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Relazione del prof. avv. Aldo Travi – Milano – 7/10/2011

Alla ricerca dell’azione di adempimento

1. Da alcuni decenni è stata prospettata da più parti l’introduzione di un’azione di adempimento anche nel processo amministrativo italiano. Queste proposte sembravano destinate ad essere recepite nel codice del processo amministrativo ed in effetti, in coerenza anche con una specifica previsione della legge di delega, il testo elaborato dall’apposita Commissione costituita dal Consiglio di Stato contemplava espressamente un’azione di adempimento: si trattava di un’azione accessoria a quella di annullamento e richiedeva perciò come condizione ordinaria l’annullamento del provvedimento di diniego. Nel testo finale del codice l’articolo che prevedeva l’azione di adempimento fu cassato, per ragioni non ancora del tutto chiarite, e nella Relazione al codice si conclude che tale azione è rimasta esclusa dal nostro processo amministrativo . Tuttavia il dibattito non è esaurito; sulla base di vari elementi testuali e sistematici una parte della dottrina ha sostenuto che l’azione di adempimento dovrebbe comunque ammettersi e di recente questa lettura è stata accolta, sul piano delle affermazioni di principio, in due sentenze dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (le sentenze n. 3 e n. 15 del 2011) e, soprattutto, ha trovato applicazione in una sentenza del Tar Lombardia (sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428).
La discussione è dunque aperta . In questa sede non esaminerò gli argomenti dell’una e dell’altra parte, ricavati dalle disposizioni del codice del processo amministrativo: il tema è già stato ampiamente illustrato in altre occasioni ed è inutile ripetere argomenti ormai noti. Personalmente ho espresso i dubbi sulla esperibilità, in via generale, di un’azione del genere, sulla base del testo del codice oggi vigente, e non ho ragione di mutare posizione. Tuttavia l’intensità della discussione nulla toglie alla convinzione comune che l’azione di adempimento segnerebbe un progresso importante nella nostra giustizia amministrativa. Proprio per questo motivo, dopo le sentenze dell’adunanza plenaria e quella del Tar Lombardia, si deve acquisire consapevolezza delle ragioni e delle condizioni per un’azione di adempimento che sia veramente utile per la tutela del cittadino: l’azione di adempimento sollecita oggi un’analisi giuridica, e non puramente di politica legislativa. Fra l’altro, come cercherò di spiegare, questa analisi può contribuire anche alla discussione in corso, perché consente di apprezzare meglio le opzioni di fondo che ne sono all’origine.
La presenza di illustri ospiti stranieri mi induce a dare atto innanzi tutto della situazione del processo amministrativo italiano e del suo progressivo avvicinamento ad un’azione di adempimento. Successivamente accennerò ad alcuni problemi di fondo, che a mio parere richiedono una soluzione meditata se si voglia perseguire in modo costruttivo la prospettiva di un’azione di adempimento.

2. E’ opinione diffusa che il nuovo assetto del processo amministrativo nell’Europa continentale sia caratterizzato dal superamento di una tutela incentrata sull’azione di annullamento . Anche nel processo amministrativo italiano questo superamento è in atto; tuttavia gli istituti che in passato, già prima del codice del 2010, lo hanno segnato e che in passato erano sembrati la punta avanzata del modello italiano, oggi, se inquadrati in una prospettiva più generale, dimostrano elementi sempre più evidenti di inadeguatezza, se non addirittura margini di contraddizione. Il codice li ha recepiti in termini pressoché immutati e così ha perpetuato anche i limiti precedenti.
a) Primo punto: l’effetto rinnovatorio della sentenza di annullamento.
In Italia l’azione per l’annullamento del provvedimento amministrativo si caratterizza pacificamente per effetti ulteriori rispetto alla eliminazione dell’atto: si ritiene infatti che la sentenza di annullamento condizioni anche l’attività amministrativa dell’amministrazione successiva alla sentenza. E’ il c.d. vincolo conformativo della sentenza: esso comporta che all’amministrazione sia preclusa, nel caso di rinnovazione del procedimento, la ripetizione del vizio accertato nella sentenza stessa. Se l’amministrazione riproduce comunque tale vizio, non si verifica soltanto una duplicazione del vizio precedente, ma si verifica una violazione della sentenza; per il caso di violazione della sentenza amministrativa in Italia è ammesso, da quasi tre quarti di secolo, un giudizio di esecuzione, il giudizio di ottemperanza, nel quale il giudice amministrativo esercita direttamente o attraverso un commissario poteri sostitutivi rispetto all’amministrazione. L’esecuzione tipica del processo amministrativo italiano è una esecuzione di ordine sostitutivo (non è un’esecuzione ‘indiretta’, perseguìta attraverso la comminatoria di sanzioni nei confronti dell’autorità inadempiente ); questo carattere non subisce deroghe neppure in presenza di un’attività discrezionale dell’amministrazione e ciò rappresenta indubbiamente un punto di forza.
La sentenza di annullamento determina quindi un vincolo preciso sull’attività amministrativa successiva. Nello stesso tempo, però, deve essere chiaro che non produce un esito corrispondente a quello di un’azione di adempimento: l’effetto rinnovatorio stabilisce che cosa l’amministrazione non debba fare, ed ha perciò una portata tipicamente negativa, mentre l’azione di adempimento dovrebbe imporre all’amministrazione che cosa fare, operando cioè in positivo e trasformando il successivo potere amministrativo in una mera attività esecutiva. La distinzione è fondamentale: altro è il risultato di una sentenza che annulli il diniego di un permesso di costruire, magari anche per vizi sostanziali, altro è il risultato di una sentenza che ordini all’amministrazione di rilasciare il permesso di costruire. Nel primo caso l’amministrazione può esercitare ancora il potere, negando nuovamente il permesso di costruire, seppur per ragioni diverse da quelle del primo diniego; nel secondo caso l’amministrazione può solo rilasciare il permesso richiesto dal cittadino.
La differenza sostanziale fra i due modelli non è superata neppure se si considerano unitariamente il processo di cognizione e il giudizio di ottemperanza, così come nel processo civile vale per la sentenza di condanna e l’esecuzione forzata. Infatti la giurisprudenza italiana ha respinto la tesi, pur sostenuta in passato da autorevole dottrina, secondo cui ogni questione insorta successivamente alla sentenza di annullamento avrebbe dovuto essere demandata al giudizio di ottemperanza: la giurisprudenza ha ancorato l’esperibilità del giudizio di ottemperanza alla violazione della sentenza . In altre parole, il ricorso per l’ottemperanza nel diritto italiano è assimilabile a un’azione di adempimento, ma l’esperibilità di tale azione è subordinata a condizioni molto strette, quasi in una logica di eccezionalità. Di conseguenza anche la sommatoria dell’azione di annullamento e del ricorso per ottemperanza non comporta oggi risultati equivalenti a quelli dell’azione di adempimento; anzi non evita neppure il rischio di una serie indefinita di sentenze di annullamento e di successivi provvedimenti negativi dell’amministrazione.
Una situazione del genere appare di dubbia compatibilità con i principi costituzionali sulla garanzia della tutela giurisdizionale. Il tema delle condizioni di esperibilità del giudizio di ottemperanza identifica oggi un elemento critico per la tutela del cittadino anche nella prospettiva che qui interessa. E questo profilo è rimasto irrisolto, purtroppo, anche nel recente codice del processo amministrativo.
b) Secondo punto: la tutela cautelare nei confronti di provvedimenti negativi.
In Italia la tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi dell’amministrazione ha assunto negli ultimi trent’anni contenuti più ampi di quelli propri dell’azione di annullamento. Si ammette infatti che nei confronti di provvedimenti negativi il giudice amministrativo, in sede cautelare, possa adottare qualsiasi misura necessaria per tutelare l’interesse del cittadino alla sentenza: può anche consentire interinalmente l’attività preclusa dal provvedimento negativo, o può ordinare all’amministrazione di ammetterla in attesa della sentenza. Non interessa qui la discussione sulla compatibilità di questa soluzione con il criterio fondamentale della strumentalità della tutela cautelare rispetto alla pronuncia di merito: è sufficiente ricordare che la linea più avanzata è stata recepita anche dal legislatore, già con la riforma del processo amministrativo dell’anno 2000.
Una tutela cautelare così estesa garantisce più efficacemente dal rischio che la durata del processo possa sacrificare l’interesse del ricorrente alla sentenza. Tuttavia si delinea, a questa stregua, anche una contraddizione di fondo, perché in concreto il cittadino può ottenere in sede cautelare utilità maggiori di quelle che può conseguire dalla sentenza che accolga l’impugnazione del provvedimento. Si confronti l’ammissione con riserva, disposta in sede cautelare alla classe successiva di un ciclo scolastico, con l’annullamento del giudizio di non ammissione alla classe successiva, che è compatibile con un nuovo giudizio negativo. Con la sentenza cadono gli effetti della misura cautelare; ciò può comportare però (e comporta in molti casi) la perdita dei benefici acquisiti interinalmente in sede cautelare.
A questa contraddizione si è cercato di ovviare istituendo il confronto fra misura cautelare ed esito del giudizio di ottemperanza: il giudizio di ottemperanza può anche comportare, come si è appena visto, una sostituzione del giudice o di un suo commissario all’amministrazione nell’emanazione di un provvedimento. Abbiano rilevato, però, come la prospettiva di un giudizio amministrativo bifasico, costituito insieme dalla fase di cognizione e dall’ottemperanza, non sia realistica, alla stregua della giurisprudenza prevalente. L’ordinanza cautelare nel giudizio di cognizione va dunque confrontata inevitabilmente con la sentenza che conclude tale giudizio.
In questo modo, però, in un sistema che ammetta in via generale solo l’azione di annullamento, la contraddizione appare insuperabile.
c) Terzo punto: l’azione nei confronti del silenzio dell’amministrazione.
E’ pacifico che il processo amministrativo italiano ammetta già oggi, in ipotesi particolari, un’azione di adempimento. Queste ipotesi corrispondono ad alcuni casi in cui è controverso se si tratti di azione di adempimento a tutela di interessi legittimi, o invece di azione di condanna a tutela di diritti soggettivi (si pensi al giudizio sull’accesso – art. 116 c.p.a.), e a un caso più importante e coinvolgente, che è quello del giudizio sul silenzio (art.31 c.p.a.). In quest’ultimo caso, se lo chiede la parte ricorrente, il giudice amministrativo può imporre all’amministrazione un comportamento determinato, in particolare quando accerti che la domanda del cittadino, su cui l’amministrazione non ha provveduto, avrebbe dovuto essere accolta.
E’ evidente la contraddizione fra ammettere un’azione di adempimento nel caso del silenzio e non consentirla invece nel caso di un provvedimento negativo. Paradossalmente il cittadino finisce col trovarsi in una situazione processuale più favorevole se l’amministrazione non abbia risposto alla sua istanza; se poi, in pendenza del giudizio, l’amministrazione adotta un provvedimento negativo, il cittadino perde comunque la possibilità di un’azione di adempimento (cfr. art. 117, comma 5, c.p.a.).
Nello stesso tempo il giudizio sul silenzio testimonia come l’ambito dell’accertamento nel processo amministrativo non sia determinato necessariamente o rigidamente dal provvedimento impugnato. L’estensione dell’accertamento alla fondatezza della pretesa sostanziale del cittadino non viola nessun principio istituzionale.
d) Le contraddizioni che emergono alla luce dei tre elementi che ho appena illustrato verrebbero invece superate se si ammettesse in via generale l’azione di adempimento. Per questa ragione, l’introduzione di un’azione di adempimento non costituisce una mera opzione di politica legislativa, opportuna magari anche per diminuire il ‘gap’ rispetto a sistemi stranieri, ma appare necessaria anche per recuperare coerenza nel nostro processo amministrativo.

3. L’azione di adempimento nella dottrina italiana è stata considerata soprattutto nella logica della estensione dei poteri decisori del giudice: come cercherò di spiegare nel mio intervento, in realtà in questo modo si finisce col confinare il suo rilievo e non si colgono le implicazioni più importanti. Ad ogni modo, dato che la tematica dell’azione di adempimento viene risolta in genere nella tipologia delle sentenze nel processo amministrativo, ritengo utile soffermarmi un attimo anche su questo profilo.
Il diritto processuale italiano, soprattutto quello civile (quello amministrativo segue a ruota, ma con qualche ritardo), si ispira da quasi un secolo all’insegnamento di Giovanni Chiovenda e alla sua fondamentale teorizzazione dei caratteri dell’azione giurisdizionale. In base a questo insegnamento l’azione è strumento a tutela della situazione soggettiva; ciò che spetta a un cittadino secondo il diritto sostanziale, se non viene conseguito spontaneamente, deve poter essere assegnato a quel cittadino dal giudice. La garanzia giurisdizionale non è a sé stante, e non rappresenta neppure il punto d’origine per la creazione del diritto sostanziale (come invece era, per esempio, nel processo formulare romano), ma va modellata sulla situazione soggettiva. Questa prospettiva ha determinato, nel processo civile, un progressivo superamento della rigidità nell’assetto delle azioni e delle sentenze: l’azione è fondamentalmente l’attuazione del diritto soggettivo attraverso lo strumento del processo e in un contesto del genere la distinzione fra le azioni svolge un’utilità principalmente descrittiva.
A questa conclusione, nel processo amministrativo italiano è stata opposta la specificità dell’interesse legittimo, intesa come categoria soggettiva diversa e inconfondibile rispetto al diritto soggettivo. Nelle sistematiche più comuni, l’interesse legittimo si caratterizza, a differenza del diritto soggettivo, per il fatto di esprimere la relazione giuridica di un cittadino con il c.d. potere amministrativo: rispetto al potere dell’amministrazione il cittadino non è titolare di un diritto, ma è titolare di un interesse legittimo. In questo modo il cittadino che aspira a conseguire un’utilità dall’amministrazione (si pensi al cittadino che chiede un’autorizzazione commerciale, un permesso di costruire, o che partecipa a un concorso o a una gara per un appalto pubblico) deve sempre transitare attraverso la mediazione necessaria del provvedimento amministrativo; solo nel caso estremo rappresentato dal giudizio di ottemperanza, e cioè quando l’amministrazione si ostini a violare la sentenza amministrativa, questa regola generale ammette una deroga.
Su questo tema, quello del livello di ‘necessarietà’ del potere amministrativo, l’azione di adempimento introduce prospettive nuove. Come si è già ricordato, nel caso dell’azione di annullamento, il provvedimento illegittimo è annullato, ma il potere amministrativo sopravvive, fatto salvo soltanto il divieto per l’amministrazione di ripetere l’illegittimità già accertata nella sentenza. Invece l’azione di adempimento può comportare un superamento del potere amministrativo, perché il giudice, ove ne sussistano le condizioni di diritto sostanziale, può accertare che al cittadino spetta il rilascio di un provvedimento positivo. L’attività successiva dell’amministrazione, di esecuzione della sentenza, non può essere considerata esercizio di potere, perché la sentenza assorbe i profili più caratteristici del potere amministrativo, rappresentati dalla sua capacità di decidere come, quando e a favore di chi distribuire utilità e risorse. In questo senso, chi sostiene che già oggi sia possibile in via generale un’azione di adempimento nel nostro processo amministrativo dà rilievo alla circostanza che il codice del processo amministrativo, nel trattare della sentenza, non contempla più la clausola di salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione, contenuta in precedenza nell’art. 45 del regolamento di procedura del 1907 e nell’art. 26 della legge istitutiva dei Tar (cfr. art. 34 c.p.a.).
Una dottrina processualcivilista afferma che proprio per questa ragione l’azione di adempimento è un’azione di condanna (e questo viene ritenuto un argomento ulteriore per ammetterla già oggi, sulla base dell’art.30 cod.proc.amm.) e coerentemente dall’esperibilità di un’azione di condanna deduce che la distinzione generale fra interesse legittimo e diritto soggettivo non avrebbe più un carattere decisivo. Infatti, almeno in molti casi, la pretesa giudica del cittadino è pretesa a un particolare provvedimento amministrativo, in forza direttamente della legge o anche del concreto svolgimento del procedimento. Pertanto in questi casi il cittadino sarebbe titolare nei confronti dell’amministrazione di una pretesa riconosciuta dal diritto sostanziale, qualificata per un risultato specifico, e in base ai principi illustrati da Chiovenda non si dovrebbe escludere la possibilità di una tutela adeguata. Una tutela adeguata, ovviamente, non potrebbe essere di tipo annullatorio, perché non sarebbe garantita altrimenti una componente importante della pretesa giuridica.
Questa lettura aiuta a cogliere alcuni profili significativi per l’azione di adempimento: la sua coerenza con il quadro sostanziale, l’irriducibilità nell’azione di annullamento, le implicazioni rispetto alla tematica delle situazioni soggettive. Nello stesso tempo, sottolinea ulteriormente il profilo rappresentato dall’esaurimento del potere amministrativo: infatti a una condanna, per definizione, non sopravvive alcuna posizione di potere giuridico. Inoltre esprime la consapevolezza che l’azione di adempimento presupponga un’attività di accertamento del giudice, proprio come si verifica normalmente nella condanna civile, ed è questo il punto sul quale a mio parere è necessaria la riflessione più attenta.
Infatti un problema di fondo del processo amministrativo italiano è rappresentato dall’accertamento del giudice amministrativo e questo problema, che è generale, risulta ancora più importante rispetto a un’azione di adempimento. Infatti, nel caso dell’azione di adempimento, l’accertamento, se non si può esaurire nella verifica di un profilo di illegittimità dell’atto e deve spingersi fino alla verifica della fondatezza della pretesa del cittadino alla stregua dell’ordinamento, a maggior ragione richiede una cognizione piena della pretesa.
Il giudizio amministrativo ha come oggetto una pretesa giuridica del cittadino. A questi fini, il giudice amministrativo deve poter accertare tutti gli elementi della pretesa che siano di rilevanza giuridica. Rispetto a una sentenza di annullamento, la cui utilità è innanzi tutto cassatoria, questi aspetti sono già di per sé importanti; essi però diventano decisivi rispetto alla pronuncia di adempimento, perché essa definisce in modo puntuale e definitivo il rapporto fra il cittadino e l’amministrazione. Altrimenti l’azione di adempimento rischia di produrre un esito inutile o addirittura ingiusto, perché sarebbe determinata da un accertamento e da una valutazione dei fatti operati dall’amministrazione in modo insoddisfacente o addirittura parziale . In questo modo l’esigenza di fondo, di assicurare un rapporto più corretto fra il cittadino e l’amministrazione, rimarrebbe inattuata.
Oggi nel dibattito sull’azione di adempimento questo aspetto sembra complessivamente trascurato. Al centro appare soprattutto la preoccupazione di estendere i poteri decisori del giudice. In realtà una prospettiva incentrata sui poteri decisori risulta inadeguata. Preliminare è invece un assetto più ampio dei poteri di cognizione del giudice.

4. Una ‘civilizzazione’ dell’azione di adempimento richiede quindi che la cognizione del giudice abbia tutta l’ampiezza necessaria per consentire, sul piano istituzionale, che la sentenza possa essere ‘giusta’. Pertanto il giudice amministrativo deve poter conoscere ed accertare tutti i profili dell’azione amministrativa che siano rilevanti da un punto di vista giuridico.
Da questo punto di vista, mi pare che vadano riconosciuti innanzi tutto tre corollari.
In primo luogo l’accertamento deve poter riguardare tutti i fatti, storici o materiali, rilevanti per l’azione amministrativa. L’accertamento dei fatti, nel nostro ordinamento, non è mai oggetto di riserva all’amministrazione: di conseguenza, il giudice, quando un fatto sia controverso, deve poterlo conoscere. Riservare all’amministrazione la ricostruzione dei fatti equivale ad amputare di una componente fondamentale il sindacato di legittimità, dato che la legge ancora sempre il potere amministrativo a condizioni specifiche di fatto. D’altra parte la terzietà del giudice, oggi richiesta anche dall’art.111 Cost., è incompatibile con l’assegnazione di un peso preferenziale all’accertamento dei fatti compiuto dall’amministrazione.
Ciò comporta anche che al giudice amministrativa deve disporre di mezzi di prova adeguati per la conoscenza dei fatti. Purtroppo da questo punto di vista il codice del processo amministrativo non ha rappresentato sempre un avanzamento: infatti alcune disposizioni, come quella sulla limitazione della testimonianza (art.63, comma 3, c.p.a.), sono irragionevolmente limitative.
In secondo luogo la valutazione dei fatti, per quanto concerne la loro qualificazione per profili di ordine tecnico, di norma non è riservata all’amministrazione: quindi, se sia controversa la valutazione del fatto compiuta dall’amministrazione, il giudice deve poter procedere a una valutazione autonoma (si pensi agli indici di anomalia dell’offerta in una gara d’appalto, alla gravità dell’infrazione ai fini della esclusione dei requisiti generali per i contratti pubblici, ma anche alla ragionevolezza del termine ai fini dell’annullamento d’ufficio, alla gravità di un’infermità ai fini della dispensa dal servizio, ecc.). Questa conclusione si riallaccia all’osservazione più generale che di fronte ai c.d. concetti giuridici indeterminati, o alle c.d. clausole generali, non vige alcuna riserva istituzionale di potere a favore dell’amministrazione: la loro applicazione non è esercizio di discrezionalità amministrativa. Fra l’altro proprio in questi ultimi anni un indirizzo meditato della Cassazione ha ammesso che la contestazione dell’applicazione di clausole generali costituisca questione deducibile con ricorso per cassazione . A maggior ragione, pertanto, deve escludersi una ragione istituzionale che impedisca la cognizione del giudice amministrativo.
Purtroppo anche per questo profilo il codice del processo amministrativo risulta insoddisfacente. Mi riferisco particolarmente alla disposizione (che, peraltro, lo stesso Consiglio di Stato sta interpretando con molta larghezza) che ha limitato la consulenza tecnica a casi eccezionali ed ha invece enfatizzato il ricorso del giudice alla verificazione amministrativa (art.63, comma 5, c.p.a.). Si tratta di una delle previsioni più deludenti della recente riforma.
In terzo luogo ritengo che, più in generale, sia necessaria una maggiore prudenza a riconoscere spazi di discrezionalità amministrativa. L’assimilazione dei concetti giuridici indeterminati alla discrezionalità amministrativa, che ha condizionato parte della dottrina e ampia parte della giurisprudenza, ha prodotto come esito anche l’individuazione di spazi esorbitanti per la discrezionalità. La discrezionalità amministrativa richiede invece che la legge dia rilievo, in modo inequivocabile, a concezioni soggettive dell’interesse pubblico, come si verifica tipicamente per gli atti che ammettano una componente di apprezzamento politico. Invece, là dove la legge demanda all’amministrazione valutazioni riconducibili a clausole generali, analoghe a quelle che si riscontrano anche per l’attività privata (come quelle che richiamano l’esigenza di una corretta gestione delle risorse, nella logica del buon padre di famiglia), non si configura alcuna discrezionalità e non vi è ragione per introdurre limiti particolari quanto alla cognizione del giudice.
L’azione di adempimento, per essere efficace, richiede la pienezza della cognizione del giudice amministrativo in merito alla ricostruzione dei fatti, alla loro valutazione per i profili latamente tecnici e all’applicazione dei concetti giuridici indeterminati. Altrimenti il progresso rispetto al vincolo rinnovatorio della sentenza di annullamento sarà molto labile, in termini concreti. Si ripeterebbe, insomma, la situazione che oggi già riscontriamo nella giurisprudenza sul silenzio, che tende quasi sistematicamente a negare la possibilità di sentenze che ordinino all’amministrazione di emanare provvedimenti specifici, perché in definitiva sarebbero quasi sempre identificabili spazi di discrezionalità amministrativa o margini di valutazioni complesse (è esemplare, in proposito, la giurisprudenza sul silenzio rispetto a domande di permesso di costruire).

5. Con particolare riferimento all’azione di adempimento, l’accesso del giudice ai fatti sollecita un’ultima riflessione.
A questi fini è opportuno precisare innanzi tutto quali fatti identifichino la pretesa del ricorrente, nel caso dell’azione di adempimento, anche per definire i contenuti essenziali della domanda. Nell’azione di annullamento assumono rilievo i fatti che attengono alla posizione giuridica del ricorrente, alla luce dei vizi del provvedimento dedotti nel ricorso, nell’articolazione dei tre vizi tipici di legittimità (cfr. art. 29 c.p.a.). Nel caso dell’azione di adempimento non sono rilevanti i tre vizi tipici di legittimità, perché si controverte invece sulla pretesa al rilascio di un certo provvedimento. Assumono rilievo fondamentalmente la presentazione della domanda di provvedimento (se il procedimento è a iniziativa di parte), la legittimazione del ricorrente in base alla norma sostanziale, la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per il rilascio di quel provvedimento. Il ricorrente è pertanto gravato dall’onere di ‘allegare’ questi fatti.
Questi stessi fatti, se siano tutti o in parte contestati, possono essere oggetto di un’indagine istruttoria. Altrimenti, sulla base della disciplina generale, dovrebbe valere il principio di non contestazione (art. 64, comma 2, c.p.a.), in base al quale il giudice pone a fondamento della decisione “i fatti non specificamente contestati dalla parte convenuta”. Ciò significa, per esempio, che se il ricorrente richieda il rilascio di un permesso di costruire, allegando tutti i fatti che identificano il suo titolo a conseguirlo, e il Comune si limiti a una difesa formale, il giudice è comunque tenuto ad accogliere la domanda e ad ordinare all’amministrazione il rilascio del provvedimento.
E’ evidente che una difesa poco curata dell’amministrazione può compromettere interessi di rilievo più generale. Ma vi è di più: si profila anche il rischio che l’amministrazione riesca così ad eludere le proprie responsabilità, perché di fronte a una sentenza che le ordini di rilasciare il permesso di costruire non può configurarsi alcuna responsabilità a carico del Comune che la esegua; l’azione di adempimento finisce col rappresentare così una soluzione fin troppo comoda. Si può obiettare che un rischio del genere si presenta anche nell’azione di annullamento, ma indubbiamente le conseguenze appaiono più gravi nell’azione di adempimento. Infatti proprio in questo caso la sentenza di accoglimento ha un carattere proprio di definitività, dato che non lascia spazio ad ulteriori esercizi del potere amministrativo.
Il problema non si risolve invocando la necessità della notifica del ricorso ai terzi controinteressati e perciò una dialettica più ampia nel processo. La garanzia della legalità non può essere rimessa ai controinteressati. Fra l’altro, anche la loro stessa identificazione, nel caso di azione di adempimento, può essere problematica: si pensi al giudizio sulla pretesa ad un permesso di costruire, se si segue con coerenza il criterio della ‘vicinitas’.
Viene quindi naturale prospettare modelli alternativi all’attuale, per esempio modelli che riconoscano un’ampia iniziativa istruttoria al giudice, anche in presenza di fatti non contestati. In questo modo, però, risulterebbe disatteso una delle componenti del c.d. metodo acquisitivo, sul quale si basa tradizionalmente il processo amministrativo in base all’insegnamento di Benvenuti e che è sostanzialmente confermato anche nel codice (artt. 63 ss. c.p.a.) e si introdurrebbero motivi di ordine inquisitorio.
Il metodo acquisitivo attua fedelmente la concezione del processo amministrativo come processo di parti, perché consente che alla condotta processuale delle parti sia ricondotta la determinazione, nell’ambito dei fatti rilevanti, di quelli che richiedano una prova. Si tratta allora di capire se, nella prospettiva dell’azione di adempimento, siamo comunque disposti ad accettare tutti i costi che comporta un processo di parti, anche nel caso in cui si possa produrre un esito concretamente contrastante con la legge.

Aldo Travi