un’occasione persa da parte del legislatore italiano: quella di assegnare tutta la materia del risarcimento del danno ambientale alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 103 Cost, consentendo le “esternalità positive” in termini di concentrazione della tutela e prevedibilità delle decisioni che essa comporta.

Pare in effetti che, in questa principale forma di attuazione del principio chi inquina paga, l’ unica cosa chiara è che “il legislatore ha le idee molto confuse e che la disciplina normativa è oscura” (Rossi), cosicché, privo anche dell’ombrello protettivo della certezza della scienza e dovendo disciplinare un fenomeno, quale è quello ambientale, dominato dal dinamismo anche imprevedibile, l’unico rifugio normativo sembra il ricorso – almeno nell’esperienza italiana sui grandi danni ambientali– ai poteri straordinari di emergenza che stravolgono l’ordinario assetto delle competenze e che, da provvisori, tendono a diventare stabili[7].

Resta il rischio che le lacune e le incertezze del quadro regolatorio aprano spazi eccessivamente ampi alla sfera decisionale – e tecnico-discrezionale su molti aspetti specifici, quali quelli dei criteri di determinazione delle misure ripristinatorie complementari e compensative – dell’amministrazione; ma, soprattutto, assegni ai giudici, peraltro appartenenti a plessi diversi, un ruolo suppletivo che vada oltre quello interpretativo richiesto da normative ad alto tasso di tecnicalità come quelle disciplinanti la responsabilità ambientale.

Incontri di comparazione tra diversi ordinamenti, come quello di oggi, consentono di delineare possibili aree di convergenza e focalizzare l’attenzione sulle peculiarità degli ordinamenti domestici e rappresentano, rispetto all’aspirazione alla “certezza delle regole”, un’ancora di salvataggio.

[1] E’ opinione diffusa nella letteratura giuridica che nel diritto ambientale:

– è in fibrillazione il concetto di sovranità statale, perché le problematiche ambientali – al pari di quelle finanziarie – non conoscono i confini territoriali e rivelano in modo evidente il “disallineamento tra la dimensione dei problemi e l’ambito degli assetti istituzionali che dovrebbero risolverli” (Rossi), cosicché vi è la continua ricerca del punto di  equilibrio tra la gestione unitaria delle tematiche e il principio di sussidiarità, con la individuazione dell’ente più vicino all’area territoriale di riferimento;

– è in crisi il principio di legalità, poiché esso, anche nei sistemi di civil law, si nutre soprattutto del formante giurisprudenziale, essendo stati i suoi principi prima elaborati dalla giurisprudenza e poi enunciati dal legislatore; si rende evidente la sovrapposizione tra fonti nazionali, fonti del diritto europeo e fonti sovranazionali, nonché il rapporto tra le leggi generali astratte, destinate ad una veloce obsolescenza per la velocità dell’evoluzione della scienza, e le normative di dettaglio affidate anche ad atti di soft law (si pensi ai “programmi di azione” della Commissione in materia ambientale che hanno segnato la storia del diritto ambientale;

 – sono difficilmente applicabili i concetti tradizionali di “bene giuridico” o di soggetto titolare dell’interesse ambientale; cosicché, per definire la situazione giuridica che è oggetto di lesione nel danno ambientale sono state utilizzate sia il diritto fondamentale all’ambiente che l’interesse legittimo alla sua protezione che, con un indirizzo che trova sempre più favore, il “dovere” di tutela nei confronti delle generazioni future.

[2] OECD Concuil Recommendation (C (72)  128) on Guiding Principles Concerning International Economic Aspects of Enviromental Policies, 26 maggio 1972, Parigi.

[3] Si tratta di un caso giudiziario più meno risalente alla stessa epoca in cui il principio chi inquina paga trovava una consacrazione negli atti di soft law del diritto internazionale: lo stabilimento di Montedison aveva scaricato residui inquinanti nel Mar Tirreno, procurando danni all’ambiente marino. Dei danni ambientali vennero chiamati a rispondere funzionari pubblici: il Comandante della Capitaneria di Porto di Livorno e il Direttore del Laboratorio di Microbiologia del Ministero dell’Agricoltura e Foreste per “omesso controllo”.

La Corte dei Conti rivendicò la propria giurisdizione, qualificando come danno pubblico erariale sia la perdita subita dall’ecosistema che i costi necessari per la riparazione. La controversia si protrasse ben oltre l’entrata in vigore della L. 349/1986 che però aveva attribuito la giurisdizione sulla responsabilità per danno ambientale e fu alla fine risolta dalle Sezioni Unite della Cassazione, quale giudice dei conflitti di giurisdizione, a favore del giudice civile, sul presupposto che il legislatore non avesse introdotto alcuna novità ma solo acclarato la natura civilistica della responsabilità per danno ambientale.

[4] In realtà, dopo un ritardo di dieci anni, uno schema di decreto è stato presentato dal Ministero dell’Ambiente al Consiglio di Stato, per l’esercizio della funzione consultiva sugli atti normativi del governo, ad ottobre 2016. Ma evidentemente le sollecitazioni contenute nel parere dirette al riesame complessivo dell’atto proposto al fine di renderlo “il più possibile comprensibile per tutti” vista la sua immediata efficacia applicativa e di specificare anche i criteri di determinazione delle misure di riparazione non hanno avuto alcun esito concreto, visto che ad oggi il decreto non ha visto la luce.

Qualora dovesse intervenire, deve però considerarsi che dovendosi applicare anche ai processi in corso, seppure relativi a condotte lesive dell’ambiente svoltesi molti anni addietro, le eventuali consulenze tecniche d’ufficio dirette a determinare le misure riparatorie compensative e complementari dovrebbero essere riviste alla luce dei nuovi criteri, con evidente aggravio di costi legali per le parti e ulteriori allungamento della durata dei processi.

[5] L’obiettivo di tale novità è bene espresso nella relazione di accompagnamento al D.lgs. 152/2006 secondo cui “l’unificazione delle iniziative di precauzione, prevenzione, istruttoria, ingiunzione del risarcimento del danno nel centro decisionale ed operativo costituito dal Ministero dell’Ambiente e di tutela del territorio impedisce il fenomeno del proliferare delle iniziative giudiziarie mosse per lo stesso fatto di danno ambientale e nei confronti dello stesso operatore da una pluralità di enti, lo Stato, le Regioni, le Province, i comuni, le comunità montane, i consorzi e dalle associazioni non governative, nonché dai singoli cittadini danneggiati personalmente”.

[6] Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (…) le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni in materia di danno all’ambiente, nonché avverso il silenzio inadempimento del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione da parte del medesimo Ministero delle misure di precauzione di prevenzione o di contenimento del danno ambientale, nonché quelle inerenti le ordinanze ministeriali di ripristino ambientale e di risarcimento del danno ambientale” (art. 133 c 1 lett.s codice del processo amministrativo)

[7] Come è noto, il più rilevante problema ambientale nazionale degli ultimi anni, costituito dall’emergenza rifiuti in Campania nella cd. “Terra dei Fuochi” è stato affrontato facendo ricorso alle fonti atipiche delle ordinanze di necessità e urgenza: lo stato di emergenza è stato dichiarato per la prima volta con d.p.c.m. 11 febbraio 1994 e sotto alcuni profili non si è ancora concluso essendo stato prorogato, sotto aspetti organizzativi, fino al 31 dicembre 2017.