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Relazione italiana del dott. Antonio Plaisant – Cagliari – 8/6/2018

1. Nozioni preliminari

Nell’ordinamento italiano la tutela del territorio è affidata a molteplici strumenti normativi e amministrativi.

Esistono, in primo luogo, previsioni normative volte a garantire che l’edificazione di qualunque suolo, pubblico o privato, si svolga in modo compatibile con standard minimi di vivibilità e salubrità: si tratta delle norme edilizie, che fanno capo al d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, oltre che, per alcuni aspetti relativi ai rapporti di vicinato, al codice civile.

Ugualmente di tenore generale sono le previsioni normative finalizzate a garantire che l’utilizzo dei suoli avvenga nell’ambito di una strategia complessiva degli interventi: si tratta delle previsioni urbanistiche, contenute negli atti di pianificazione del corretto utilizzo del territorio, adottati a diversi livelli di governo, ma principalmente a livello comunale; in questi atti pianificatori l’amministrazione predetermina il tipo di utilizzo (c.d. “destinazione urbanistica”) consentito per ogni singola porzione del territorio, assicurando così il complessivo equilibrio tra zone a destinazione residenziale, industriale, commerciale, etc., nonché la presenza di adeguate infrastrutture e opere pubbliche.

Vi sono, poi, regole finalizzate a garantire adeguata protezione a specifiche parti del territorio considerate rilevanti dal punto di vista paesaggistico e ambientale, secondo la disciplina generale di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42: in questi casi le autorità amministrative preposte possono imporre appositi vincoli paesaggistici, cioè provvedimenti amministrativi che vietano la modificazione dell’area interessata (vincoli assoluti) ovvero la subordinano a previa valutazione, da parte dell’amministrazione, circa la compatibilità con il paesaggio protetto (vincoli relativi).

Chiunque intenda realizzare un’opera che comporti una stabile modificazione del territorio, ad esempio un edificio destinato a civile abitazione o ad attività commerciale, deve chiedere la relativa autorizzazione (c.d. permesso di costruire) o in alternativa (per interventi di minore impatto) comunicare l’inizio dei lavori affinché l’amministrazione possa verificare la compatibilità dell’intervento con la normativa vigente (c.d. segnalazione certificata di inizio attività).

Se l’opera è prevista su un’area sottoposta a vincolo paesaggistico (relativo), la sua realizzazione presuppone, come detto, il rilascio di una specifica autorizzazione amministrativa, denominata nulla osta paesaggistico.

Si definisce “abuso” qualunque intervento umano che modifichi il territorio in assenza o in difformità dalle autorizzazioni amministrative necessarie; a seconda del tipo di norma violata (e del relativo interesse tutelato) l’abuso sarà “edilizio” ovvero “paesaggistico”.

Ovviamente è possibile che un medesimo manufatto violi entrambe le tipologie di norme (e correlativi interessi protetti), comportando allo stesso tempo un abuso edilizio e paesaggistico.

2. L’apparato sanzionatorio

L’utilizzo del territorio è affidato alla vigilanza di enti pubblici, che se accertano un abuso applicano sanzioni a carico del suo autore.

Tali sanzioni sono di diversa natura e intensità, a seconda della tipologia e gravità dell’abuso, in generale si possono distinguere sanzioni amministrative e penali.

Le sanzioni amministrative sono di natura pecuniaria (in sostanza, delle multe) ovvero ripristinatoria (ordini rivolti all’autore dell’abuso per costringerlo a demolire il manufatto).

In alcuni casi la legge prevede che -se l’autore dell’abuso non esegue la demolizione- l’opera e il terreno sottostante sono acquisiti al patrimonio pubblico.

Il soggetto cui vengono inflitte le sanzioni può impugnare il relativo provvedimento sanzionatorio innanzi al giudice amministrativo.

Sono previste determinate sanzioni per gli abusi edilizi e altre sanzioni per gli abusi paesaggistici, ma le due tipologie (e correlative sanzioni) si cumulano se il manufatto integra entrambi i tipi di illecito.

Le sanzioni penali sono previste per quei particolari abusi, sia edilizi che paesaggistici, previsti dalla legge come reati.

L’applicazione delle sanzioni penali è riservata al giudice ordinario.

3. Gli strumenti di sanatoria degli abusi

Il legislatore prevede alcuni strumenti che consentono all’autore dell’abuso di ottenere una “sanatoria”, cioè un provvedimento amministrativo in grado di “riportare ex post” il manufatto nell’ambito della legalità.

Così come esistono diversi tipi di abuso (edilizio e paesaggistico), e correlative sanzioni, allo stesso modo esistono due differenti procedimenti per la sanatoria (edilizia e paesaggistica), sottoposti a differente disciplina normativa.

La sanatoria degli abusi edilizi è, in via generale, affidata a un meccanismo denominato “doppia conformità” o anche “accertamento di conformità”, disciplinato dall’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001.

Esso è applicabile soltanto a opere che, seppur realizzate in assenza di un titolo edilizio, sono sostanzialmente compatibili con la vigente disciplina edilizia e urbanistica; in particolare, il comune può adottare il provvedimento di sanatoria se il manufatto è compatibile tanto con la normativa edilizia e urbanistica esistente al momento di realizzazione dell’abuso quanto con quella (eventualmente) sopravvenuta al momento della richiesta di sanatoria.

Quest’ultima è subordinata al pagamento di una somma di denaro, di importo maggiore rispetto agli oneri di urbanizzazione previsti ai fini del “nomale” permesso di costruire, per attribuire alla fattispecie una portata (anche) sanzionatoria.

La sanatoria degli abusi paesaggistici è regolata dall’art. 181 del d.lgs. n. 42/2004, che la subordina alla positiva valutazione dell’amministrazione circa la compatibilità paesaggistica del manufatto realizzato senza autorizzazione preventiva (c.d. nulla osta paesaggistico in sanatoria).

A differenza di quanto si è visto per gli abusi edilizi, solo alcune tipologie di abusi paesaggistici, considerate a priori meno gravi, sono suscettibili di sanatoria, in particolare sono sanabili:

  • gli abusi che non abbiano determinato creazione di nuove superfici utili o di nuovi volumi;
  • gli abusi consistenti nell’impiego di materiali difformi rispetto a quelli previsti nell’autorizzazione paesaggistica;
  • gli abusi consistenti in lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria.

Tutti gli altri abusi paesaggistici, prima di tutto quelli che hanno comportato la realizzazione di nuovi volumi e/o di nuove superfici utili, non possono fruire della sanatoria postuma.

Questo regime, più severo rispetto a quello della sanatoria degli abusi edilizi, si spiega in relazione al fatto che –per proteggere più efficacemente un bene considerato di alto rango, come il paesaggio– il legislatore ha ritenuto opportuno disincentivare gli abusi gravi vietandone a priori la sanatoria; in altre parole, chi intende realizzare un manufatto in area paesaggisticamente vincolata deve sapere che se l’intervento comporta nuovi volumi o superfici utili l’unico sistema per “metterlo a norma” è quello di chiedere il nulla osta preventivo, mentre se l’opera viene realizzata in assenza di tale autorizzazione iniziale risulterà, poi, non sanabile, per cui in caso di accertamento dovrà essere demolita, salva la possibilità di chiedere successivamente il nullaosta per ricostruirla nuovamente.

Se un’opera si pone in contrasto, allo stesso tempo, con la normativa edilizia e con quella paesaggistica, per sanarla è necessario che sussistano i presupposti di entrambe le tipologie di sanatoria, che dovranno essere attivate entrambe e i relativi procedimenti si svolgeranno parallelamente.

Ai sistemi ordinari di sanatoria degli abusi si aggiungono meccanismi straordinari, previsti da leggi speciali, che vengono denominati condoni.

In questi casi la legge consente la sanatoria di abusi anche gravi e oltre i limiti generali sopra descritti.

Questo tipo di scelta normativa -da sempre criticata perché da molti ritenuta “diseducativa” per il cittadino- trova fondamento in due obiettivi di politica legislativa:

  • “fare cassa”, essendo il condono subordinato al pagamento di elevate sanzioni pecuniarie;
  • riportare nell’ambito della legalità contesti edilizi degradati perché interessati da gravi e ripetuti abusi edilizi non adeguatamente sanzionati.

Nel tempo sono state varate molteplici leggi di condono, caratterizzate da presupposti non sempre coincidenti, ma come regola generale sono stati esclusi dalla sanatoria solo alcuni abusi più gravi, come le lottizzazioni abusive (vedi infra) e le opere realizzate in zone soggette a vincolo paesaggistico assoluto (vedi supra).

Il notevole numero di richieste di condono, soprattutto nelle aree meridionali del Paese, ha comportato l’accumularsi di gravissimi ritardi nella definizione delle relative pratiche, tanto che molti comuni hanno dovuto costituire appositi “uffici-condono” e si trovano tuttora a esaminare richieste risalenti a svariati decenni addietro; nel frattempo l’opera abusiva resta, ovviamente, in piedi.

Un’ultima notazione è che il rilascio del provvedimento di sanatoria (sia per gli abusi edilizi che per quelli paesaggistici) comporta, oltre alla regolarizzazione del manufatto sotto il profilo amministrativo, l’estinzione dei connessi reati, laddove previsti.

4. Le principali criticità che emergono nella repressione degli abusi edilizi e paesaggistici

 4.1. Premessa

La prassi ha evidenziato rilevanti difficoltà nell’espletamento dell’attività di vigilanza e repressione degli abusi edilizi e paesaggistici, legate a ostacoli di ordine sia pratico che giuridico.

4.2. Le criticità pratiche

Una prima criticità è legata al fatto che -soprattutto in alcune zone d’Italia- il sistema di pianificazione urbanistica è entrato effettivamente in vigore con ritardo e in modo inefficiente e/o incompleto, il che ha comportato lo sviluppo di edificazioni disordinate e difficili da “ricondurre a sistema”, incentivando ampliamenti e nuove costruzioni abusivi.

Un secondo profilo è rappresentato dal frequente utilizzo dello strumento del condono (vedi supra), che ha spesso incentivato nuovi abusi realizzati proprio confidando sulla futura adozione di una nuova legge di condono.

Un terzo elemento è costituito dalla carenza di personale che cronicamente affligge gli enti deputati alla vigilanza edilizia, prima di tutto i comuni.

Un quarto ostacolo è insito nel fatto che gli organi amministrativi deputati allo svolgimento dell’attività repressiva si trovano spesso “a stretto contatto” con la popolazione -soprattutto nei centri urbani di piccole e medie dimensioni- il che comporta una certa “riluttanza” a operare interventi repressivi incidenti sulla sfera soggettiva di soggetti con i quali esistano legami di parentela, amicizia o anche solo di conoscenza, ma comunque utili sotto il profilo elettorale.

Per arginare questo fenomeno patologico, alcuni recenti interventi normativi -a partire dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, c.d. “legge anticorruzione”- hanno inserito l’attività di repressione degli abusi edilizi e paesaggistici tra quelle “a maggior rischio corruzione”, sottoponendola a misure preventive specifiche, tra cui la rotazione periodica del personale preposto.

4.3. Le criticità giuridiche

Il sistema italiano di repressione degli abusi edilizi e paesaggistici si caratterizza per una notevole complessità e, sotto certi profili, distonia rispetto a canoni generali dell’azione amministrativa, specialmente quella di carattere sanzionatorio, il che ha comportato l’insorgere di questioni giuridiche complesse.

Un primo profilo da sottolineare è la (già segnalata) sovrapposizione di competenze attribuite a organi diversi, sia amministrativi che giurisdizionali.

Ciò vale, in primo luogo, per i meccanismi di sanatoria, che necessariamente vengono in rilievo in via preventiva rispetto all’applicazione della sanzione, giacché prima di ordinare la demolizione occorre verificare se sussistano i presupposti per sanare l’abuso.

Si pensi all’esame delle richieste di sanatoria paesaggistica, che coinvolgono:

  • il comune, chiamato a redigere una relazione preliminare sull’istanza di sanatoria;
  • la regione o la soprintendenza (organo statale), che esprimono un parere vincolante;
  • il comune nuovamente, che deve concludere la procedura con il rilascio del nulla osta postumo o con il suo formale diniego.

Tutto ciò comporta un evidente aggravio dei tempi di definizione delle richieste di sanatoria, in pendenza delle quali resta sospeso anche il connesso procedimento sanzionatorio.

Già si è evidenziato, inoltre, che certi abusi edilizi e paesaggistici costituiscono, allo stesso tempo, reato e illecito amministrativo, con la conseguente competenza della pubblica amministrazione ad applicare la sanzione amministrativa (poi impugnabile di fronte al giudice amministrativo) e del giudice penale ad applicare la sanzione penale.

In tali ipotesi possono emergere persino conflitti (cc.dd. indiretti) tra pronunce giurisdizionali, come nel caso in cui il giudice amministrativo annulla il diniego del titolo edilizio in sanatoria, ritenendolo illegittimo, e il giudice penale condanna, invece, l’autore del manufatto per il relativo reato o quanto meno procede al sequestro penale del cantiere, ritenendo che la sua realizzazione costituisca, appunto, reato.

Di tutto ciò fanno inevitabilmente le spese:

  • le amministrazioni, spesso in difficoltà nella gestione di un sistema così articolato;
  • gli stessi cittadini interessati alla sanatoria e/o colpiti da provvedimenti sanzionatori, i quali devono confrontarsi con procedimenti complessi, gestiti da autorità diverse, e magari difendersi contemporaneamente in più sedi giurisdizionali: quella penale, quella amministrativa e, in alcuni casi, persino quella civile, laddove la controversia edilizia si colleghi a rapporti di vicinato.

Un secondo fattore di criticità giuridica emerge laddove trascorra un notevole lasso di tempo tra il momento della realizzazione del manufatto abusivo e quello della sua scoperta da parte dell’attività amministrativa, chiamata ad applicare le sanzioni, magari, a distanza di decenni.

Tale eventualità ha sollevato due problemi, entrambi delicati.

Il primo problema riguarda la disciplina applicabile.

Infatti, poiché in materia sanzionatoria dovrebbe operare il principio penalistico di irretroattività normativa, è inevitabile porsi la seguente domanda: può essere applicata una sanzione prima non prevista, perché introdotta da una legge successiva alla realizzazione dell’abuso?

La risposta della giurisprudenza, dopo varie oscillazioni, è ora di tenore prevalentemente positivo, ritenendosi applicabili (anche) sanzioni introdotte da leggi successive alla realizzazione del manufatto; si è, infatti, ritenuto che gli illeciti edilizi e paesaggistici -impattando in modo duraturo sul territorio- siano di “natura permanente” e perciò siano da considerare “sempre in corso” sino alla demolizione dell’opera abusiva.

Per la stessa ragione la prevalente giurisprudenza penale esclude che il termine di prescrizione del reato edilizio o paesaggistico cominci a decorrere sino a quando l’opera resta in piedi.

Il secondo problema giuridico riguarda la tutela dell’affidamento del proprietario del manufatto abusivo, nel caso in cui -dopo la sua realizzazione- l’amministrazione ometta per lungo tempo (magari per svariati decenni) di adottare un ordine di demolizione.

Su tale questione la giurisprudenza amministrativa ha cambiato più volte opinione, tanto che:

  • tradizionalmente riteneva che il trascorrere del tempo non fosse di alcuno ostacolo all’adozione dell’ordine di demolizione del manufatto abusivo;
  • successivamente ha ritenuto che l’infruttuoso decorso di un lungo periodo di tempo ingenerasse nel proprietario del manufatto -specie se persona diversa dall’autore dell’abuso- un affidamento meritevole di tutela, per cui l’amministrazione avrebbe potuto adottare successivamente l’ordine di demolizione solo motivando specificamente sulla gravità dell’abuso e sulla sua portata concretamente lesiva del territorio e del paesaggio;
  • negli ultimi tempi si è sostanzialmente tornati all’impostazione tradizionale, avendo il Consiglio di Stato, in Adunanza Plenaria, affermato che il trascorrere di un tempo anche molto lungo dalla realizzazione dell’abuso non comporta alcun affidamento meritevole di tutela in capo al proprietario del manufatto e, quindi, non incide sul potere repressivo dell’amministrazione, la quale può fondare l’ordinanza di demolizione sul solo carattere abusivo dell’opera, senza esprimere alcuna ulteriore valutazione e motivazione[1].

5. Una fattispecie particolare: la lottizzazione abusiva

Esiste una fattispecie di abuso edilizio considerata particolarmente grave e come tale soggetta a regole particolari: si tratta della c.d. lottizzazione abusiva, che costituisce (anche) reato di una certa gravità.

Attualmente la fattispecie è disciplinata all’art. 30 del d.p.r. n. 380/2001[2], che individua due distinte ipotesi di lottizzazione abusiva:

  • la c.d. “lottizzazione abusiva cartolare”, che si ha quando un terreno urbanisticamente destinato a uso agricolo (uso che, per sua natura, presuppone estensioni ampie) viene formalmente frazionato (mediante modifica catastale) e ceduto a terzi in porzioni separate, il che ne evidenzia il potenziale utilizzo edificatorio, ovviamente vietato in zona agricola;
  • la c.d. “lottizzazione abusiva materiale”, che si ha quando un terreno urbanisticamente destinato a uso agricolo -pur senza il formale frazionamento sopra descritto- viene materialmente diviso in più lotti e dotato di infrastrutture (ad esempio, le strade di accesso ai singoli lotti) che ugualmente ne evidenziano il potenziale utilizzo edificatorio, come detto incompatibile con la zona agricola.

La lottizzazione abusiva è un illecito di carattere preventivo, giacché le relative condotte -in quanto sintomatiche di un intento edificatorio riferito a un’ampia porzione di territorio in cui ciò non è consentito- sono considerate abusive (e costituenti reato) a prescindere dalla successiva realizzazione dei relativi manufatti; questo perché il legislatore considera particolarmente pericolosa un’operazione abusiva mossa da obiettivi speculativi e che, comunque, coinvolge un’ampia porzione di territorio.

L’apparato sanzionatorio predisposto dal legislatore in materia di lottizzazione abusiva è particolarmente severo, essendo sempre prevista la confisca (cioè l’acquisizione delle aree interessate al patrimonio pubblico), che può essere disposta sia dall’autorità amministrativa sia dal giudice penale che procede per il reato di lottizzazione abusiva.

Non è previsto alcun meccanismo di sanatoria, né in relazione alle aree interessate né, tanto meno, in relazione agli eventuali manufatti realizzati in violazione della destinazione agricola.

Questa disciplina era stata poi interpretata dalla giurisprudenza nazionale in termini particolarmente rigorosi, considerando applicabile la misura della confisca a prescindere dal fatto che risultasse provata la c.d. “buona fede soggettiva” dei singoli proprietari, cioè a prescindere dal fatto che gli stessi fossero a conoscenza (dolo) o comunque potessero rendersi conto in base alle circostanze del caso concreto (colpa) del programmato intervento edificatorio. Nella prassi tale impostazione ha reso possibile la confisca del fondo compreso nella lottizzazione abusiva (anche) a carico, ad esempio, di un acquirente del tutto ignaro del complessivo intento del lottizzante abusivo.

Sull’argomento sono però successivamente intervenute la Corte Europea dei diritti dell’Uomo[3] e la Corte costituzionale[4], precisando che la confisca riveste la natura di “sanzione intrinsecamente penale”, la quale, anche se applicata da un’autorità amministrativa (invece che dal giudice penale), può essere disposta solo a condizione che risulti la “coscienza e volontà” del proprietario/acquirente del fondo circa l’esistenza della lottizzazione abusiva.

Secondo entrambe le Corti, infatti, l’opposta soluzione adottata dalla giurisprudenza italiana -propensa, come detto, ad applicare la sanzione della confisca in termini rigorosamente oggettivi- si poneva in contrasto l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e con l’art. 1 del protocollo 1 allegato alla stessa Convenzione, “trattandosi di sanzione penale la cui applicabilità al caso di specie non era chiaramente prevista dalla legge, e sproporzionata rispetto allo scopo di tutela ambientale perseguito” (così, testualmente, la C.e.d.u.)

A queste puntualizzazioni si è poi attenuto il Consiglio di Stato, concludendo negli stessi termini in alcune successive pronunce[5].

In particolare il giudice amministrativo italiano ha precisato che:

  • la buona fede dell’acquirente non può essere esclusa a priori, essendo piuttosto oggetto di una verifica da effettuarsi in base alle circostanze del caso specifico, fermo restando che il relativo onere della prova (sulla mala fede dell’acquirente del terreno) grava sull’amministrazione;
  • tale prova non può, dunque, fondarsi soltanto su una (inesistente) presunzione di conoscenza del regime urbanistico ed edilizio risultante dagli atti di pianificazione urbanistica;
  • deve, allora, considerarsi in buona fede, salvo specifica prova contraria, il cittadino non esperto della materia che abbia acquistato il bene senza ricevere alcuna obiezione del notaio rogante; difatti il cittadino comune non dispone, per regola, delle conoscenze necessarie per operare autonomamente tali verifiche, sicché il suo obbligo di diligenza deve ritenersi assolto nel momento in cui si è affidato a un professionista qualificato, cui ha rappresentato lealmente i fatti di cui è a conoscenza;
  • la buona fede soggettiva dell’acquirente deve essere, invece, esclusa laddove risulti che egli poteva rendersi conto della situazione in qualunque modo -ad esempio per avere esercitato il diritto di accesso agli atti della pratica edilizia- e questo sulla base del principio generale di cui all’art. 1147 cod. civ., secondo cui “La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave”.

Inoltre il Consiglio di Stato ha precisato che le “garanzie soggettive” sopra descritte riguardano la sola confisca del bene, per la quale si richiede appunto la colpevolezza del proprietario del fondo, mentre non condizionano gli ulteriori effetti previsti dalla legge in materia di lottizzazione abusiva -quali i divieti di proseguire le opere e di cedere il fondo a terzi- perché tali divieti non tendono a sanzionare bensì a impedire ulteriori conseguenze dell’abuso e perciò trovano adeguato fondamento nella (sola) oggettiva esistenza dello stesso.

[1]  Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 17 ottobre 2017, n. 9.

[2] Che così testualmente recita, per quanto interessa ai fini della presente trattazione: “1. Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio. 2. Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica sia in forma privata, aventi ad oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali relativi a terreni sono nulli e non possono essere stipulati né trascritti nei pubblici registri immobiliari ove agli atti stessi non sia allegato il certificato di destinazione urbanistica contenente le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’area interessata. …7. Nel caso in cui il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale accerti l’effettuazione di lottizzazione di terreni a scopo edificatorio senza la prescritta autorizzazione, con ordinanza da notificare ai proprietari delle aree ed agli altri soggetti indicati nel comma 1 dell’articolo 29, ne dispone la sospensione. Il provvedimento comporta l’immediata interruzione delle opere in corso ed il divieto di disporre dei suoli e delle opere stesse con atti tra vivi, e deve essere trascritto a tal fine nei registri immobiliari. 8. Trascorsi novanta giorni, ove non intervenga la revoca del provvedimento di cui al comma 7, le aree lottizzate sono acquisite di diritto al patrimonio disponibile del comune il cui dirigente o responsabile del competente ufficio deve provvedere alla demolizione delle opere. In caso di inerzia si applicano le disposizioni concernenti i poteri sostitutivi di cui all’articolo 31, comma 8… 10. Le disposizioni di cui sopra si applicano agli atti stipulati ed ai frazionamenti presentati ai competenti uffici del catasto dopo il 17 marzo 1985, e non si applicano comunque alle divisioni ereditarie, alle donazioni fra coniugi e fra parenti in linea retta ed ai testamenti, nonché agli atti costitutivi, modificativi od estintivi di diritti reali di garanzia e di servitù.

[3] Si fa riferimento alla pronuncia della Corte europea diritti dell’Uomo, Sez. II, 20 gennaio 2009, in ricorso n. 75909/01, Sud Fondi c. Italia.

[4]  Si fa riferimento alla sentenza della Corte costituzionale 26 marzo 2015, n. 49.

[5] Si fa riferimento a Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 luglio 2017, n. 3750 e 20 settembre 2017, n. 4399

Relazione tedesca Dr. Andreas Middeke – Cagliari 8/6/2018

Das Einschreiten gegen illegale bauliche Anlagen und Möglichkeiten ihrer Legalisierung unter bes. Berücksichtigung von Schutzgebieten (*)
VRVG Dr. Andreas Middeke, Verwaltungsgericht Münster
Gentile Signore e Signori, Medames et messieurs, meine verehrten Damen und Herren, liebe Kolleginnen und Kollegen, cher collègues, cari colleghi,

A. Die Thematik ist sehr komplex und betrifft verschiedene Rechtsgebiete und Zuständigkeiten, die in der Bundesrepublik Deutschland unterschiedlich geregelt sind. Neben dem Baurecht, dem Naturschutz- und dem Wasserrecht, für die der Bund die Gesetzgebungskompetenz hat, kommt die Zuständigkeit der einzelnen Bundesländer hinzu, die in diesen Rechtsgebieten ebenfalls besteht. Letztlich sind es aber die Kommunen (Städte, Gemeinden und Regionen), die beim Einschreiten gegen illegale Bauten, sog. Schwarzbauten, gefordert sind und über das Verwaltungsvollstreckungsrecht ihre Verfügungen durchsetzen müssen. In dieser – ich nenne es einmal Dreieckskonstellation – bewegt sich das Einschreiten und die Durchsetzung gegen illegale Bauten im Außenbereich.

B. Die Kommune ist gefordert, illegale Bauten in landschaftlich reizvoller Lage zu beseitigen. Hierzu sehen die Bauordnungen der einzelnen Bundesländer Vorschriften vor. Es gibt zwar eine sog. Musterbauordnung (MBO), die eine gewisse Gleichheit innerhalb der Länder herstellen möchte, doch sind die Regelungen in der MBO nur Empfehlungen, keine zwingende Verpflichtungen, so dass sich die meisten landesrechtlichen Bauordnungen doch unterscheiden können. Ich werde mich im Folgenden auf die Generalklausel in NRW – beschränken, die im Wesentlichen gleichlautend mit § 58 Abs. 2 MBO ist.

„Die Bauaufsichtsbehörden haben bei der Errichtung, der Änderung, dem Abbruch, der Nutzung, der Nutzungsänderung sowie der Instandhaltung baulicher Anlagen sowie anderer Anlagen und Einrichtungen i.S. d. § 1 Abs. 1 S. 2 darüber zu wachen, dass die öffentlich-rechtlichen Vorschriften und die auf Grund dieser Vorschriften erlassenen Anordnungen eingehalten werden. Sie haben in Wahrnehmung dieser Aufgaben nach pflichtgemäßem Ermessen die erforderlichen Maßnahmen zu treffen.“

Im Rahmen ihres pflichtgemäßen Ermessens können die Bauaufsichtsbehörden bei illegalen Bauten entscheiden, ob sie

a) die Nutzung der baulichen Anlage untersagen,

b) die Arbeiten an dem Bauvorhaben stilllegen oder aber

c) die (ganze) bauliche Anlage beseitigen wollen.

Für eine Nutzungsuntersagung oder Stilllegungsverfügung reicht es aus, wenn die bauliche Anlage „formell illegal“ ist, d.h. wenn das betreffende Bauvorhaben nicht durch eine rechtswirksame Baugenehmigung gedeckt ist oder in der Vergangenheit nicht irgendwann rechtmäßig errichtet war und auch aus der Sicht der Behörde nicht – nachträglich – genehmigt werden kann.

Eine bauliche Anlage zu beseitigen, kann mitunter schwieriger sein. „Die Beseitigung einer baulichen Anlage kann zunächst dadurch erfolgen, dass diese schlicht fortbewegt (beiseite geschafft) wird, ohne dass in ihre Substanz eingegriffen wird. Das trifft etwa zu bei einem Materialcontainer, … einer Werbeanlage“ oder einem Hausboot . Von dieser Form der Beseitigung zu unterscheiden ist der vollständige oder teilweise Abbruch einer Anlage, der naturgemäß mit einer Zerstörung der Bausubstanz verbunden ist. „Diese Form … einer „Beseitigung“ wird besser umschrieben mit „Abbruchverfügung“ oder „Abrissgebot“.“

„In der deutschen Rechtsprechung und Literatur ist seit langem anerkannt, dass für das Gebot der Beseitigung einer baulichen Anlage, wenn hierfür keine wesentliche Substanzzerstörung erfolgen muss, keine höheren rechtlichen Anforderungen erfüllt zu sein brauchen, als bei der eben genannten Nutzungsuntersagung.“ Soll demgegenüber ein vorhandener „Bau“ beseitigt, d.h. abgerissen, also dem Erdboden gleichgemacht werden, wird durch den Substanzverlust massiv in das geschützte Eigentumsgrundrecht eingegriffen. Angesichts dessen wird wegen der möglichen Substanzvernichtung bei einer von der Bauaufsicht verfügten Beseitigung eines „formell illegalen“ Bauvorhabens zusätzlich deren „materielle Illegalität“ verlangt. Dies bedeutet, dass das Bauvorhaben auch mit den materiell-rechtlichen öffentlich-rechtlichen Vorschriften nicht in Einklang steht. Hierzu zählen zunächst alle Vorschriften, die die Bauaufsichtsbehörden auch im Genehmigungsverfahren zu prüfen haben. Aber auch, wenn das Bauvorhaben genehmigungsfrei sein sollte, entbindet es den Bauherrn der baulichen Anlage nicht von der Verpflichtung, die öffentlich-rechtlichen Vorschriften, namentlich die des Bauplanungsrechts, des Landschaftsschutzrechts und des Naturschutzrechts einzuhalten. Zu den Voraussetzungen im Einzelnen:

I. Formelle Illegalität

Grundsätzlich bedarf in der Bundesrepublik Deutschland jeder, der die Errichtung, die Änderung, die Nutzungsänderung und den Abbruch baulicher Anlagen sowie anderer Anlagen und Einrichtungen, an die die BauO Anforderungen stellt, verfolgt, einer Baugenehmigung, es sei denn, das Gesetz sieht ausnahmsweise etwas anderes vor. Formell baurechtswidrig ist ein (genehmigungspflichtiges) Vorhaben dann, wenn es ohne die erforderliche Baugenehmigung errichtet wird oder errichtet worden ist, weil es dann gegen „öffentlich-rechtliche Vorschriften“ verstößt. Mit der Beseitigung/ dem Abbruch eines Gebäudes, einer baulichen Anlage (alles, was nicht dem dauerhaften Wohnen von Menschen bestimmt ist, wie z.B. Aufschüttung, Wall) allein wegen einer fehlenden erforderlichen Baugenehmigung tut sich die verwaltungsgerichtliche Rechtsprechung in Deutschland wegen des unmittelbaren und schweren Eingriffs in das Eigentumsgrundrecht schwer. Würde allein das bestätigende Papier der erforderlichen Genehmigung fehlen, könnte ein solches auch später noch beschafft werden. Der Abriss einer baulichen Anlage, die u. U. etliche Tausend Euro gekostet hat, hätte dann irreparable Folgen, die – unterstellt, es fehlt nur die Genehmigung – unverhältnismäßig wären. Eine Ausnahme wird nur dann gemacht, wenn eine Beseitigung der betreffenden baulichen Anlage o h n e Substanzverlust, d.h. ohne grundlegende Zerstörung der Baumaterialien möglich wäre, wie z. B. bei einem Wohnwagen, einem Container, einer Werbeanlage oder Fertiggarage oder auch Hausboot, ohne Motor . Solche Fälle dürften im Außenbereich aber eher die Ausnahme sein. Grundsätzlich ist der Abbruch einer baulichen Anlage bei allein formeller Illegalität n u r dann möglich, wenn die finanziellen Auswirkungen für den Eigentümer durch die Beseitigung gering sind und eine effektive Durchsetzung des Baurechts anders nicht möglich wäre.

II. Materielle Illegalität

Bei einem Abbruchgebot, welches unweigerlich die Zerstörung der Bausubstanz zur Folge hätte, ist deshalb nach der höchstrichterlichen Rechtsprechung des BVerwG zu fordern, dass das Bauobjekt nicht nur gegen das Genehmigungserfordernis verstößt – also formell illegal ist -, sondern – zusätzlich – seit seiner Errichtung auch fortdauernd gegen materiell-rechtliche Vorschriften verstößt – und damit auch materiell illegal ist. Eine Baugenehmigung dürfte also, auch wenn sie – nachträglich – beantragt würde, nicht erteilt werden können, weil das Bauvorhaben auch inhaltlich gegen Anforderungen des materiellen öffentlichen Rechts wie dem Bauplanungs-, dem Naturschutz- oder Landschaftsschutzrecht oder dem Wasserrecht verstößt. Die Bauaufsichtsbehörden haben im Rahmen ihrer Beseitigungsverfügung damit quasi fiktiv zu prüfen, ob für das abzureißende Bauvorhaben grundsätzlich auch nachträglich noch eine Baugenehmigung erteilt werden könnte.

1. Verstoß gegen § 35 BauGB?

In materieller Hinsicht muss ein Bauvorhaben den planungsrechtlichen Vorschriften des BauGB entsprechen. Da wir unser Augenmerk besonders auf die geschützten Bereiche von Natur und Landschaft legen wollen, möchte ich im Folgenden nur auf den sog. Außenbereich eingehen, da dort im Wesentlichen die geschützten Bereiche von Bedeutung sind. Im Außenbereich, also in einem nicht durch Bauleitplanung beschlossenen oder nicht durch eine zusammenhängende Bebauung geprägten Bereich sind nach § 35 Abs. 1 BauGB entweder privilegierte Bauvorhaben zulässig oder solche, die wegen ihrer Zweckbestimmung nur im Außenbereich ausgeführt werden können. Dies sind nach der Vorstellung des bundesdeutschen Gesetzgebers zum einen land- oder forstwirtschaftliche Betriebe, Gartenbaubetriebe oder Vorhaben, die der öffentlichen Versorgung mit Energie dienen. Zum anderen wegen ihrer Emissionen aber auch Windenergieanlagen, Kernenergieanlagen, Biogasanlagen oder Tiermastbetriebe. Allgemeine Wohnhäuser sind im Außenbereich regelmäßig nicht gestattet. Hintergrund ist, dass der Außenbereich von einer Versiegelung der Fläche verschont bleiben soll. Die nicht vermehrbaren unbebauten Flächen sollen der Natur und Landschaft sowie dem Erholungswert der Menschen vorbehalten bleiben, die der Gesetzgeber u. a. als gewichtige öffentliche Belange festgelegt hat, die einem Vorhaben nicht entgegenstehen dürfen. Weitere wichtige öffentliche Belange, die nicht beeinträchtigt werden dürfen, können sein: Widerspruch zu den Darstellungen eines Flächennutzungsplans oder eines Landschaftsplans, Hervorrufen schädlicher Umwelteinwirkungen, Gefährdung der Wasserwirtschaft oder des Hochwasserschutzes. Nur dann, wenn die Beeinträchtigung solcher öffentlicher Belange ausscheidet, können im Einzelfall auch sonstige, d.h. nicht privilegierte Vorhaben zugelassen werden, wenn zudem die Erschließung gesichert ist.

2. Verstoß gegen BNatSchG?

Ein solcher wichtiger öffentlicher Belang ist die Vereinbarkeit mit dem Naturschutzrecht. Aus § 35 Abs. 3 Nr. 5 BauGB ergibt sich, dass ein nicht privilegiertes Bauvorhaben die Belange des Naturschutzes und der Landschaftspflege nicht beeinträchtigen darf. Die Bauaufsichtsbehörden haben – in enger Zusammenarbeit mit den Naturschutz- und Landschaftsbehörden – zu prüfen, ob naturschutzrechtliche oder landschaftsschutzrechtliche Belange nicht nur betroffen, sondern beinträchtigt werden. Sie sind also gut beraten, die Fachbehörden einzubeziehen und ihre Stellungnahme zu erbitten. Eine solche Beeinträchtigung durch einen illegalen Bau ist immer dann anzunehmen, wenn das illegale Gebäude in einem durch Naturschutz- und Landschaftsschutzbestimmungen geschützten Gebiet liegt (z. B. FFH- oder Vogelschutzgebiet). Aber auch ohne förmliche Ausweisung eines bestimmten Landstrichs als besonders schützenswertes Naturschutzgebiet können diese Belange beeinträchtigt sein. So zielen die Belange des Natur- und Landschaftsschutzes darauf ab, die Leistungsfähigkeit des Naturhaushalts, die Nutzfähigkeit der Naturgüter, die Tier- und Pflanzenwelt sowie die Vielfalt, Eigenart und Schönheit von Natur und Landschaft als Lebensgrundlagen des Menschen nachhaltig zu sichern. Die Prüfung, ob ein Verstoß gegen artenschutzrechtliche Verbote vorliegt, setzt eine ausreichende Ermittlung und Bestandsaufnahme der im Einwirkungsbereich der Anlage vorhandenen Tierarten und ihrer Lebensräume voraus. Die Untersuchungstiefe hängt maßgeblich von den naturräumlichen Gegebenheiten im Einzelfall ab. Folgende Beispiele hat die deutsche Rechtsprechung entschieden: Verstoß eines Wochenendhauses, welches in einem 50 m breiten Uferstreifen errichtet wurde, der aber freizuhalten war. Beseitigung eines Blockbohlenhauses auf einer Wiese als wesensfremde Bebauung. Ein Mehrzweckraum für einen Naturfreundeverein, der im Außenbereich ein Wildgehege als Pächter betreibt.

3. Verstoß gegen WHG?

Entsprechendes gilt bei der Gefährdung der Wasserwirtschaft durch den errichteten Bau. Eine solche Gefährdung kann durch die Abwasserbeseitigung, die Beseitigung von Abfall und Müll oder durch die Lagerung von Öl oder anderen Stoffen, die das Grundwasser verseuchen oder einen Wasserlauf verunreinigen können, hervorgerufen werden. Das VG Münster hatte im letzten Monat über eine Baugenehmigung für einen Schweinemastbetrieb zu entscheiden, wo unklar war, wieviel Nitrat und Phosphat von der Gülle (Tierausscheidungen) in ein benachbartes stehendes Gewässer (See) eintrat. Hier muss die Behörde noch nachermitteln. Aber auch die Lagerung landwirtschaftlicher Gerätschaften im Wasserschutzgebiet ist kritisch zu sehen, wenn diese mit grundwassergefährdeten Stoffen befüllt sind. Mit dem Gesetz zur Verbesserung des Hochwasserschutzes vom 3. Mai 2005 (BGBl. I S. 1224) hat der Gesetzgeber den Hochwasserschutz als öffentlichen Belang ausdrücklich hervorgehoben (BT-Drs. 15/3168, 9). Zu den Zielen dieses Gesetzes gehört auch, die Siedlungsentwicklung dem Hochwasserschutz anzupassen und die durch Hochwasser drohenden Schäden zu mindern (BT-Drs. 15/3168, 8). Im Hinblick auf den einschlägigen Maßstab der verständigen Plausibilität ist eine Beeinträchtigung jedenfalls anzunehmen, wenn das Vorhabengrundstück in einem Überschwemmungsgebiet (im Sinne des § 78 Abs. 1 Satz 1 WHG liegt), und viel dafür spricht, dass es bereits bei einem schweren Hochwasser überschwemmt wurde und die zuständige Behörde keinen Dispens vom allgemeinen Bauverbot erteilt hat (enger wohl OVG NRW, Urt. v. 30. Oktober 2009 – 10 A 1074/08 – juris).

4. Die zu beseitigende illegale bauliche Anlage darf nicht während ihrer Errichtung oder später einmal dem materiellen Recht entsprochen haben, weil sie dann ggf. Bestandsschutz genießt; sie verstieß dann zu irgendeinem Zeitpunkt nicht mehr gegen öffentliche Vorschriften (z. B. bei aktiver Duldung durch die Behörde oder einer nachträglichen Legalisierung). Für ein Eingreifen des Bestandsschutzes reicht es nicht aus, dass die Anlage unbemerkt von der Bauaufsichtsbehörde bereits seit längerer Zeit an dieser Stelle steht. Dies wird aber häufig von den Betroffenen als Argument angeführt, dass die bauliche Anlage jetzt – nach Jahr und Tag – nicht mehr abgerissen werden dürfe. Eine schutzwürdige Position erlangt der Eigentümer einer illegalen Immobilie nicht dadurch, dass es ihm gelungen ist, die Anlage über Jahre vor der Behörde zu verbergen oder diese von der Illegalität des Baus keine Kenntnis erlangt hat. Bestandsschutz für eine bauliche Anlage liegt nur dann vor, wenn sie zu irgendeinem Zeitpunkt wirksam genehmigt wurde oder jedenfalls nach den (damaligen) gesetzlichen Vorschriften materiell-rechtlich genehmigungsfähig gewesen ist. Für die zweite Alternative kommt es darauf an zu prüfen, ob ein fiktiver Bauantrag, wäre er vorher gestellt worden, erfolgreich gewesen wäre, und zwar im Zeitpunkt der Errichtung der Anlage oder zu irgendeinem späteren Zeitpunkt für einen nicht unbeachtlichen Zeitrahmen. Wird Bestandsschutz geltend gemacht, trägt die Beweislast für den rechtlich einwandfreien Zustand der Anlage zu irgendeinem Zeitpunkt, der Bauordnungspflichtige/ der Bauherr. Denn er beruft sich auf ein Gegenrecht, für dessen Behauptung er beweisbelastet ist. Dies ist aber bei Verlust oder Untergang der entsprechenden Bauakten häufig schwierig bis unmöglich. Bei Bauten, die vor dem 2. Weltkrieg errichtet wurden und bis in die jüngste Zeit unbeanstandet genutzt worden sind, hat das Berufungsgericht (Kassationsgericht) in unserem Bundesland eine Erleichterung eingeführt. Danach hat die Bauaufsichtsbehörde im Rahmen ihrer Ermessensbetätigung die Angemessenheit einer “Stichtagsregelung” zu erwägen. Ob der nordrhein-westfälische Landesgesetzgeber diese Rechtsprechung aufnimmt und in einer derzeit im Umbruch befindlichen Bauordnung unterbringt, bleibt abzuwarten. Zur Vermeidung von Missverständnissen hat der Senat des OVG NRW aber darauf hingewiesen, dass eine solche “Stichtagsregelung” im vorgenannten Sinne nicht automatisch das Nicht-Einschreiten gegen vor dem gewählten Stichtag errichtete “Schwarzbauten” zur Folge hat; auch eine solche “Ermessensrichtschnur” ist Ausnahmen zugänglich, die allerdings – gemessen am Gleichheitssatz – hinreichend sachlich begründet sein müssen, etwa im Hinblick auf eine qualifizierte Beeinträchtigung öffentlicher Belange.

III. Ermessen

Liegen die Voraussetzungen der formellen und materiellen Illegalität vor, liegt die Entscheidung der Beseitigung des Gebäudes oder der baulichen Anlage im Ermessen der Bauaufsichtsbehörde („kann“). Allerdings geht die deutsche Rechtsprechung hier von einem sog. intendierten Ermessen aus. D.h. die Bauaufsichtsbehörde soll bei Vorliegen der tatbestandlichen Voraussetzungen im Regelfall mittels eines Verwaltungsaktes die Beseitigung der illegalen bauliche Anlage verfügen und darf lediglich ausnahmsweise bei Vorliegen begründeter Einzeltatsachen von einem Abbruchgebot absehen, was dann aber besonders zu begründen ist. Gegenstand der Bauordnungsverfügung kann nur die bauliche Anlage als Ganzes sein, da sie im Ganzen dem materiellen Recht widerspricht. Die Ermessensentscheidung, eine Beseitigungs- oder Rückbauverfügung zu erlassen, kann die Bauaufsichtsbehörde im Regelfall ordnungsgemäß damit begründen, dass die zu beseitigende Anlage formell und materiell illegal ist und dass ein öffentliches Interesse daran besteht, keinen Präzedenzfall- oder Berufungsfall für andere (Dritte) zu schaffen. Eine weitergehende Abwägung des “Für und Wider” einer Beseitigungsanordnung ist nur dann geboten, wenn konkrete Anhaltspunkte ausnahmsweise für die Angemessenheit einer vorübergehenden oder dauerhaften Duldung sprechen. Im Rahmen dieses behördlichen Ermessens muss sich die Bauaufsichtsbehörde mit einer Vielzahl von Einwendungen der Ordnungs-pflichtigen beschäftigen. Häufig wird ein Verstoß gegen den Verhältnismäßigkeitsgrundsatz geltend gemacht. Allerdings muss die Behörde bei einer Beseitigungsverfügung immer prüfen, ob der Verstoß so schwer wiegt, dass er die Maßnahme des vollständigen Abbruchs rechtfertigt. Je schwerer der Eingriff in das Grundrecht des Eigentums wiegt, umso schwerer und unabweisbarer müssen die entgegenstehenden öffentlichen Belange sein. Hierzu gehören – wie zuvor benannt – der Naturschutz und die Wasserwirtschaft. Häufig wird eingewandt, der Abriss sei angesichts der aufgewandten Bausummen unverhältnismäßig; die Behörde habe aufgrund des langen Zeitablaufs kein Recht mehr zum Einschreiten. Diese Rechtsauffassung der Betroffenen wird im Regelfall aber kaum überzeugen, da sich der Betroffene über geltendes Recht hinweg und selbst ins Unrecht gesetzt hat. Ansonsten würde auch die Ordnungsfunktion des Bauaufsichtsrechts entwertet. Der gesetzestreue Bürger, der sein Bauvorhaben nur auf der Grundlage einer vollziehbaren Baugenehmigung verwirklicht, würde gegenüber dem rechtswidrig handelnden „Schwarzbauer“ ungerechtfertigt benachteiligt. Auch eine Verwirkung zum Einschreiten durch die Baubehörde kann kaum angenommen werden, da es sich bei der Beseitigungsverfügung der Bauaufsichtsbehörde nicht um ein „Recht“, sondern um eine legislative „Pflicht“ zur Überwachung der Einhaltung der Vorschriften handelt. Allerdings ist dem Ordnungspflichtigen auf Antrag zu gestatten, ein anderes ebenso wirksames Mittel anzuwenden, sofern die Allgemeinheit dadurch nicht stärker beeinträchtigt wird. Das kann ein lediglich teilweiser Rückbau sein. Voraussetzung ist aber immer, dass der dann verbleibende Bauteil für sich genommen genehmigungsfähig und nicht rechtswidrig ist. In dem Fall kann die Behörde von der Durchsetzung ihrer Verfügung Abstand nehmen.

IV. Zwangsvollstreckungsvoraussetzungen

Nach dem VerwVG des Bundes und der Länder kann ein Verwaltungsakt wie die Beseitigungsverfügung mit Zwangsmitteln durchgesetzt werden, wenn er unanfechtbar ist oder wenn ein Rechtsmittel keine aufschiebende Wirkung hat. Ein Zwangsmittel ist das Zwangsgeld, welches wiederholbar und auch mit höheren Beträgen bis zu jeweils 100.000,- Euro angedroht werden kann. Bei der Bemessung des Zwangsgeldes ist das wirtschaftliche Interesse des Betroffenen an der Nichtbefolgung der Beseitigungsmaßnahme zu berücksichtigen. Im Falle der Uneinbringlichkeit des Zwangsgeldes, z.B. bei Insolvenz, kann das Verwaltungsgericht auf Antrag der Vollstreckungsbehörde ersatzweise eine Inhaftierung anordnen, wenn der Betroffene zuvor darauf hingewiesen wurde. Die Ersatzzwangshaft beträgt mindestens einen Tag und höchstens zwei Wochen. Als weiteres Zwangsmittel kommt die Ersatzvornahme in Betracht. D.h., der Abriss muss nicht durch den Betroffenen selbst durchgeführt werden, sondern die Behörde droht an, die Beseitigung durch eine Fachfirma (Abbruchunternehmen) auf Kosten des Beseitigungspflichtigen vorzunehmen. Als drittes Zwangsmittel kommt die Versiegelung des Geländes oder des zu beseitigenden Bauwerks in Betracht. Damit wird jedem Unberechtigten der Zugang zu der baulichen Anlage verwehrt. Eine solche Zwangsmaßnahme kommt aber nur dann in Betracht, wenn unmittelbare Gefahren für Leib oder Leben durch Betreten der baulichen Anlage bestehen (Stichwort: Statik, Einsturzgefahr). Eine Beseitigung der Anlage ist damit noch nicht verbunden.

C. Mögliche Formen der Legalisierung

I. Bauleitplanung

Ist der Außenbereich bereits durch ein – ehemals legales Bauvorhaben (z.B. Altenteilerhaus) – schon versiegelt, kann das Bauwerk, auch nachdem seine privilegierte Nutzung aufgegeben wurde, unter engen Voraussetzungen im Interesse des Eigentümers beibehalten werden. Den in § 35 Abs. 4 BauGB angeführten Nutzungsänderungen, Erweiterungs- oder Wiederaufbaumaßnahmen kann nicht entgegengehalten werden, dass dieses Bauvorhaben dem Flächennutzungsplan, der Eigenart der Landschaft widerspricht oder die Entstehung oder Verfestigung einer Splittersiedlung befürchten lässt. Nur diese Belange sind aufgrund der gesetzlichen Regelung überwindbar. Die sonstigen weiteren öffentlichen Belange, wie Naturschutz und Wasserwirtschaft, bleiben davon unberührt. Falls diese beeinträchtigt werden, kann auch ein nach § 35 Abs. 4 BauGB beschriebenes Vorhaben nicht zugelassen werden. Voraussetzung ist zudem immer, dass es sich bei dem Bauvorhaben, welches nunmehr – ohne Nutzung – im Außenbereich steht, um ein ehemals „zulässigerweise errichtetes“ Bauvorhaben handelt. Darin kommt zum Ausdruck, dass die Regelung an Bestandsgesichtspunkte anknüpft. Ein formell und materiell illegales Bauvorhaben kann demnach nicht nach dieser Vorschrift legalisiert werden.

II. Außenbereichs- oder Innenbereichssatzung

Nach dem deutschen Baurecht kann eine Gemeinde für bebaute Bereiche im Außenbereich, die nicht überwiegend landwirtschaftlich geprägt sind und in denen eine Wohnbebauung von einigem Gewicht vorhanden ist, durch Satzung bestimmen, dass Wohnzwecken dienenden Vorhaben im Sinne des Absatzes 2 nicht entgegengehalten werden kann, dass sie einer Darstellung im Flächennutzungsplan über Flächen für die Landwirtschaft oder Wald widersprechen oder die Entstehung oder Verfestigung einer Splittersiedlung befürchten lassen. Die Satzung kann auch auf Vorhaben erstreckt werden, die kleineren Handwerks- und Gewerbebetrieben dienen. Entgegengehalten werden können solchen Bauvorhaben aber immer noch naturschutz- und wasserrechtliche Belange. Bebauung in Naturschutz- und Wasserschutzgebieten sollen damit generell vermieden werden, so dass auch insoweit eine Legalisierung ausscheidet.

III. Duldung

Eine Form der Legalisierung ist neben der Erteilung einer (nachträglichen) Baugenehmigung (wohl nur unter den vorgenannten Einzelfallvoraussetzungen und nur dann, wenn keine naturschutz- oder wasserrechtlichen Belange beeinträchtigt sind), die Form der Duldung. Hierbei ist zwischen der „aktiven“ und der „passiven“ oder „faktischen“ Duldung zu unterscheiden. Die „passive“ Duldung unterscheidet sich von der „aktiven“ Duldung dadurch, dass die Baubehörde einen illegalen Zustand hinnimmt, ohne gegen das Bauvorhaben in irgendeiner Form ordnungsrechtlich einzuschreiten. Aus ihr kann der Pflichtige keinen Vertrauenstatbestand herleiten. Die Bauaufsichtsbehörde kann nicht alle Gebäude und baulichen Anlagen ständig auf ihre Rechtmäßigkeit hin überprüfen. Nur dann, wenn die Behörde positive Kenntnis von einem illegalen Bauvorhaben hat (sei es über Nachbarn oder durch andere Behörden) und zu erkennen gibt, dass sie sich auf Dauer mit dem illegalen Bau und seiner Existenz abfinden will, spricht man von einer sog. „aktiven“ Duldung. Wegen dieser einer „Zusicherung“ nahekommenden Wirkung setzt dies aber voraus, dass die Behörde erklärt, ob und in welchem Umfang und über welchen Zeitraum hinweg, sie diesen illegalen Zustand hinnehmen will. Liegt eine „aktive Duldung“ vor, können sich hieraus für vergleichbare Fälle Einschränkungen hinsichtlich der Ermessensausübung unter dem Gesichtspunkt der Gleichbehandlung ergeben. Eine Ungleichbehandlung liegt beispielsweise dann vor, wenn die Behörde bei vergleichbaren baulichen Anlagen, die materiell illegal errichtet wurden, in Kenntnis ihrer Rechtswidrigkeit nur eine Anlage oder wenige mit einer Beseitigungsverfügung überzieht (z. B. Wochenendhäuser an einem Flusslauf oder an einem See).

D. Ausblick

Bei uns in der Region begegnen die Bauaufsichtsbehörden Bauanträgen, die im Außenbereich errichtet werden sollen, in jüngster Vergangenheit mit allergrößter Vorsicht. Mitunter werden Privilegierungen (landwirtschaftliche Nutzungen) vorgegeben, um diese dann aber bei Unwirtschaftlichkeit nach mehreren Jahren einzustellen. Die Privilegierung wird aufgegeben, dass Gebäude steht aber in reizvoller Umgebung. Die Schwierigkeiten, solche Gebäude beseitigen zu lassen, habe ich gerade versucht, aufzuzeigen. Deshalb sind die Bauaufsichtsbehörden dazu übergegangen, die Zulassungsvoraussetzungen sehr gründlich und sehr streng zu prüfen. Bei Zweifeln an der materiellen Legalität wird das Bauvorhaben auch auf die Gefahr eines Rechtsstreites abgelehnt. Die Behörden wissen selbst, dass die Mühlen der Justitia zwar mahlen, aber relativ langsam. So lange bleibt der Außenbereich, bleibt die Natur und Landschaft vor weiterer Bebauung geschützt. Umgekehrt ist es aber auch so: Bis eine Beseitigungsverfügung durch alle Gerichtsinstanzen rechtlich überprüft wurde, können Jahre vergehen. Solange bleibt das Gebäude stehen. Hier können sich die Baubehörden damit behelfen, dass sie neben der Beseitigungsverfügung auch eine Untersagung der Nutzung des illegalen Gebäudes verfügen. Dann kann der Ordnungspflichtige jedenfalls für die Zeit des Rechtsstreits die Früchte seiner illegalen Tätigkeit nicht nutzen.

Ich danke für Ihre Aufmerksamkeit.