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Relazione italiana 3 del dott. G. Demaio – Catanzaro – 26/5/2017

Il principio chi inquina paga fra prevenzione, regolazione e riparazione

Affrontare la tematica del principio chi inquina paga risulta di non facile impostazione alla luce della oggettiva trasversalità dello stesso che spazia dal diritto internazionale a quello europeo per giungere a quello nazionale e in considerazione del suo stretto collegamento con altri principi in materia ambientale (principio di precauzione, principio dello sviluppo sostenibile etc.) che lo rendono parte di un sistema complesso volto a tutelare l’ecosistema.

L’approccio utilizzato nella presente relazione è dunque di inquadramento del principio nell’ambito della più ampia categoria della tutela ambientale che contiene in sé diversi modelli di gestione e diverse fasi; fra tutte quella preventiva, quella regolatoria e quella riparatoria.

L’interpretazione del principio ha costituito oggetto di dibattito, se pur l’orientamento prevalente in dottrina ritiene che esso sia “aperto”, nel senso che può trovare applicazione sia mediante forme di risarcimento del danno ambientale basate sulla responsabilità civile, sia mediante l’irrogazione di sanzioni amministrative, sia attraverso l’istituzione di tributi ambientali.

Infatti va da subito precisato che ai fini di tutela ambientale di certo non basterebbe prevedere solo ed esclusivamente il ristoro di un danno ambientale già avvenuto ma occorre indurre comportamenti “virtuosi” negli operatori che possano “arginare” le conseguenze negative delle loro attività produttive, specie se in re ipsa esso sono pericolose per la salute e l’ambiente.

In tale ottica la dottrina in Italia suole distinguere fra vari modelli di gestione dei problemi ambientali. In particolare individua il modello affidato al diritto privato ed il modello affidato all’intervento pubblicistico.

Circa il primo va da subito precisato che esso attiene alla fase in cui il danno è stato già prodotto. La disciplina sul danno ambientale prevista dalla Parte IV del d.lgs. 152/2006 (codice dell’ambiente), infatti, configura una responsabilità ambientale che, almeno secondo le intenzioni del legislatore, si configura di tipo civilistico fondata sul rimedio risarcitorio e di cui si occuperà in via successiva la Dott.ssa Lo Sapio con riferimento ad alcuni aspetti processuali.

Il principio chi inquina paga, pertanto, in tale accezione, si riferisce alle situazioni in cui un danno è stato cagionato, imponendo che i costi della sua riparazione siano supportati dal responsabile, in una logica di internalizzazione delle esternalità negative. Tuttavia, l’imputazione dei costi che esso comporta produce un forte incentivo per i responsabili dell’inquinamento a investire per migliorare le proprie prestazioni ambientali e per ridurre l’inquinamento. Gli agenti, sapendo di correre il rischio di essere obbligati a risarcire i danni ambientali (esternalità negative) sono indotti ad adottare le misure più opportune finalizzate a ridurre al minimo i rischi di un danno connesso alla propria attività.

Tale rimedio tuttavia mostra i suoi limiti sotto vari profili; fra tutti la circostanza che l’incertezza scientifica influisce sul nesso di causalità rendendo difficile dimostrare che il danno è la conseguenza di una certa azione ed inoltre i danni sono spesso difficilmente quantificabili o monetizzabili in un giudizio risarcitorio.
Nei documenti infatti dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico quanto in quelli comunitari tra gli strumenti di attuazione del principio non compare mai la tecnica riparatoria ma l’attenzione è volta ai meccanismi di natura amministrativa che realizzano una tutela di tipo preventivo.

In tale ottica il principio chi inquina paga concerne il fenomeno del cd. inquinamento continuo, controllabile da parte dell’apparato pubblico nella sua dimensione qualitativa e quantitativa. Non riguarda invece i danni causati da incidenti che esulano da ogni meccanismo di controllo preventivo.
Con riferimento all’inquinamento continuo l’attuazione del principio di realizza tramite strumenti idonei a realizzare una tutela di tipo preventivo.

Appare dunque corretto far riferimento anche ad altri modelli di gestione dei problemi ambientali ed in particolare a quelli affidati all’intervento pubblicistico, rientranti nel cd. command and control.
Tale modello in cui in cui rientrano i poteri autorizzatori, i poteri di pianificazione, i poteri di controllo e quelli sanzionatori, si caratterizza per la fissazione di standard, limiti o divieti generali e per la presenza del soggetto pubblico che può emanare ordinanze per fronteggiare situazione imprevedibili, imporre divieti e ordini e regolamentare l’attività dei privati.

Circa il collegamento fra il principio chi inquina paga e tale modello di tutela ambientale, va sottolineato che il d. lgs. 152/2006 all’art. 3, nell’introdurre i principi dell’azione ambientale fra cui quello de quo, statuisce che tali principi sono regola generali della materia ambientale nell’adozione degli atti normativi, di indirizzo e di coordinamento e nell’emanazione dei provvedimenti di natura contingibile ed urgente.

Sulla scorta di tale richiamo la dottrina dunque sostiene che la disciplina del codice dell’ambiente sia, innanzitutto, una disciplina procedimentale. Ed in tal senso si colloca anche l’opinione di chi (G. ROSSI) sottolinea il ruolo del decisore pubblico nella tutela dell’ambiente affermando che “la protezione dell’ambiente rappresenta il risultato di una pluralità di comportamenti virtuosi da parte dell’insieme di soggetti privati e pubblici e la funzione dell’amministrazione è quella di garantire tale risultato”.

Il tradizionale sistema di regolazione operato attraverso l’azione amministrativa, pertanto, nell’imporre il rispetto delle norme fissate dai pubblici poteri dà attuazione al principio chi inquina paga, costringendo le imprese a sopportare i costi necessari per gli opportuni adeguamenti delle strutture produttive.

Per tutelare l’ambiente, infatti, sono stati predisposti una serie di procedimenti, per lo più autorizzatori, volti a verificare la compatibilità con l’ambiente di certe attività, tentando di bilanciare gli interessi in vista di un‘ottimizzazione della tutela ambientale. Ci si riferisce, in particolare, alle procedure di VAS (valutazione ambientale strategica), di VIA (valutazione di impatto ambientale), AIA (autorizzazione integrata ambientale).

Tuttavia tale sistema non ha incontrato il consenso degli economisti che hanno ritenuto costituisca un sistema poco incentivante e hanno proposto soluzioni alternative tramite la tassazione ambientale e la compravendita dei diritti di inquinamento.

Per fare un esempio, si può considerare il caso della legge Merli (319/76) sugli scarichi, la quale avrebbe dovuto portare alla graduale eliminazione degli scarichi non a norma; tuttavia, a causa dell’eccessiva rigidità, non distingueva tra inquinanti biodegradabili e tossici, nè considerava le condizioni ambientali dei corpi ricettori e ciò portò al suo fallimento.

Si è passati, così, all’uso di strumenti di tipo economico-finanziario, idonei a garantire equilibrio tra «ambiente» e «mercato», migliorando gli standards qualitativi della tutela ambientale, giungendo alla conclusione della necessità di “instrument mix”, e cioè di un approccio multiforme che tenga in debita considerazione l’oggettiva circostanza che i problemi ambientali sono poliedrici.

Circa le tasse ambientali, giova ricordare che l’economista Pigou elaborò una prima proposta di correttivo delle diseconomie esterne in campo ambientale, prevedendo l’introduzione di imposte correttive speciali gravanti sulle attività economiche che causino effetti sociali indesiderati a terzi estranei ad ogni rapporto economico con l’attività da sottoporre a tassazione.

Ad oggi, invece, le imposizioni fiscali previste nell’ordinamento nazionale sono molte, in particolare a livello nazionale troviamo le tasse sulle emissioni di sostanze nocive (tasse sulle emissioni di anidride solforosa (SO2) e di ossido di azoto (NOx) provenienti da grandi impianti di combustione).
Al momento della loro formulazione, questi tributi necessitano di considerazioni che soppesino i vari interessi economici, sociali ed ambientali individuando le modalità e le misure più idonee per permettere appunto uno sviluppo sostenibile. Infatti la tassa che hanno una potenza termica superiore ai 50 MW, trova applicazione e regolamentazione a livello statale.

Va menzionata anche la tassa speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, altrimenti chiamata Ecotassa, istituita con la legge n. 549 del 1995, la cui finalità è espressamente ambientale, posto che la motivazione giustificatrice è data dal fine di ridurre la produzione di rifiuti, incentivarne il recupero di energia o altre materie prime dai rifiuti stessi, finanziare le opere di bonifica dei siti contaminati o le opere di recupero delle aree degradate. In particolare rappresenta un tributo ambientale in senso stretto sulla base della relazione causale e diretta che intercorre tra l’unità fisica impiegata per la commisurazione dell’imposta ed il danno cagionato all’ambiente. Sulla base infatti delle qualità e quantità di rifiuti depositati in discarica, il soggetto passivo del tributo, quale il gestore dell’attività di stoccaggio dei rifiuti, è tenuto al versamento di un ammontare pari al danno effettivo.

Tuttavia, la politica di tutela ambientale non viene attuata solo attraverso l’ausilio di tributi ambientali, bensì è possibile ricorrere ad altri strumenti per la sua realizzazione, spesso molto efficienti. I limiti della tassazione ambientale hanno spinto a impiegare degli incentivi alle imprese, per indurre i produttori a scelte che incidono meno sull’equilibrio ambientale.

Si cerca infatti, di incorporare tutti i costi ambientali prodotti durante la vita del bene, facendo sì che, anche se prodotto secondo criteri ecologici, non subisca dei danni concorrenziali, provocati dai prodotti più inquinanti.
La loro legittimazione risiede nella scelta di singoli e imprese, di porsi su un piano di “competitività non di prezzo”, essi cioè si accollano i maggiori costi derivanti dalla produzione di beni ecologicamente compatibili, dando spazio a mercati in cui i consumatori danno molto rilievo agli aspetti sociali e ambientali.

Gli incentivi possono assumere forme diverse, ad esempio si possono ricordare disposizioni che condizionano il riconoscimento di sgravi contributivi all’osservanza di norme a tutela dell’ambiente, vantaggi procedimentali alle imprese che aderiscono a sistemi di gestione ambientale, sussidi per ammodernare gli impianti di depurazione, contributi finanziari agli enti locali per costruire impianti pubblici di disinquinamento e per incentivare l’innovazione tecnologica a favore di processi produttivi meno inquinanti, senza tralasciare le politiche di promozione relative alle fonti di energie rinnovabili.

Si possono menzionare anche i finanziamenti per stimolare l’acquisto di autoveicoli eco-compatibili, agevolazioni fiscali per incitare ad un maggiore impiego di impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica da fonte solare. Lo scopo è di influenzare i comportamenti dei produttori incitandoli a rivolgersi verso tecniche ed attività a minore pressione fiscale, ma utili per lo sviluppo eco-compatibile e quindi alla tutela dell’ambiente. Gli interventi sono relativi ad es. alla riqualificazione energetica complessiva di edifici esistenti, alla riduzione della perdita di energia, all’ installazione di pannelli solari, all’installazione di caldaie ad elevata efficienza.

Connessa alla scelta di politica ambientale è la creazione di un “ mercato di diritti di inquinamento”, volto a far sì che le imprese negozino quote di inquinamento, se non considerano più conveniente o non riescano a limitare in altro modo le emissioni inquinanti della loro produzione. Le autorità competenti o con norme o con regolamenti stabiliscono il livello massimo di inquinamento tollerato e rilasciano un certo numero di permessi di inquinamento che corrispondono a quote di inquinamento consentito, lasciando poi alle singole imprese la scelta se investire in tecnologie ecologiche, in impianti di depurazione oppure acquistare i permessi .

Il cd. Emission Trading Scheme, cioè il sistema dei permessi negoziabili, assieme alle tasse ambientali, influenza un comportamento ecologicamente corretto, garantendo il rispetto di un limite di inquinamento, che altrimenti, sarebbe stato violato. Ogni impresa, sulla base di un’analisi dei costi e benefici, deve optare o per l’acquisto o la vendita nel mercato di una quota di inquinamento (imprese con maggiore costo di disinquinamento tendono a comprare), oppure rivolgersi a forme alternative di produzione meno inquinanti (imprese con costi minori tendono a vendere).

Esso prevede determinate quote di CO2 che le imprese possono produrre, eventualmente comprando quelle necessarie per coprire le quote in eccesso. Ovviamente a strumenti diversi corrispondono costi e benefici diversi. Mentre i permessi negoziabili richiedono maggiori controlli, pur garantendo maggiore certezza di risultati, i tributi sono più facilmente applicabili e influenzano maggiormente i comportamenti e garantiscono una produzione di gettito, ottenibile dai primi solo attraverso un’asta pubblica delle quote.

Nell’ambito dei permessi rientrano i cd Certificati verdi, disciplinati dall’art 11 del d.lgs.16 marzo 1999 n. 79, che impone a coloro che producono o importano energia elettrica da fonte non rinnovabile di immettere ogni anno nel sistema elettrico nazionale una quota di energia prodotta da fonti rinnovabili. Il Gestore dei servizi elettrici, rilascia infatti ai produttori in possesso di tali impianti IAFR tali certificati verdi, i quali, hanno la peculiarietà di poter essere oggetto di scambio e di negoziazioni bilaterali da parte di produttori che non possono o non ritengono opportuno investire in impianti di energia rinnovabili, ma gravati dall’obbligo di legge.

L’obbligo di legge, pertanto, può essere adempiuto o attraverso la produzione/immissione diretta di elettricità da fonti rinnovabili e/o acquistando diritti rilasciati ad altri produttori di energia rinnovabile (la cui produzione, evidentemente, eccede la loro quota-dovuta). Lo scopo è quello di incrementare il ricorso a fonti di energia rinnovabili, sulla base di un obbligo di legge. I produttori in tal modo ricevono un finanziamento in ragione dell’energia pulita prodotta, che si aggiunge alla vendita dell’energia generata.

Un ulteriore meccanismo di tutela ambientale è il sistema di cauzioni. Tale strumento è stato per lo più utilizzato per la riduzione dei costi. Un esempio è la cauzione sui contenitori di bevande, in particolare di vetro, consiste in un deposito all’atto dell’acquisto ed un rimborso all’atto della restituzione del contenitore. Impiegato per lo più in un ‘ottica preventiva, combina in sé elementi propri della tassazione e del sussidio e ne massimizza i vantaggi, consentendo di raggiungere gli effetti tipici di una tassa, tuttavia garantendone il rimborso perciò più facilmente sopportabile dai consociati.
Permette il recupero a costo ridotto di materiali difficilmente smaltibili, senza danni ambientali, un esempio sono, le batterie esauste, ovvero le ipotesi in cui si voglia ottenere il riciclaggio per evitare un inutile spreco di risorse facilmente riciclabili, quali, ad esempio, il vetro o l’alluminio. L’ iniziativa può essere degli stessi operatori economici privati (per finalità economiche),oppure di quelli pubblici per incentivare il riciclaggio.

Da ultimo occorre aggiungere qualche osservazione circa le fasi finali di attuazione del principio chi inquina paga, e cioè quella della riparazione e del ripristino.

L’azione di riparazione, così come delineata dal codice dell’ambiente, comprende due tipologie di iniziative, quelle volte a “controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto immediato” gli inquinanti o qualsiasi altro fattore di danno da una parte e, dall’altra le vere e proprie misure di riparazione, a seconda della tempestività dell’intervento. L’autorità competente può approvare le misure di riparazione proposte dall’operatore o deciderle essa stessa anche con la sua collaborazione.

La riparazione del danno all’acqua o alle specie e agli habitat naturali protetti consiste nel riportare l’ambiente alle condizioni originarie e ciò è possibile tramite tre misure di riparazione.
In primis vi è la riparazione “primaria”, costituita da misure in grado di riportare le risorse e/o i servizi danneggiati alle condizioni originarie o verso esse.
Segue la riparazione “complementare”, consistente in qualsiasi intervento finalizzato a compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati. Lo scopo è quello di ottenere, se opportuno anche in un sito alternativo, un livello di risorse naturali e/o servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie.
Da ultimo vi è la riparazione “compensativa”, comprendente qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita contemporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo, vale a dire fino al momento in cui le risorse e/o i servizi siano stati ripristinati o almeno ricondotti verso le condizioni originarie.
Le perdite temporanee sono quelle che derivano dal mancato svolgimento delle normali funzioni ecologiche o dalla mancata fornitura di servizi ad altre risorse naturali o al pubblico. La compensazione, dunque, consiste in ulteriori miglioramenti delle risorse naturali nel sito danneggiato o in un sito alternativo, non è una compensazione finanziaria al pubblico.

Le azioni di riparazione primaria da intraprendere sono quelle utili a riportare direttamente le risorse naturali e i servizi alle condizioni originarie in tempi brevi o tramite il ripristino naturale.

In tali casi, l’autorità competente può prescrivere il metodo, ad esempio la valutazione monetaria, per determinare la portata delle necessarie misure di riparazione complementare e compensativa. Se tuttavia la valutazione delle risorse di sostituzione non può essere eseguita in tempi e a costi ragionevoli, l’autorità competente può scegliere misure di riparazione il cui costo sia equivalente al valore monetario stimato delle risorse e/o servizi perduti.

La scelta delle opzioni di riparazione dovrebbe avvenire con l’aiuto delle migliori tecnologie disponibili, valutando una serie di criteri: l’effetto sulla salute e la sicurezza pubblica; il costo di attuazione; la probabilità di successo, la misura in cui ciascuna opzione impedisce danni futuri e collaterali in seguito alla sua attuazione; la misura in cui giova ad ogni componente della riosrsa naturale e/o del servizio; la misura in cui ciascuna opzione tiene conto dei pertinenti aspetti sociali, economici e culturali e di altri fattori specifici della località; il tempo necessario per l’efficace riparazione del danno ambientale; la misura in cui ciascuna opzione realizza la riparazione del sito colpito dal danno; il collegamento geografico al sito danneggiato.

In deroga a quanto appena descritto, l’autorità competente può decidere di non intraprendere ulteriori misure di riparazione qualora, a seguito delle misure già adottate, non esiste più un rischio significativo di effetti nocivi per la salute umana, l’acqua, le specie e gli habitat naturali protetti e i costi delle misure di riparazione primaria siano sproporzionati rispetto ai vantaggi ambientali ricercati.

In applicazione del principio comunitario “chi inquina paga”, il D.lgs 152/2006 stabilisce che i costi necessari per realizzare le misure di prevenzione e ripristino ambientale sono posti a carico dell’operatore responsabile del danno anche esercitando l’azione di rivalsa, qualora le spese siano anticipate per garantire un intervento immediato nel caso in cui il responsabile rimanga inerte o non sia individuato.

In conclusione va ricordato l’opinione di autorevole dottrina (FRACCHIA) secondo cui l’approccio a molti problemi ambientali richiede l’apporto della scienza, la quale non è in grado di dare certezze assolute. Le altre caratteristiche dei problemi ambientali sono la globalità e le asimmetrie informative. Infatti i problemi ambientali hanno un carattere globale ed una profondità temporale e spaziale per cui noi subiamo gli effetti ambientali di comportamenti tenuti da altri in tempo diverso o luogo diverso dal nostro.
Basti pensare al rapporto fra il fenomeno del global warming e le prospettive per le generazioni future. Come conseguenza di ciò diventa difficile individuare i responsabili e inoltre i pregiudizi causati hanno molto spesso carattere diffuso.
In tale contesto compito del diritto, dunque, è anche quello di “attutire” e di “gestire” gli effetti collegati a cause su cui non si può incidere (terremoti etc..) posto che in tale settore rileva, altresì, il tema delle asimmetrie informative che possono colpire chi è danneggiato da un problema ambientale o il decisore pubblico che non hanno le necessarie informazioni per decidere o provare un danno.