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Relazione italiana del prof. avv. Alessandro Dario Cortesi – Menaggio – 14/9/2012

IL SINDACATO DEL POTERE AMMINISTRATIVO IN MATERIA AMBIENTALE

1.- Discrezionalità – Discrezionalità tecnica

Premetto alcune definizioni per rendere più comprensibili i ragionamenti che seguiranno.
Alcuni ideali del positivismo (che hanno trovato la massima diffusione in occasione dell’entrata in vigore del codice napoleonico) sono oggi riconosciuti come tali (delle finalità irraggiungibili, ma a cui comunque tendere): nessuno ritiene di poter scrivere più un codice o un corpo di leggi del tutto completo, immutabile, cristallizzato, non integrabile ab externo; nessuno pensa più che il giudice possa essere semplicemente la bocca della legge.
Qualsiasi testo normativo necessiterà, dunque, per trovare concreta applicazione, di un’attività interpretativa. Anche nelle ipotesi in cui il legislatore abbia conferito all’amministrazione un potere “vincolato”, anche laddove l’an, il quando, il quomodo e il quid siano stati definiti puntualmente dalla legge, all’amministrazione prima ed al giudice dopo residueranno dei problemi da risolvere.
Si pensi ai poteri vincolati per eccellenza: alla materia delle sanzioni amministrative. L’automobile che presenta solo una ruota sul marciapiede è in divieto di sosta? L’articolo del codice della strada che se ne occupa (V. artt. 6 e 7 del codice della strada, D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285) richiede un’interpretazione da parte del vigile, ma non per questo si potrà dire che il legislatore abbia conferito alla polizia locale un potere discrezionale.

La discrezionalità pura attiene, viceversa, al conferimento da parte del legislatore all’amministrazione di un potere di ponderare e soppesare gli interessi in gioco al fine di individuare e perseguire l’interesse pubblico primario.

Non è, tuttavia, sempre semplice nell’ordinamento italiano distinguere il potere vincolato dal potere discrezionale perché difficilmente il legislatore lascia piena libertà all’amministrazione di determinarsi circa qualsiasi aspetto dell’esercizio del potere conferitole e ancor più di rado prevede che siano emanati provvedimenti strettamente vincolati.
Inoltre nel corso del procedimento il potere, attribuito come discrezionale, può divenire in concreto vincolato in ragione di auto-vincoli che la stessa amministrazione si sia data.

Ciò che conta perché si possa parlare di vera discrezionalità è che il legislatore abbia lasciato all’amministrazione il compito di soppesare gli interessi in gioco. Secondo una nota formula dottrinale, l’amministrazione dovrà in tal caso adottare, fra le tante possibili, la scelta che contemporaneamente enfatizzi l’interesse pubblico da perseguire dalla norma attributiva di potere e sacrifichi il meno possibile gli interessi privati dei cittadini coinvolti.
Ebbene, qualora residuino più scelte, che garantiscano il medesimo grado di soddisfazione dell’interesse pubblico e sacrifichino in ugual misura (minima) diversi interessi privati, le scelte effettuate saranno tutte legittime e l’amministrazione dovrà effettuare la scelta sulla scorta di altre considerazioni.
Sulla base della distinzione tra potere discrezionale e potere vincolato possiamo affrontare il tema delle valutazioni tecniche complesse.

Ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, D. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, art. 136, comma 1, lett. b), l’amministrazione deve apporre un vincolo su ville, giardini e parchi “che si distinguono per la loro non comune bellezza”.
Una volta qualificato un giardino come caratterizzato da bellezza non comune, non residua all’amministrazione alcuna diversa scelta: esso va sottoposto a vincolo con tutte le conseguenze che ne derivano (anche in pregiudizio del proprietario).
Ma la decisione se un parco o un giardino sia o meno bello non richiede un semplice accertamento (come potrebbe essere la verifica dell’altezza di un edificio) bensì una valutazione complessa, ovvero una scelta da adottarsi sulla base di regole o criteri tecnico-scientifici in mancanza di consenso universale della comunità scientifica di riferimento (sui criteri da applicarsi o sulle conseguenze che derivano dall’applicazione degli stessi).

Sebbene il potere conferito all’amministrazione sia quindi rigorosamente vincolato, all’amministrazione residuano importanti margini di scelta: se seleziona i fatti considerati rilevanti, e applica i criteri dettati da una determinata scuola di pensiero, giunge a determinate conclusioni, mentre se rivolge la propria attenzione al pensiero di altra scuola di pensiero, giunge a conclusioni nettamente opposte.
E in materia ambientale esistono indirizzi molto sfaccettati. Per i fautori del deep ecology movement, ad es., una palude non deve essere bonificata, ma preservata in quanto tale, poiché si deve ragionare in termini di egualitarismo biosferico, non in chiave antropocentrica.

La legislazione ambientale italiana pone il giurista spesso di fronte a dilemmi del genere e ciò, altrettanto spesso, perché la comunità scientifica non è (ancora) giunta su molti temi ad approdi definitivi (o quantomeno non è riuscita ad elaborare paradigmi sufficientemente condivisi).

Il dubbio che ci accompagnerà fino alla fine della relazione (e temo anche dopo) è se, ed entro che limiti, il giudice amministrativo possa sostituirsi alla pubblica amministrazione in ipotesi di esercizio di discrezionalità tecnica.

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2.- Esiste un diritto dell’ambiente o si tratta di un coacervo di interessi degni di protezione?

Il dubbio sull’esistenza di un vero e proprio diritto dell’ambiente penso possa ritenersi oggi superato.
Il Consiglio di Stato italiano è stato un precursore. Già con sentenza della sez. V, 9 marzo 1973, n. 253 ha riconosciuto la legittimazione a ricorrere ad un’associazione ambientale.
In termini di “diritto alla salubrità dell’ambiente” già si sono espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza 6 ottobre 1979, n. 5172, di qualche mese successiva alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 20 febbraio 1979 in causa C-120/78, Cassis De Dijon.
Con la sentenza “Oli usati” 7 febbraio 1985 in causa 240/83 la Corte di Giustizia ha affermato che la tutela ambientale “costituisce uno degli scopi essenziali della Comunità”.
Nel 1987 con la sent. 28 maggio 1987, n. 210 la Corte Costituzionale ha posto le basi per riconoscere l’ambiente come valore costituzionale.

Come spesso accade, la protezione degli interessi, emersa in prima battuta in sede giudiziale – dottrinale, ha trovato poi un formale “recepimento” da parte delle istanze politiche.
Il che si è concretizzato nel rapporto Brundtland del 1987, in cui è emersa la formula di successo di “sviluppo sostenibile”; a Rio de Janeiro 1992, con l’adozione della dichiarazione sull’ambiente e lo sviluppo ed il programma Agenda 21 (ove sono espressi i principi di precauzione e di chi inquina paga), nonché a Kyoto nel 1997, con l’adozione del protocollo che ha riconosciuto la necessità di politiche attive fissando l’obiettivo della riduzione media dei gas inquinanti del 5,2% in meno rispetto alla soglia del 1990 entro il 2012 (dell’8% per l’Unione Europea).
Anche le fonti comunitarie hanno registrato un imponente sviluppo: per citare solo alcuni passaggi chiave, dalla direttiva 85/337 sulla valutazione di impatto ambientale, emanata allorquando si dubitava dell’inerenza della materia alla disciplina comunitaria, si è giunti all’Atto unico europeo del 1986, all’Accordo di Maastricht del 1992 (passaggio dal principio dell’unanimità a quello di cooperazione per le misure ambientali), fino al Trattato di Amsterdam del 1997 (inserimento dello sviluppo equilibrato e sostenibile all’art. 2 del Trattato CE e passaggio alla procedura della codecisione).

Né sono mancati momenti di stallo. Nel 2009 ci si attendeva dalla Conferenza di Copenaghen una riflessione importante sui risultati ottenuti post-Kyoto ed un rilancio degli obiettivi di riduzione degli inquinanti, ma non è stato possibile e così pure nella conferenza successiva di Cancun nel dicembre 2010. Nella successiva, tenutasi a Durban nel 2011 gli Stati si sono solo impegnati a valutare un possibile nuovo accordo globale (c.d. Kyoto2) entro il 2015, che diverrà efficace a partire dal 2020.
Fortunatamente l’Europa ha dato il buon esempio adottando in tema di clima ed energia gli obiettivi 20-20-20: entro il 2020 20% di riduzione delle emissioni di gas serra nell’Unione Europea; 20% dei consumi energetici nell’Unione Europea che provengano da fonti rinnovabili; 20% di riduzione nell’uso di energia primaria rispetto alle proiezioni, da raggiungere con un miglioramento dell’efficienza energetica.
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3.- Tratti caratteristici del diritto dell’ambiente

Al diritto dell’ambiente occorre a mio avviso riconoscere piena autonomia scientifica.
La tutela dell’ambiente, infatti, non può essere intesa secondo canoni tradizionali, ma richiede l’elaborazione di categorie sue proprie.
Cerchiamo di analizzare alcune peculiarità:
1) l’interesse ad un ambiente salubre; al mantenimento di un equilibrio fra lo sfruttamento del suolo, della flora e della fauna, e la preservazione delle risorse per le generazioni future (in altre parole l’interesse alla sostenibilità dello sviluppo) è un interesse diffuso, di cui è titolare ciascun essere umano;
2) vista l’invasività della tecnologia moderna e il fenomeno del c.d. forum shopping la tutela dell’ambiente deve essere necessariamente globale: gli interventi imprudenti dell’uomo sull’ecosistema generano ricadute a migliaia di chilometri di distanza (pensiamo all’effetto serra o allo scoppio di una centrale nucleare);
3) di norma assegnare protezione ad un interesse, elevandolo al rango di diritto assoluto, significa costituire un dovere di astensione in capo ad altri soggetti, come accade per la proprietà. Nel caso del diritto dell’ambiente spesso l’affermazione di un interesse ambientale comporta qualcosa in più: preclude la soddisfazione di altri interessi antagonisti;
4) alcuni autori, riferendosi all’ambiente salubre e all’equilibrio dell’ecosistema preferiscono non parlare di diritti, ma, secondo una lettura di carattere economico, di beni che non ammettono uso esclusivo e che non si prestano ad una diversa fruizione. Altri ancora utilizzano la categoria dei c.d. commons, che permettono un impiego concorrente, ma comunque non attribuiscono diritti soggettivi. Non si tratta di un dettaglio, ma di uno degli aspetti più rilevanti di questo ramo del diritto (assieme, per chi lo ritiene necessario, al superamento della visione antropocentrica);
5) I guadagni derivanti dalle attività inquinanti sono private e locali, mentre le negatività che generano ricadono su altri, se non addirittura indistintamente sulla collettività e rappresentano rilevanti ostacoli al raggiungimento dell’equilibrio con le sole leve del libero mercato, imponendo l’intervento pubblico. Rappresentano cioè delle esternalità;
6) le conoscenze scientifiche e la tecnologia si evolvono così rapidamente che anche i meccanismi di tutela dell’ambiente debbono reggere il passo: sono soggetti a rapida (e crescente) obsolescenza (si pensi alla telefonia cellulare, agli organismi geneticamente modificati). Il diritto dell’ambiente appare sempre un cantiere aperto;
7) in materia ambientale spesso si devono affrontare rischi di cui non sono note – per la persistente incapacità della scienza a fornire risposte – né le cause, né gli effetti, soprattutto di lungo periodo. Alcuni eventi (es. scioglimento dei ghiacciai) sono in parte naturali, in parte dipendenti dall’attività dell’uomo, ma non si sa in che misura. Alcuni eventi, non manifestatisi in precedenza, potrebbero non essere nemmeno dannosi.
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4.- Il codice dell’ambiente. Gli adattamenti del procedimento amministrativo quando è coinvolto un interesse ambientale.

Oggi le comunità hanno ormai acquisito consapevolezza dell’importanza degli interessi ambientali, per cui il legislatore non conferisce alla pubblica amministrazione un potere totalmente discrezionale, essendo l’interesse ambientale considerato non dominante, ma tendenzialmente prevalente, rispetto ad altri interessi; in molti casi sono necessarie valutazioni tecniche complesse, per le quali alla risoluzione di problemi giuridici si associa l’applicazione di regole tratte da altre scienze.

Esaminando in concreto le direttive impartite dal legislatore italiano alla pubblica amministrazione bisogna rammentare le indicazioni di massima contenute nel D.Lgs. 3.4.2006, n. 152 (c.d. codice dell’ambiente).

Si veda in particolare l’art. 3-quater secondo cui:
“1. Ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future.
2. Anche l’attività della pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione.
3. Data la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello sviluppo sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell’ambito delle risorse ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell’ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell’ambiente anche futuro.
4. La risoluzione delle questioni che involgono aspetti ambientali deve essere cercata e trovata nella prospettiva di garanzia dello sviluppo sostenibile, in modo da salvaguardare il corretto funzionamento e l’evoluzione degli ecosistemi naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte dalle attività umane”.

Secondariamente bisogna notare che la presenza di un interesse ambientale autorizza parziali modifiche al procedimento amministrativo:
• le pubbliche amministrazioni devono rendere pubbliche le informazioni di carattere ambientale, diffondendo dati che permettano di conoscere lo stato effettivo dell’ecosistema;
• per la richiesta di copia dei documenti amministrativi i cittadini non devono dimostrare di avere un particolare interesse.
• quanto alla partecipazione al procedimento, sono ammesse alla presentazione di memorie, di cui l’amministrazione deve tenere conto, non solo le associazioni ambientali, come definite dalla legge, ma chiunque (cfr. gli artt. 6, 7 e 8 della Convenzione di Aarhus e la direttiva 2003/35/CE);
• quanto ai pareri, richiesti entro il termine di 20 giorni dall’amministrazione procedente, si può ordinariamente prescinderne in caso di ritardo, ma non quando si tratti di un interesse ambientale (analogamente per le valutazioni tecniche);
• con riferimento alle conferenze indette dall’Amministrazione, il motivato dissenso di quella preposta alla cura di un interesse ambientale è superabile solo con deliberazione del Consiglio dei Ministri.

I procedimenti che coinvolgono interessi ambientali sono caratterizzati da alta complessità, orizzontale e verticale, prima di tutto organizzativa, concorrendo spesso più amministrazioni al perseguimento degli interessi ambientali. Si occupano indirettamente di ambiente anche le amministrazioni preposte alla pianificazione urbanistica, all’uso del territorio, alla tutela del paesaggio, della salute pubblica, dell’acqua, dell’energia.

Non è un caso se l’art. 3-ter del D.Lgs. 152/2006 dispone che “La tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio «chi inquina paga» che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale”.

Quindi, riassumendo, diverse e concorrenti fonti (internazionali, comunitarie, nazionali e locali) sono interpretate da più amministrazioni, dalle attribuzioni spesso in parte sovrapponibili, con la collaborazione dei cittadini, per esercitare la funzione nel caso concreto, in seno a procedimenti almeno in parte speciali. Ovviamente in queste condizioni è difficile ricondurre la decisione finale ad una sola amministrazione. Appaiono più plausibili letture diverse, come qualla dottrinale della c.d. “coalizione decisionale”.

Il quadro si completa, poi, con un’ampia legittimazione delle associazioni (anche internazionali, anche solo locali) al ricorso davanti ai Tribunali (v. Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998; direttiva 2003/35/CE, che modifica le direttive 85/337/CEE e 96/61/CE; nonché Corte di Giustizia, sez. II, 15 ottobre 2009, n. 263, in causa C-263/08; cfr. sul punto la sentenzxa della Corte di Giustizia, sez. IV, 12 maggio 2011, in causa C-115/09 – Bund fur Umwelt und Naturschutz Deutschland, il che testimonia le difficoltà del processo tedesco, caratterizzato da un’impostazione soggettivistica ad adattarsi alla materia ambientale.

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5.- Il sindacato

Debbo ora rispondere all’interrogativo circa i potere riconosciuto ai Tribunali sull’esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’amministrazione.
La discrezionalità, anche quella tecnica, secondo un risalente insegnamento della dottrina italiana tuttora tramandato dalla giurisprudenza, rappresenterebbe un limite alla cognizione da parte del giudice. Ciò in quanto negli ordinamenti democratici è vigente il principio della separazione dei poteri (che trova, fra le altre, le proprie radici nell’opera De l’esprit des lois, di CHARLES DE SECONDAT, BARONE DE LA BRÈDE ET DE MONTESQUIEU).

Tali affermazioni richiedono peraltro un approfondimento.
La separazione dei poteri è una conquista del costituzionalismo che deve essere salvaguardata. Ma non è la separazione in quanto tale a rappresentare una garanzia per i cittadini, quanto la dottrina della rule of law, dei c.d. checks and balances: ogni potere è infatti espressamente chiamato a controllare gli altri e nessuno è esente dall’applicazione della legge (legibus solutus).

Il problema si pone, a mio avviso, in altri termini.
Di fronte alla discrezionalità, che si esercita attraverso la graduazione di diversi interessi pubblici e privati per il perseguimento di quello affidato all’Amministrazione procedente, le scelte effettuate dall’amministrazione non possono essere sostituite da quelle del giudice.
Pensiamo alla scelta di pianificazione urbanistica di rendere edificabile un terreno agricolo. Verificato che tale scelta si è sviluppata entro i confini di un giusto procedimento, il giudice non può adottare la scelta opposta.
Nè avrebbe senso preferire la valutazione del giudice a quella dell’amministrazione, essendo questa espressione del principio di rappresentatività (ed anche per salvaguardare l’indipendenza della magistratura).

Analoghe considerazioni sembrerebbero valere per la discrezionalità tecnica e sono tuttora attuali nella giurisprudenza del Consiglio di Stato e di numerosi Tribunali amministrativi.
Anche in pronunce assai recenti il Consiglio di Stato ha precisato che il giudizio tecnico-discrezionale “non è sindacabile nel merito, se non per macroscopico travisamento dei fatti e per illogicità nei presupposti o nelle considerazioni conclusive”.
Si tratta di un controllo ab extrinseco, che analizza il procedimento seguito dall’amministrazione e valuta se sussistano vizi nel processo formativo della volontà, ma non scende a controllare la congruità della scelta tecnica adottata.

Pensiamo per un momento alla scelta sull’incommerciabilità della costata fiorentina per il pericolo di diffusione del morbo della mucca pazza. L’amministrazione aveva allora adottato una scelta precauzionale, in funzione di una motivazione scientifica e per il principio di precauzione (better safe than sorry). Il giudice, qualora avesse ritenuto infondata detta motivazione, accogliendo le tesi di alcuni scienziati secondo i quali il rischio di contagio era insussistente, lo avrebbe fatto non per ragioni giuridiche, ma per un proprio giudizio di maggiore attendibilità di quest’ultima opinione. E alcuni autori e parte rilevante della giurisprudenza non ritengono che possa spingersi a tanto.

Non si tratta tuttavia di una posizione univoca; altra parte della giurisprudenza sembra, infatti, propensa ad un controllo funditus della scelta effettuata dall’Amministrazione.

Secondo il T.A.R. Puglia Lecce Sez. II, 1 giugno 2012, n. 991 “la scelta tecnica è controllabile dal Giudice Amministrativo anche attraverso la verifica dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto al criterio adoperato ed al procedimento applicativo”; secondo il T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 2 marzo 2012, n. 180 “In riferimento alla procedura di valutazione per la selezione di docenti universitari le valutazioni della Commissione costituiscono espressione dell’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica, o meglio costituiscono valutazioni tecniche. Si tratta di valutazioni pienamente controllabili dal giudice amministrativo, sia sotto il profilo della ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità che sotto l’aspetto più strettamente tecnico. Infatti, tramontata l’equazione discrezionalità tecnica-merito insindacabile, il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della p.a. può oggi svolgersi in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico e a procedimento applicativo”.
In questo senso anche Cons. Stato Sez. IV, 14 febbraio 2012, n. 707: “La discrezionalità tecnica della p.a., o meglio l’insieme delle valutazioni tecniche che la costituiscono, è pienamente valutabile dal giudice amministrativo, sia sotto il profilo della ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità che sotto l’aspetto più strettamente tecnico, ben essendo consentito un sindacato non limitato al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’Autorità amministrativa, ma mirante alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico e a procedimento applicativo (Conferma della sentenza del T.a.r. Lazio, sez. I, 19 aprile 2010, n. 7452).
Come si vede la giurisprudenza italiana è oggi divisa e non è ancora chiaro quale sarà l’indirizzo che prevarrà.

La soluzione che appare oggi ancora minoritaria potrebbe, peraltro, prevalere. Analizzando le sentenze della Corte di giustizia e del Tribunale di I grado dell’Unione Europea, quando esaminano atti nazionali in grado di vulnerare il diritto comunitario, si apprezza immediatamente con quanta incisività la formazione della volontà amministrativa è assoggettata a verifica (cfr. ad es. Tribunale di I grado delle Comunità europee, sez. III, 11 settembre 2002, in causa T-70/99, Alpharma Inc. vs. Consiglio dell’UE).

Riassumendo quanto suesposto, esistono in Italia diverse tipologie di sindacato del giudice amministrativo:
• un controllo completo sugli accertamenti tecnici (con dominio delle scienze esatte), sui fatti e sull’interpretazione data ai concetti giuridici a contenuto indeterminato;
• un controllo meramente formale ed esterno per le ipotesi di potere discrezionale, tale da valutare in ogni caso il rispetto dei principi di completezza dell’istruttoria, di logicità e pertinenza della valutazione, di imparzialità, di proporzionalità e di motivazione.
Quello della discrezionalità tecnica è un istituto di confine e rispetto a questo quello dei confini dei poteri del giudice amministrativo rimane un tema aperto.

Due ultime riflessioni sul punto.

In primo luogo, condivido i dubbi espressi da taluni Autori sulla compatibilità con l’art. 6 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo quanto alle norme italiane e tedesce sulle mere irregolarità formali, come tali non rilevanti ai fini dell’annullamento del provvedimento amministrativo impugnato.
La correttezza del procedimento è, infatti, l’unica garanzia per il cittadino, cosicché una lettura estensiva delle ipotesi di irregolarità determinerebbe un depotenziamento, quando non addirittura il venir meno, di una tutela effettiva. Direi di più: la norma italiana mi pare in diretto contrasto, fra l’altro, con la convenzione di Aarhus, essendo la partecipazione, come chiarito dalla Corte di Giustizia, un valore in sé. Almeno quando sono coinvolti interessi ambientali di tale articolo dovrebbe darsi quindi un’interpretazione conforme alle fonti internazionali.

In secondo luogo, se il controllo del giudice si può estendere, come credo, alla congruità del valutazione tecnica effettuata, occorrerebbe che maturassero delle linee guida in merito alla decisione che deve essere assunta dall’amministrazione circa la soluzione verso la quale indirizzarsi.
Il punto è stato approfondito negli Stati Uniti e si sono messi in evidenza tre possibili approcci:
• il c.d. least feasible approach (Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso American Textile Manifactures Institute Inc. vs. Donovan, 452, U.S. 490; Tribunale di I grado delle comunità europee sent. Alpharma Inc. cit.): la salute pubblica ha la prevalenza rispetto a qualsiasi considerazione economica;
• La significant-risk doctrine (Corte Suprema, nel caso Industrial Union Department vs. American Petroleum Institute, 1980, 448, U.S. 607). Secondo questo diverso indirizzo prevenire il verificarsi di un rischio si traduce in una spesa, in termini assoluti e comparativi. Le risorse utilizzate per prevenire il rischio x non sono più disponibili per prevenire il rischio y. Giacché le risorse non sono illimitate e non permettono quindi di prevenire qualsiasi rischio, occorre valutare, secondo il miglior materiale probatorio disponibile e secondo la valutazione dell’uomo ragionevole, quale sia un grado accettabile di rischio e oltre quale soglia un rischio non lo sia.
• Il bilanciamento costi – benefici: secondo il giudice Powell nel caso sopra indicato, la valutazione del rischio significativo deve essere svolta proprio sulla scorta di un’analisi economica dei costi e dei benefici.

Vista la centralità del ruolo dell’esperto, la giurisprudenza americana si è incaricata anche dell’accesso di tale figura nel giudizio. Per lungo tempo ha adottato il c.d. Frye Test (dal caso Corte Suprema Frye vs. United States 8 D.C. circ. 1923) secondo cui è utilizzabile in giudizio solo la tesi di uno scienziato che abbia ricevuto general acceptance nella comunità scientifica di riferimento. Tale test, ritenuto ingiustamente penalizzante per le impostazioni più innovative e comunque inutile a dirimere le ipotesi in cui le conoscenze scientifiche sono ad uno stadio embrionale, è stato sostituito settant’anni dopo dal c.d. Daubert test (dalla sentenza della Corte Suprema Daubert vs. Marrel Daw Pharmaceuticals Inc., 509, 113, Ct., 1993), che è considerata la base della Rule 702 del Federal Rule of Evidence. Secondo tale regola: “A witness who is qualified as an expert by knowledge, skill, experience, training, or education may testify in the form of an opinion or otherwise if: […] (b) the testimony is based on sufficient fact or data; (c) the testimony is the product of reliable principles and methods; and (d) the expert has reliably applied the principles and methods to the facts of the case” (v. sito internet federalevidence.com).
E secondo una successiva sentenza [Moore v. Ashland Chemical Inc., 151 F.3d 269 (5th Cir. 1998)], il giudizio di affidabilità deve essere condotto in funzione:
1) della sottoposizione a test (attuale o potenziale);
2) della sottoposizione a peer review e a pubblicazione della teoria;
3) dell’esistenza di conosciuti o potenziali margini di errore;
4) della sottoposizione a standard e controlli;
5) in funzione del grado di accettazione nell’ambito della comunità scientifica di riferimento.

Ebbene, è interessante notare come tali modelli d’oltreoceano abbiano trovato riscontro nell’ordinamento comunitario.
La chiave di lettura è quella dell’interpretazione del principio di precauzione, che così torna a manifestare tutta la sua centralità nella fase di gestione del rischio.
Si esamini la Comunicazione della Commissione Europea sul principio di precauzione Bruxelles, 2 febbraio 2000, COM (2000)1.
Secondo tale comunicazione, in tanto ha senso impiegare il principio, in quanto si sia identificato con precisione un rischio. Sin dalle prime battute occorre avviare una valutazione scientifica di tale rischio, la più completa possibile, con acquisita consapevolezza del grado di incertezza scientifica.
Solo sulla base di queste premesse, qualora tale rischio non possa essere considerato accettabile, è necessario adottare scelte, con il coinvolgimento di “tutte le parti interessate, quanto più precocemente e quanto più ampiamente possibile”.
Occorre in particolare adottare delle misure:
• proporzionali rispetto al livello prescelto di protezione;
• non discriminatorie;
• coerenti con misure analoghe già adottate;
• basate su un esame dei potenziali vantaggi e oneri dell’azione o dell’inazione (compresa, ove ciò sia possibile e adeguato, un’analisi economica costi/benefici). Sempre secondo la comunicazione occorre valutare anche l’efficacia e l’accettabilità da parte del pubblico delle possibili azioni e tenere conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo cui la protezione della salute ha la precedenza sulle considerazioni economiche.
• soggette a revisione alla luce di nuovi dati scientifici e
• in grado di attribuire correttamente la responsabilità per la produzione delle prove scientifiche necessarie per una più completa valutazione del rischio.

Un’adeguata valorizzazione del principio di precauzione così applicato potrebbe permettere anche al giudice nazionale di operare il controllo sulle valutazioni tecniche complesse, ancorando l’eventuale intervento sostitutivo su più solide basi, rispetto a quelle di un’isolata consulenza tecnica d’ufficio.

Villa Vigoni, 14 settembre 2012
Avv. Prof. Alessandro Cortesi