Agatif | Relazione italiana avv. Veronica Dini – 10 dicembre 2020
AGATIF propone lo scambio di esperienze professionali, anche nel quadro del diritto comunitario, la comparazione del diritto amministrativo e del diritto processuale amministrativo nei Paesi europei.
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Relazione italiana avv. Veronica Dini – 10 dicembre 2020

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Relazione italiana avv. Veronica Dini – 10 dicembre 2020

LA MEDIAZIONE NEI CONFLITTI AMBIENTALI

 

          I conflitti ambientali: caratteristiche e peculiarità – in ottica preventiva

  1. Per comprendere le ragioni per cui si è ritenuto opportuno e interessante sperimentare l’applicazione dei procedimenti di mediazione ai conflitti ambientali, occorre innanzitutto comprendere di che cosa parliamo quando parliamo di conflitti ambientali.

Ebbene, innanzitutto, parliamo di istanze di giustizia ambientale. Tra i casi più emblematici che vengono sottoposti all’attenzione dei tribunali, vi sono quelli che riguardano i rapporti fra uomo e natura, l’accesso alle risorse, la preservazione del paesaggio e dei beni culturali, della biodiversità. Ma anche le controversie in materia di agricoltura sostenibile, inquinamento da allevamenti intensivi.

Oggi, anche le questioni più strettamente connesse all’urbanistica e al governo del territorio, laddove attengono anche a questioni di impatti ambientali, connessi ad esempio, a nuovi insediamenti o alla presenza di aree verdi, generano istanze di giustizia ambientale, riconosciute come tali.

Ancora, numerosissimi e rilevantissimi sono i casi di conflitti ambientali che riguardano la gestione e il traffico dei rifiuti, le discariche abusive, oltre che le contaminazioni che ne derivano a terreni e corsi d’acqua.

Anche il settore dell’energia è un fronte amplissimo di contenzioso ambientale, non solo laddove si osteggiano modelli fondati sull’energia fossile, ma anche quando si dibatte sulla compatibilità paesaggistica e sulla reale sostenibilità degli impianti di energia prodotta da fonti alternative.

Ancora, pensate al conflitto in materia di sicurezza alimentare e diritto al cibo. Per non parlare, naturalmente, del conflitto in materia di trasporti e di emissioni inquinanti connesse.

Oggi, naturalmente, a questa casistica già amplissima e complessa, si deve aggiungere quella relativa ai danni connessi cambiamento climatico, che abbraccia e interessi e questioni globali di grande rilevanza e urgenza.

  1. Cosa possiamo dire innanzitutto di questi di questi conflitti?

Certamente che coinvolgono e ci interpellano sui rapporti tra uomo e natura ma anche tra uomo e uomo. Che riguardano l’accesso, la fruizione, l’uso e la proprietà delle risorse ambientali, che sono non solo esauribili, come ci insegna la letteratura scientifica e l’esperienza ormai di tutti i giorni, ma in gran parte già esaurite o gravemente compromesse.

Più in generale, dunque, possiamo dire che questi contenziosi riguardano la distribuzione equa e sostenibile (in orizzontale in verticale) dei rischi ambientali e dei benefici connessi all’attività umana, alla sostenibilità del modello di sviluppo attuale.

Ma, ancor di più e ancor prima, i conflitti ambientali oggi riguardano la partecipazione alle politiche ambientali, l’accesso alle informazioni ambientali e agli organi giurisdizionali, alla Giustizia ambientale: prima e più ancora che una richiesta di tutela ambientale in senso stretto, in molti casi questi conflitti contengono una domanda di partecipazione e di coinvolgimento dei cittadini nelle politiche che riguardano l’ambiente e nell’assunzione di decisioni che hanno ripercussioni in materia ambientale.

Non si tratta quindi più di conflitti locali esclusivamente circoscrivibili alle sindromi NIMBY (not my back yard) o NIABY (not in anyone’s back yard). Si tratta di conflitti la cui rilevanza è ben più ampia, nei contenuti, nelle istanze, nell’urgenza, oltre che nella estensione geografica.

  1. In questo senso, dunque, quando parliamo di giustizia ambientale oggi non possiamo non parlare anche di giustizia sociale. Le connessioni sono state indagate ormai da molti anni.

Risale agli anni ‘60, negli Stati Uniti, la declinazione del concetto di razzismo ambientale, in occasione delle lotte della popolazione nera, contro l’insediamento di discariche e impianti inquinanti nei ghetti periferici delle grandi città.

Ma la situazione non è migliorata, col tempo: pensate alle favelas delle megalopoli del Sudamerica, nelle quali, accanto a quartieri poveri e disagiati in cui privazioni di carattere sociale ed economico si accompagnano a condizioni di vita igieniche e ambientali assolutamente intollerabili, sopravvivono e crescono quartieri borghesi nei quali la qualità della vita è di gran lunga più elevata, anche sotto il profilo ambientale.

Non si tratta, peraltro, di fenomeni cui il nostro Paese è esente. Se pensate ai casi eclatanti dei conflitti ambientali legati all’Ilva di Taranto, agli impianti di Casale Monferrato, ai petrolchimici italiani, ebbene è chiaro in tutti questi casi non si discute solo di questioni ambientali, ma anche del rapporto tra le condizioni di lavoro, le esigenze di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, e il sistema economico, il rapporto fra comunità, imprenditoria e istituzioni. In questi casi, si dibatte della sostenibilità – ambientale, sanitaria, sociale, economica, del nostro modello di sviluppo.

La questione è ancora più evidente quando si tratta dei conflitti, cui si è già accennato, connessi al cambiamento climatico: è noto dagli studi che ormai sono diffusi in tutto il mondo che, a fronte di una fetta relativamente limitata di popolazione che negli anni ha prodotto emissioni inquinanti rilevantissime e che continua a farlo, esiste un’altra parte del mondo che, tendenzialmente, ha una responsabilità storica minore e che, nonostante questo, è quella che subirà e subisce la maggior parte delle dei danni connessi al cambiamento climatico o che non sarà in grado d affrontarli.

  1. Per le ragioni succintamente esposte, oggi, la dottrina tende a definire i conflitti ambientali come conflitti totali, che riguardano quindi, certamente, questioni di diritto e di diritto ambientale in particolare, ma anche e soprattutto di democrazia, partecipazione deliberativa, etica.

Non solo. Occorre altresì considerare che i conflitti ambientali sono un processo, non solo un singolo evento storico.

Essi, dunque, possono avere valenza globale anche quando hanno dimensioni locali e hanno spesso una rilevantissima valenza simbolica.

  1. Alla luce di tali premesse, si può comprendere come i conflitti ambientali siano, in realtà, ineliminabili e irriducibili: l’unica cosa che possiamo evitare dei conflitti ambientali è la loro degenerazione. E questo dobbiamo fare, come cittadini, come professionisti e come operatori del diritto.

Certo, si tratta di un compito davvero arduo, che richiede un impegno continuo e strategie sempre innovative.

I conflitti ambientali sono, infatti, anche altamente eterogenei nello spazio e nel tempo: quello che consideriamo qui e ora un conflitto ambientale rilevante può essere del tutto diverso da quello che può scoppiare in un altro Paese del mondo o in un’altra epoca.

In ogni caso, vedono fronteggiarsi istanze talvolta radicali e afferenti a ideali e modelli del tutto opposti (o, almeno, percepiti come tali), in cui le vittime e/o gli istanti non chiedono solo la tutela di parti più o meno ampie di territorio, ma chiedono di essere riconosciuti – come identità, storie e competenze – e chiedono di prendere parte ai processi decisionali in materia ambientale.

Si tratta di questioni che riguardano una molteplicità di persone e di soggetti, profondamente diversi tra di loro e altamente complessi: le vittime possono essere al tempo stesso corresponsabili degli illeciti che contestano (si pensi al fenomeno dell’inquinamento atmosferico, in cui le comunità contribuiscono all’innalzamento dei livelli di emissioni nocive per esempio usando l’automobile o accendendo il riscaldamento), sono spesso intere comunità (a fronte di un diritto improntato alla tutela individuale dei soggetti), possono non essere ancora nate. Per tali ragioni, quanto più, in questo settore, si prova a limitare l’engagement degli attori, tanto più questi conflitti si acquisiscono.

Non solo. Ci muoviamo in un ambito in cui la comprensione dei fenomeni richiede l’accesso a informazioni ambientali e la loro decodificazione: ciò implica un alto grado di trasparenza, oltre che conoscenze tecniche e scientifiche importanti e complesse, familiarità con strumenti di comunicazione e narrazione diversi.

  1. Tutto ciò rilevo non per suggerire di non cogliere la sfida, ma solo allo scopo di meglio comprenderla, per meglio fronteggiarla, nell’interesse di tutte le parti coinvolte.

Ritengo, infatti, che, oggi, non sia più eludibile la domanda di Giustizia – ambientale e sociale – che sorge da sempre più parti, in modo sempre più urgente, acuto e anticipato rispetto al determinarsi dei danni veri e propri. E credo che, in questo contesto, il diritto (non solo la legge), nelle sue diverse declinazioni, possa e debba offrire una risposta adeguata.

          Strumenti e strategie alternative di risoluzione dei conflitti ambientali

  1. Per comprendere in che modo procedere, occorre prendere le mosse dall’analisi delle modalità con cui si affrontano oggi, normalmente, i conflitti ambientali.

Le alternative possono essere diverse. C’è chi affronta i problemi di giustizia ambientale e sociale attraverso la rivoluzione, la ribellione rispetto al sistema precostituito. Chi si affida a posizioni di resistenza, in parte all’interno del diritto e in parte al di fuori. Normalmente, i conflitti ambientali vengono affrontati nelle aule dei Tribunali, attraverso l’ausilio della scienza e della tecnologia.

Ma c’è un’altra strada, possibile: quella della collaborazione ambientale.

Questa opzione si rivela particolarmente interessante per far fronte alla frequente inadeguatezza – direi ontologica – del contenzioso ordinario a risolvere i problemi ambientali.

Credo, infatti, che si possa convenire sul fatto che gli atti legali redatti dagli avvocati in vista dell’accoglimento delle domande azionate dai propri clienti finiscono, per lo più, per restituire al Giudice (e alla storia giudiziaria) una vicenda molto diversa e semplificata rispetto a quella che è in realtà: la versione giudiziaria di un conflitto non può e non deve restituirne un’immagine troppo complessa e variegata dei fatti e degli interessi in gioco. Si tratta, pur sempre, di un punto di vista (diverso, peraltro, a seconda della giurisdizione e del grado di giudizio in cui si opera) orientato al solo fine di ottenere una verità giudiziaria. E di una verità che, in qualche modo, cambia a seconda della giurisdizione cui ci rivolgiamo e delle parti che, effettivamente, possono accedervi.

La effettiva risoluzione del conflitto, in quanto tale, esula dal mandato strettamente giudiziario affidato all’avvocato o atteso dal Giudice.

Del resto, il contenzioso si conclude con un verdetto, con una verità calata dall’alto, spesso raggiunta all’esito di un processo in cui le parti svolgono un ruolo di mere comparse. In questo senso, il giudizio può illuminare un tratto della strada che occorre percorrere per risolvere un conflitto, ma non contribuisce necessariamente a risolverlo.

Anzi, a dire il vero, nella misura in cui la sentenza attribuisce torti e ragioni, essa cristallizza le posizioni delle partI antagoniste e ne certifica, in via definitiva, la distanza.

Non solo. Il processo giudiziario, per sua natura, guarda al passato: ricostruisce e analizza gli eventi che si sono verificati e li interpreta alla luce del diritto: esso, però, non guarda al futuro e a ciò che sarà delle parti in causa dopo l’emanazione della sentenza.

  1. Al contrario, le strategie collaborative partono da un approccio e da una interpretazione dello stesso conflitto molto diverse. In questo ambito, infatti, il conflitto è un fenomeno naturale della società in una società complessa, che può degenerare determinando la rottura dei rapporti sociali all’interno di una comunità, può sfociare in un contenzioso o in uno scontro sociale e culturale, ma che, nella sua fisiologia, è un confronto dialogico, uno stimolo, una potenzialità, addirittura una fonte di nuove regole.

Su tale interpretazione, le strategie collaborative fanno perno per valorizzare le potenzialità insite nel conflitto, ai fini della sua prevenzione e gestione.

La collaborazione ambientale e la collaborazione in generale mira, infatti, alla gestione costruttiva del conflitto, attraverso una discussione argomentata fra tutte le parti coinvolte (non solo quelle strettamente legittimate ad agire), anche al fine di prevenire liti future. In questo senso, essa non costringe il conflitto in spazi angusti, non lo scinde in visioni diverse a seconda dell’interlocutore, ma lo fa esplodere e lo analizza in tutte le sue sfaccettature, contribuendo a costruire, più in generale, un metodo di convivenza e di gestione del bene comune, realmente alternativo e molto più efficace, in cui le decisioni (e le regole) assunte sono condivise, meditate, comprese e quindi sono migliori e reggono di più nel tempo.

Naturalmente, la strategia e gli strumenti di cui stiamo parlando non sono avulsi dal diritto: la collaborazione ambientale è semplicemente un diverso sistema di regole. In essa, il diritto e la scienza non scompaiono, anzi, hanno un ruolo determinante: non sono, però, il fine della procedura e soprattutto non arrivano dall’alto ma dal basso e procedono in modo circolare. La scienza e il diritto sono lo strumento cognitivo e strategico per arrivare alla soluzione del conflitto, che resta nelle mani delle parti.

A differenza del processo ordinario, che, come detto, guarda solo al passato, come in uno specchietto retrovisore, la collaborazione ambientale si basa sulla memoria e sulla storia ma guarda al futuro.

Ebbene, gli strumenti della collaborazione ambientale sono molteplici: tra questi, possiamo annoverare, innanzitutto, la mediazione, che è effettivamente applicata ai conflitti ambientali, a partire dalla ricerca e dalla sperimentazione avvenute nel 2015, nell’ambito di un progetto finanziato da fondazione Cariplo, di cui sono stata ideatrice e coordinatrice e che ha visto l’importante contributo dell’allora Presidente del TAR di Milano – dott. Angelo De Zotti. Un altro esempio, alto, di composizione dei rapporti tra vittima e reo è quello perseguito con la giustizia riparativa e la mediazione penale.

Ma anche la negoziazione, ossia la mediazione affidata ai soli avvocati, può essere uno strumento collaborativo utile e applicabile anche in materia ambientale, così come la Pratica Collaborativa, nata negli Stati Uniti nell’ambito dei contenziosi di famiglia, che opera con team di avvocati e ed esperti finanziari o tecnici, che assiste e accompagna le Parti alla presa di coscienza del conflitto che li vede opposti, fa emergere gli interessi e su questi lavora, ai fini di una composizione condivisa e stragiudiziale.

Per quanto riguarda, specificamente, la mediazione ambientale essa viene condotta ai sensi del decreto legislativo 28 del 2010, la norma nazionale di riferimento in materia di mediazione civile e commerciale. La stessa disciplina è stata peraltro applicata anche per i conflitti ambientali che ricadono nella giurisdizione amministrativa, con adattamenti di carattere pratico ma non concettuali.

In questo ambito, l’unica differenza che si riscontra e l’unica reale difficoltà risiede nel fatto che la il codice del processo amministrativo italiano prevede un termine di 60 giorni per l’impugnazione degli atti amministrativi.  Si tratta certamente di un tempo molto limitato per poter attuare procedure di mediazione di carattere preventivo. Per tale ragione, le sperimentazioni in atto riguardano procedimenti amministrativi in corso: posto che tra il deposito del ricorso e la discussione di merito possono passare, in Italia, anche diversi anni, è possibile, in questo frangente, sviluppare e sperimentare procedure conciliative che risolvano la controversia prima di arrivare a sentenza.

Tra i casi sottoposti alla camera arbitrale di Milano, ad esempio, ve ne sono stati alcuni in cui si controverteva di impianti e insediamenti potenzialmente nocivi, nei quali si è lavorato su accordi che riguardavano l’uso di particolari accorgimenti per contenere o monitorare eventuali emissioni inquinanti; ovvero procedure di bonifica di siti contaminati, nel quale parti private, cittadini e pubblica amministrazione hanno analizzato tutte le alternative possibili, per addivenire ad una bonifica condivisa e rapida. Ancora, vi sono state procedure di mediazione tra p.a., operatori e utenti per concordare modalità di gestione di servizi pubblici e criteri per la determinazione delle tariffe.

In tutti questi casi, avvocati, consulenti e mediatori hanno lavorato con le parti, non solo per loro, dapprima, in una fase di pre-negoziazione, per capire se la procedura scelta era quella più adatta, quali parti dovessero essere coinvolte, quali questioni discutere; poi, durante la vera e propria fase di trattative, nelle quali si sviscerano e analizzano gli interessi delle parti e tutte le possibili soluzioni concrete del problema; infine, nella fase di formalizzarle dell’accordo definitivo, anche attraverso tutti i passaggi amministrativi di volta in volta necessari. Analoga attenzione è stata, peraltro, dedicata a un altro momento estremamente importante e delicato della mediazione: quello della post-mediazione, volto a monitorare il comportamento delle parti dopo il raggiungimento dell’accordo e a consolidare il risultato.

Naturalmente, la complessità degli interessi in gioco, anche di natura pubblicistica, e i vincoli procedurali cui le pubbliche amministrazioni sono sottoposte, impongono che la mediazione si affianchi al procedimento amministrativo, lo integri – nei contenuti e nelle forme – senza sostituirlo. Nella misura in cui la collaborazione tra le parti funziona, essa non comporta un appesantimento del procedimento amministrativo ma una sua maturazione, che può condurre a decisioni non solo condivise ma più ponderate e, in ultima analisi, migliori.

  1. Le caratteristiche sin qui esposte, mettono in luce il fatto che la mediazione applicata ai conflitti ambientali è, in fondo, un modo per recuperare il dialogo, il confronto e la partecipazione attiva del pubblico, che normalmente dovrebbero essere garantiti nei procedimenti amministrativi che conducono all’approvazione di provvedimenti che, tra l’altro, determinano impatto ambientali. Ed è un modo, altresì, per recuperare l’unicità di sguardo che talvolta si perde, inseguendo frammenti di verità, in Tribunali di ordine e grado diversi.

In ottica preventiva, dunque, sarebbe certamente auspicabile che, prima ancora di pensare alla mediazione ambientale, si realizzi in maniera reale ed effettiva la partecipazione deliberativa dei cittadini e del pubblico interessato, nelle sedi amministrative a ciò preposte.

Il diritto amministrativo, non solo italiano, infatti, è disseminato di principi e strumenti di collaborazione, che possono o, addirittura, devono essere applicati in materia ambientale. Ciò, anche e soprattutto in virtù della convenzione di Aarhus sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, del 1998.

Nello specifico, ricordo gli accordi collaborativi, sostitutivi o integrativi del procedimento, che è possibile assumere ai sensi dell’articolo 11 della legge 241 del 1990. Analogamente, si pensi alle conferenze di servizio, che sono pensate proprio per agevolare il confronto sui pareri e sulle opinioni delle autorità competenti ma che, troppo spesso, si riducono a un mero scambio di carte, in assenza delle parti private interessate.

Ancora, esistono nel nostro Paese in virtù di una normativa di origine comunitaria, una serie di procedimenti che sono appositamente pensati per la materia ambientale e che si caratterizzano per un elevato coinvolgimento delle comunità e dei professionisti interessati,  nei quali il provvedimento conclusivo è legittimato solo e in quanto frutto di un effettivo confronto con i soggetti interessati: si pensi alla valutazione di impatto ambientale, alla valutazione ambientale strategica, all’autorizzazione integrata ambientale, all’autorizzazione unica ambientale, ma anche e soprattutto all’inchiesta pubblica e al dibattito pubblico, che rappresentano strumenti fondamentali per la prevenzione dei conflitti ambientali e che fondano le proprie radici proprio negli strumenti di collaborazione ambientale e di partecipazione deliberativa.

Se questi strumenti fossero davvero e sempre utilizzati per abbandonare la logica del cosiddetto Tina (there is no alternative) e favorire il confronto tra le parti e gestire in modo creativo e condiviso gli inevitabili conflitti, allora potrebbero svolgere un ruolo decisivo in ottica preventiva.

Sicuramente, quelle in corso, rappresentano esperienze pionieristiche che necessitano di ulteriori approfondimenti e nuove verifiche sperimentali. Ma si tratta di modelli che hanno mostrato grandi potenzialità e che stanno cominciando, seppure lentamente, a modificare e innovare anche il contesto culturale amministrativo e giuridico nel nostro paese.

Il cammino è naturalmente lungo: auspico che il novero dei compagni di viaggio divenga vieppiù ampio e diversificato e il sentiero appena tracciato nella terra, diventi più visibile.

Avv. Veronica Dini