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Relazione italiana dell’avv. Giovanni Tulumello – Bad Staffelstein – 28/5/2011

Giovanni Tulumello

La competenza del giudice amministrativo nell’interpretazione della legge e delle fonti secondarie.[1]

Il concetto stesso della storia delle istituzioni in quanto tali, e poi delle epoche e delle civiltà intere,

fino alle strutture più piccole e ai princìpi di più intima costituzione,

in base ai quali soltanto si possono capire le vite dei popoli,

 il significato delle istituzioni, il senso dei fatti e degli eventi,

 è una conseguenza diretta della filosofia hegeliana”.[2]

Isaiah Berlin

  1. Le più autorevoli indagini dottrinali sul rapporto fra applicazione e interpretazione del diritto, pongono in evidenza come “anche nella ricerca preliminare della norma regolatrice di un dato rapporto, il momento dell’interpretazione è, di regola, imprescindibile, perché è soltanto attraverso l’interpretazione che si può accertare se una determinata norma valga a disciplinare il rapporto di che trattasi (….)”.[3]

Il problema investe, nella sua dimensione attuale, la stessa possibilità per il giudice di sindacare, in sede di interpretazione, la fonte regolatrice del rapporto.

Il diritto amministrativo è, per tradizione storica e per disciplina positiva, improntato, sul piano sostanziale, al principio di legalità e al principio di preferenza della legge: le fonti del diritto sono il parametro della legittimità dei provvedimenti e delle attività amministrative.

Di qui l’importanza, per l’attività del giudice amministrativo, del tema dell’interpretazione delle fonti, primarie (leggi ed atti normativi ad esse equiparati: decreti-legge e decreti legislativi delegati) e secondarie (regolamenti).

Tuttavia la disciplina del processo amministrativo vincola in più punti l’attività interpretativa del giudice rispetto all’applicazione della fonte normativa.

  1. Una prima forma di limitazione è data dalla natura del processo amministrativo, quale giudizio a critica vincolata, dominato (e delimitato) dal principio della domanda.

Il giudice non può annullare l’atto amministrativo impugnato per una qualsiasi forma di illegittimità, vale a dire per la difformità dell’atto stesso rispetto a qualsiasi atto normativo: ma solo per le specifiche ipotesi di violazione di norme dedotte nel ricorso.[4]

Il principio iura novit curia opera pertanto all’interno del principio della domanda.

Si tratta, tuttavia, non tanto di una delimitazione dell’attività interpretativa del giudice, ma della delimitazione del thema decidendum, vale a dire dell’oggetto stesso del giudizio.

Una possibile innovazione rispetto a questa ultracentenaria tradizione processuale sembra potersi rinvenire nell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005.[5]

Questa disposizione, in ossequio al principio processualcivilistico del raggiungimento dello scopo e della strumentalità delle forme (che nel codice di procedura civile italiano è alla base della disciplina della nullità degli atti processuali), o – secondo altra impostazione – in un’ottica di “amministrazione di risultato”, delimita il potere del giudice di annullare un provvedimento amministrativo illegittimo ai soli casi di “violazione di forme sostanziali”.

La disposizione, più precisamente, sancisce la non annullabilità del provvedimento amministrativo viziato da una ipotesi di illegittimità consistente nella “violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti” (nei soli casi di attività vincolata), ovvero per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento (in tutti i casi), quando sia palese (nel primo caso), o l’amministrazione dimostri in giudizio (nella seconda ipotesi), che “il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

In potere annullatorio del giudice è dunque in tal caso paralizzato, pur a fronte della evidente difformità dell’atto rispetto al parametro normativo, dalla circostanza che il contenuto dispositivo dell’atto stesso è l’unico in concreto possibile: l’unico conforme all’ordinamento.

Nel verificare tale ultima condizione, il giudice dovrà evidentemente valutare la legittimità del provvedimento nel suo complesso, anche indipendentemente dalle specifiche censure dedotte dalla parte ricorrente.

Nonostante l’atteggiamento di self-restraint che la giurisprudenza amministrativa italiana ha dimostrato nell’applicazione di questa disposizione, non sembra potersi negare che essa apra la strada alla possibilità del giudice di valutare la legittimità del provvedimento comparandolo con norme anche diverse da quelle indicate nei motivi di ricorso: quanto meno, sotto il profilo del difetto dell’interesse per il ricorrente a coltivare il ricorso contro un provvedimento che, pur se viziato secondo le censure dedotte, ha un contenuto “necessitato”, tale da impedire sulla conclamata violazione di regole formali o procedimentali.

La disposizione sembra lo snodo centrale di un problema particolarmente attuale: quello del concorso di fonti di natura diversa, che nel loro insieme concorrono a determinare i parametri di legittimità del provvedimento amministrativo.

Gli effetti del pluralismo sociale si riflettono in un pluralismo normativo che il giudice si trova, nelle ipotesi di conflitto, a dover risolvere: il diritto (processuale) amministrativo italiano lo risolve a favore del contenuto della scelta dispositiva operata dall’amministrazione, e a scapito del valore delle regole formali e procedimentali.

Quanto meno nel primo caso, infatti, indipendentemente da ogni possibile difesa in giudizio dell’amministrazione sarà infatti il giudice che, anche d’ufficio, andrà a ricercare le fonti normative alla stregua delle quali il provvedimento finale ha un contenuto comunque normativamente necessitato (o meglio, opera l’unica scelta dispositiva compatibile con il regime sostanziale della relativa attività e della specifica pretesa).

  1. Ma la dimensione certamente più interessante del tema del nostro incontro riguarda la ricognizione dei limiti che il giudice incontra rispetto ad una fonte normativa di rango primario a sua volta illegittima o invalida.

Sul piano della gerarchia delle fonti, l’art. 117, primo comma, della Costituzione prescrive espressamente, dopo la riforma costituzionale del 2001, che le leggi statali e regionali in Italia debbano rispettare la Costituzione, l’ordinamento comunitario (oggi dell’Unione europea) e gli obblighi internazionali.[6]

Questo triplice limite all’attività legislativa condiziona i poteri interpretativi del giudice in modo corrispondente alla diversa natura formale del singolo parametro nell’ambito della teoria delle fonti.

3.1.      Per quanto riguarda la contrarietà delle leggi statali e regionali alla Costituzione, in Italia vige un sistema di controllo di costituzionalità accentrato e non diffuso: il singolo giudice non può disapplicare una legge costituzionalmente illegittima, ma ove ravvisi (d’ufficio, o su istanza di parte) un profilo di contrasto fra la legge che deve applicare e la Costituzione, deve sospendere il processo, e sollecitare l’esame del profilo di costituzionalità alla Corte costituzionale.

Le condizioni perché il giudice possa sollevare una questione incidentale di legittimità costituzionale sono le seguenti:

  • La questione deve essere anzitutto rilevante: dall’applicazione di quella norma deve dipendere la decisione del giudizio. Il problema della rilevanza ha molte implicazioni, la più interessante delle quali è quella che riguarda il giudizio cautelare.

In tale giudizio si ha infatti una sorta di controllo diffuso di costituzionalità da parte del giudice a quo, almeno fino all’intervento della Corte costituzionale.

Il giudice infatti, considerata l’urgenza della richiesta cautelare, ove ritenga che la pretesa del ricorrente sia assistita da fumus boni iuris proprio in ragione della possibile illegittimità costituzionale della norma di legge attributiva del potere (o comunque, sulla base della quale – e in conformità alla quale – è stato emesso il provvedimento impugnato), accoglierà la domanda cautelare, rimettendo nel contempo alla Corte costituzionale la decisione definitiva della questione di legittimità costituzionale della legge.

Si potrebbe però obiettare che a quel punto il giudice ha già deciso (almeno in fase cautelare), e dunque che la questione non è più rilevante in quel giudizio.

In proposito la Corte costituzionale, nella sentenza n. 128 del 2010, ha affermato che “la questione deve ritenersi ammissibile sotto il profilo della sua proposizione all’esito della fase cautelare del giudizio a quo, avendo il T.a.r. emesso soltanto un provvedimento interinale e non essendosi, quindi, spogliato del potere di decidere definitivamente in detta sede (ex plurimis, sentenze n. 151 del 2009 e n. 161 del 2008)”.

Nella sentenza n. 69 del 2010 la Corte costituzionale, richiamando la propria giurisprudenza precedente, ha chiarito che “Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza costituzionale il requisito della rilevanza riguarda solo il momento genetico in cui il dubbio di costituzionalità viene sollevato, e non anche il lasso temporale successivo alla proposizione dell’incidente di costituzionalità. Di conseguenza, i fatti sopravvenuti non sono in grado di influire sul giudizio costituzionale (cfr., tra le molte, le sentenze n. 442 del 2008 e n. 288 del 2007, nonché l’ordinanza n. 110 del 2000)”.

Per quanto riguarda il possibile difetto di giurisdizione, sulla specifica lite da cui origina la questione, del giudice rimettente (ad esempio: giudice amministrativo davanti al quale sia stata proposta una causa che in realtà appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario), la Corte costituzionale, nella sentenza n. 81 del 2010 ha precisato che “la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che «la inammissibilità delle questioni incidentali di legittimità costituzionale, sotto il profilo della carenza di giurisdizione del giudice a quo, può verificarsi solo quando il difetto di giurisdizione emerga in modo macroscopico e manifesto, cioè ictu oculi» (ex multis, sentenze n. 156 del 2007 e n. 144 del 2005)”.

  • La questione deve essere inoltre “non manifestamente infondata”: non si richiede che il giudice a quo consideri la questione fondata (altrimenti si sostituirebbe al giudizio e al ruolo della Corte costituzionale), ma deve operare un filtro sul piano della delibazione di possibile, sommaria fondatezza della questione, per evitare di investire la Corte di questioni manifestamente infondate.

3.1.3.   A queste due condizioni, previste dalla legge (art. 23, comma 2, legge n. 87 del 1953), la giurisprudenza della Corte costituzionale ne ha, nel tempo, aggiunte altre.[7]

Si richiede, in primo luogo, che il giudice abbia esplorato la possibilità di una interpretazione adeguatrice, conforme al testo costituzionale, della disposizione censurata: l’ordinanza n. 98 del 2010 della Corte costituzionale ha in proposito chiarito che “le norme non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni conformi alla Costituzione, avendo dunque il giudice il dovere di adottare, tra più possibili esegesi di una disposizione, quella idonea a fugare ogni dubbio di legittimità costituzionale (ex plurimis, ordinanze n. 338 e n. 310 del 2009)”.[8]

Ad esempio nella sentenza n. 190 del 2010, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile una questione, in quanto “frutto della mancata ricostruzione sistematica del quadro normativo. Per effetto di tale omissione, il giudice a quo non ha preso in considerazione un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata (….)”.

Ma qual è il limite dello sforzo interpretativo che si richiede al giudice prima di sollevare la questione di costituzionalità? La Corte costituzionale lo ha ribadito nella sentenza n. 26 del 2010: “l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (sentenza n. 219 del 2008, punto 4 del Considerato in diritto)”.

L’obbligo di interpretazione conforme è però attenuato se il profilo di illegittimità costituzionale investa – quale norma interposta – la Convenzione E.D.U., attraverso il parametro di cui all’art. 117 della Costituzione: in tal caso, secondo la Corte costituzionale (si vedano in tal senso le sentenze n. 93 e n. 196 del 2010), il giudice rimettente non è tenuto a ricercare una interpretazione conforme alla Convenzione, dovendo questa essere valutata secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo.

3.1.4.   Inoltre, il giudice rimettente deve indicare con estrema precisione la disposizione di legge che ritiene costituzionalmente illegittima, le norme della Costituzione che ritiene violate, e le ragioni del contrasto.

Con la sentenza n. 58 del 2010 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania, in quanto “Il collegio rimettente (…..) non individua la norma censurata, ma si riferisce genericamente all’intera disciplina delle certificazioni e delle informative anti-mafia. Come già affermato da questa Corte, «non può il giudice rimettente indicare tutte le disposizioni del sistema o un grande settore dell’ordinamento giuridico, ma è tenuto a precisare le disposizioni che abbiano un effettivo e notevole grado di pertinenza con la norma sospettata di illegittimità. Ne deriva che l’indicazione di ampi settori normativi, senza detta precisazione, risulta inficiata da genericità ed eterogeneità tali da determinare l’inammissibilità della questione così sollevata» (sentenza n. 178 del 1995)”.

3.1.5.   Il giudice non deve poi utilizzare lo strumento della questione di legittimità costituzionale per sollecitare un avallo interpretativo della Corte costituzionale rispetto a quella che egli ritenga preferibile nell’ambito di una pluralità di interpretazioni possibili: questa affermazione è solitamente ribadita dalla Corte nelle ipotesi di riproposizione di questioni già rigettate o dichiarate inammissibili con precedenti pronunzie.

Per questa ragione la Corte costituzionale tradizionalmente non ammette davanti a sé la proposizione di questioni meramente interpretative (in tal senso la sentenza n. 197 del 2010): proprio perché il potere-dovere dell’interpretazione della norma è proprio del giudice a quo.

3.1.5.1.            Questa preclusione trova un limite nella dottrina del c.d. “diritto vivente”: quando si sia formato, in relazione all’interpretazione di una norma, un orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato in un certo senso, e il giudice ritenga incostituzionale tale orientamento, egli può sollevare la questione di legittimità costituzionale di tale norma, secondo il significato ad essa attribuito dalla giurisprudenza assolutamente dominante (giacché se si discostasse da tale orientamento, la sua decisione verrebbe sicuramente annullata nel successivo grado di giudizio: sicchè al giudice non rimane altra alternativa fra l’applicazione di una norma – nel senso conforme al diritto vivente – che egli reputa incostituzionale; e la redazione di una sentenza –  che ne fa un’applicazione costituzionalmente conforme – destinata all’annullamento).

Naturalmente l’esistenza di un diritto vivente è esclusa dalla presenza di un indirizzo giurisprudenziale, ancorché minoritario, difforme da quello dominante (sentenza n. 35 del 2010).

3.2.      Diversa è l’ipotesi di contrasto di una disposizione di legge con il diritto dell’Unione europea: in tal caso, qualora si tratti della violazione di una norma direttamente applicabile, al giudice è lasciata una duplice possibilità.

La prima è quella della disapplicazione della norma statale o regionale per contrasto con il diritto dell’U.E. se il contrasto è palese: ovvero la proposizione della questione interpretativa pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia dell’U.E.

La seconda è la proposizione di una questione di legittimità costituzionale della norma medesima, per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, per contrasto con norma interposta.

Al giudice si pone così l’alternativa se esercitare un sindacato diffuso di compatibilità comunitaria, ovvero sollecitare l’esercizio del sindacato accentrato di costituzionalità (per violazione della disposizione costituzionale che impone al legislatore interno il rispetto del diritto comunitario).

Questa seconda possibilità è la sola che residua al giudice, quando il contrasto sia fra una norma di legge interna, e una fonte U.E. non direttamente applicabile (Corte costituzionale, sentenza n. 227 del 2010, relativa al contrasto fra una legge statale, e la «Decisione quadro del Consiglio relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri»).

3.3.      La terza possibile ipotesi contemplata all’art. 117, primo comma della Costituzione , infine, è quella del contrasto fra la legge interna e gli obblighi internazionali assunti dallo Stato (diversi ed ulteriori rispetto all’adesione alla Comunità europea, ora Unione europea).

            Il problema si pone soprattutto con riguardo alla violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (C.E.D.U.)[9].

            Come recentemente ricordato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 93 del 2010, “A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008).

Nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice nazionale comune deve, quindi, preventivamente verificare la praticabilità di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica (sentenza n. 239 del 2009), e, ove tale soluzione risulti impercorribile (non potendo egli disapplicare la norma interna contrastante), deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro dianzi indicato.

A sua volta, nel procedere al relativo scrutinio, la Corte costituzionale, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte di Strasburgo, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione, come da quella Corte interpretata – norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato (sentenze n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007)”.

            La giurisprudenza amministrativa italiana aveva invero tentato, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, di proporre una diverso percorso, affermando la diretta applicabilità della C.E.D.U., al pari del diritto dell’U.E.: “a giudizio del Collegio la questione giuridica in esame appare destinata a nuovi e ancor più incisivi sviluppi a seguito dell’entrata in vigore, lo scorso 1° dicembre 2009, del Trattato di Lisbona firmato nella capitale portoghese il 13 dicembre 2007 dai rappresentanti dei 27 Stati membri, che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea. Infatti, fra le più rilevanti novità correlate all’entrata in vigore del Trattato, vi è l’adesione dell’Unione alla CEDU, con la modifica dell’art. 6 del Trattato che nella vecchia formulazione conteneva un riferimento “mediato” alla Carta dei diritti fondamentali, affermando che l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi del diritto comunitario. Nella nuova formulazione dell’art. 6, viceversa, secondo il comma 2 “l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” e, secondo il comma 3, “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell”uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU come principi interni al diritto dell’Unione, osserva il Collegio, ha immediate conseguenze di assoluto rilievo, in quanto le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, venendo in tal modo in rilevo l’ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha, infine, portato all’obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno.”[10]

            Questa posizione, oltre a trovare la netta opposizione della dottrina,[11] non è però condivisa dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che si è richiamata, né da successive decisioni della stessa giurisprudenza amministrativa.[12]

3.4.      Come si è visto, il giudice si trova di fronte almeno a tre diversi parametri di legittimità delle norme interne di rango primario: cui corrispondono tre diversi sistemi di prevalenza del contenuto della norma (costituzionale, europea, convenzionale) condizionante la validità della disposizione interna.

Considerata peraltro l’omogeneità dei contenuti, almeno in certe materie, della disciplina recata dalla Costituzione italiana, dalla C.E.D.U. e dal diritto dell’U.E. direttamente applicabile,[13] si ha che talora il giudice – rilevato il contrasto rispetto a più disposizioni formalmente distinte, ma contenutisticamente identiche –  può percorrere strade diverse.

Come già rilevato in altra sede, a proposito della specifica vicenda della disciplina italiana dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, “Il s’agit d’un nouveau cadre, dans le quel l’interprétation du juge national est « pressée » entre le cours internationales et les cours nationales (cours constitutionnels et cours de dernière instance)”.[14]

  1. Con riferimento all’ipotesi di contrasto fra la norma attributiva del potere (o sulla base della quale il potere è stato esercitato) e il parametro sopraordinato (Costituzione, o diritto dell’U.E.), è interessante verificare quale sia il regime dell’atto amministrativo sottostante, in relazione alle ricadute processuali del “seguito” delle pronunzie di incostituzionalità o di illegittimità comunitaria.

Il tipo di tutela riconosciuto nel processo amministrativo contro l’illegittimità (per violazione della Costituzione, o dell’U.E.) della legge, riverbera infatti i suoi effetti sul regime dell’atto amministrativo emanato in base a quella legge.

4.1.      Quanto al parametro di legittimità rilevante in ipotesi di caducazione della fonte per eventi successivi alla (ma con effetti che rimontano al momento della) emanazione dell’atto, il regime dell’atto amministrativo emanato in base ad una legge poi dichiarata incostituzionale è generalmente ricostruito dalla giurisprudenza sulla base dei princìpi affermati dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 8 aprile 1963, n. 8.

Nell’escludere che la declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma attributiva del potere comporti automaticamente l’inesistenza degli atti amministrativi emanati sulla base della norma medesima, l’Adunanza Plenaria ha in quella occasione affermato che “l’incostituzionalità della legge, e l’illegittimità dell’atto amministrativo emanato in base alla legge, sono situazioni reciprocamente autonome, anche se la seconda è influenzata di riflesso dalla prima. La soluzione deve essere quindi ricercata esclusivamente nel settore amministrativo, tenendo presente bensì la dichiarazione d’incostituzionalità della legge, ma avendo del pari presente che l’atto amministrativo continua a vivere di vita autonoma, finché non sia rimosso con uno degli strumenti a ciò idonei, e che persiste quindi l’interesse di chi ne ha già chiesto l’annullamento ad ottenerlo”.[15]

Il vizio  –  definito dall’Adunanza Plenaria come “vizio riflesso, derivante dalla incostituzionalità della legge” – che colpisce l’atto è sempre, dunque, un vizio che ne determina la illegittimità-annullabilità

Si noti che il caso deciso dall’Adunanza Plenaria aveva riguardo alla “ipotesi in cui il provvedimento amministrativo sia travolto dalla pronuncia d’incostituzionalità della norma attributiva del potere discrezionale dell’amministrazione”[16]: laddove per la diversa ipotesi di incostituzionalità della norma regolante l’esercizio del potere non si faceva comunque questione di nullità od inesistenza.

Dunque, secondo la giurisprudenza amministrativa, la caducazione della norma per incostituzionalità non produce mai inesistenza degli atti amministrativi emanati in base ad essa: sia questa attributiva del potere di provvedere, ovvero regolante le modalità di esercizio della potestà discrezionale.

Anche i più recenti arresti giurisprudenziali, si preoccupano semmai di trarre le conseguenze di siffatta ricostruzione sul piano diacronico, rilevando come l’incostituzionalità della norma “non focalizza una vera e propria ipotesi di invalidità sopravvenuta, in quanto il vizio dell’atto non sopravviene alla sua emanazione, ma è coevo alla stessa, e ciò tenuto conto del già segnalato effetto retroattivo della declaratoria di illegittimità costituzionale”[17].

La Corte costituzionale, in un recente giudizio per conflitto di attribuzioni promosso contro un decreto ministeriale emanato in base ad una legge successivamente dichiarata incostituzionale, ha affermato che “Non può negarsi, dunque, che il decreto ministeriale oggetto della presente controversia sia in patente contrasto con la citata sentenza n. 104 del 2008 e che, con la sopravvenuta caducazione per illegittimità costituzionale della norma legislativa di base, sia venuta meno anche la legittimità del decreto ministeriale che quella norma prevedeva” (Corte costituzionale, sentenza n. 329 del 2008).

Anche nella fattispecie scrutinata dalla Corte la disposizione precedentemente dichiarata incostituzionale era attributiva del potere di emanare il decreto, venendo dunque in contestazione la stessa esistenza di detto decreto ministeriale (in relazione alla ritenuta inesistenza di un corrispondente potere ministeriale).

Non deve però trarre in inganno la richiamata argomentazione, costituente il principale passaggio motivatorio della pronuncia, nella parte in cui sembra inferire dalla precedente pronuncia di incostituzionalità un automatico effetto invalidante sull’atto amministrativo.

Va pur sempre rilevato, infatti, che nella fattispecie predetta la parte che lamenta l’illegittimità del decreto ministeriale lo ha impugnato per giudizio di attribuzione, deducendo come vizio – tra l’altro – l’incostituzionalità della norma attributiva: tanto che la citata sentenza della Corte si chiude con una pronuncia di annullamento dell’atto impugnato.

Parte della dottrina perviene invece a conclusioni parzialmente diverse nell’ipotesi di mancata conversione del decreto-legge al quale il provvedimento risulti conforme (o sulla base del quale sia stato emanato): se la norma non convertita è attributiva del potere, si ritiene che la mancata conversione produca l’effetto di rendere inesistente o comunque inefficace il provvedimento; se invece è norma che disciplina l’esercizio del potere, la conseguenza sarà, come di consueto, l’illegittimità-annullabilità del provvedimento.[18]

Sul punto in giurisprudenza si sono riscontrate, in passato, prese di posizione di segno opposto.[19]

In atto appare tuttavia prevalente l’indirizzo per cui “la decadenza, per mancata conversione, di un decreto legge, ai sensi dell’art. 76, comma 3, della Costituzione, non produce effetti caducanti sugli atti amministrativi adottati nel periodo di sua vigenza, bensì, ed esclusivamente, effetti vizianti (cfr. C.d.S., sez. 19 maggio 1998, n. 633; C.d.S., sez. IV, 29 dicembre 1998, n. 1605; C.d.S., sez. VI, 27 gennaio 1997, n. 118). Ne discende che, sebbene ai sensi della richiamata norma costituzionale i decreti legge non convertiti “perdono efficacia sin dall’inizio”, gli atti amministrativi adottati sotto la vigenza della fonte primaria decaduta divengono illegittimi e, pertanto, devono essere rimossi attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione ovvero, sussistendone i presupposti, per mezzo dell’esercizio dell’autotutela. Del resto, analoghi principi sono dalla giurisprudenza enunciati con riferimento alle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale, laddove l’effetto retroattivo delle pronunce della Consulta non determina l’automatica caducazione degli atti amministrativi adottati sotto la vigenza della norma incostituzionale (cfr. C.d.S., sez. VI, 9 giugno 2006, n. 3458)”[20].

Del tutto peculiare, e di non agevole soluzione, appare poi la problematica inerente la sorte degli atti amministrativi nella fattispecie di pronuncia di incostituzionalità che investa il provvedimento legislativo di sanatoria di un decreto-legge non convertito.[21]

4.2.      Per quanto riguarda, invece, il regime dell’atto amministrativo contrario al diritto dell’U.E., la giurisprudenza amministrativa italiana è costante nel ribadire che esso è soggetto al medesimo regime di annullabilità previsto per la violazione di norme interne: “questo contrasto dia luogo ad un vizio di legittimità dell’atto, cioè alla sua annullabilità, e non alla sua radicale nullità. Va rammentato infatti il consolidato orientamento per cui la violazione del diritto comunitario implica solo un vizio di legittimità, con conseguente annullabilità dell’atto amministrativo. L’art. 21-septies l. 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15, ha codificato in numero chiuso le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, e non vi rientra la violazione del diritto comunitario (Cons. Stato, VI, 22 novembre 2006, n. 6831; 31 maggio 2008, n. 2623). Vero è che qui si tratta di norma sopravvenuta, ma il suo carattere è ricognitivo; e comunque la nullità è già da prima ritenuta configurabile nella sola ipotesi – che nella specie non sussiste – in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna attributiva del potere che sia incompatibile con il diritto comunitario (Cons. Stato, V, 10 gennaio 2003, n. 35; IV, 21 febbraio 2005, n. 579; VI, 20 maggio 2005, n. 2566; V, 19 maggio 2009, n. 3072). Da tanto consegue: a) (sul piano processuale) l’onere dell’impugnazione del provvedimento contrastante con il diritto comunitario, dinanzi al giudice amministrativo entro il termine di decadenza, pena la inoppugnabilità; b) (sul piano sostanziale) l’obbligo per l’Amministrazione di dar corso all’applicazione dell’atto, salva l’autotutela (Cons. Stato, V, 8 settembre 2008, n. 4263)”[22].

  1. Completamente diverso è, nel diritto italiano, il caso della difformità di un atto amministrativo rispetto ad una fonte regolamentare.

I regolamenti, secondo la tradizionale classificazione, sono atti oggettivamente normativi, in quanto il loro contenuto è quello di fonti (sia pure di rango secondario, in quanto subordinate alla legge) del diritto; ma sono altresì atti soggettivamente amministrativi, perché vengono emanati dalle pubbliche amministrazioni.

In relazione al profilo del sindacato della legittimità dei regolamenti, l’aspetto soggettivo ha prevalso su quello oggettivo: è il giudice degli atti amministrativi (il giudice amministrativo), e non il giudice della funzione normativa (la Corte costituzionale) ad esercitare tale sindacato.

Invero autorevole dottrina aveva proposto l’opposta opzione, sul presupposto della valorizzazione del contenuto normativo dei regolamenti.[23]

Una volta esclusa tale soluzione, ed individuata nella giurisdizione amministrativa – in ragione del profilo soggettivo dell’atto che, pur avendo natura di fonte secondaria del diritto, promana comunque da una pubblica amministrazione  –  la sede ove esercitare tale sindacato, la conseguenza evidente era la necessità di impugnare il regolamento nei termini decadenziali previsti dalla disciplina del processo amministrativo.[24]

La giurisprudenza ha però consentito la disapplicazione dei regolamenti, ancorché non ritualmente impugnati unitamente all’atto applicativo ritenuto lesivo, per garantire il rispetto della gerarchia delle fonti (trattandosi di atti aventi natura normativa, pur se emanati da un’autorità amministrativa), nelle ipotesi in cui non fossero presenti i segnalati fattori ostativi di natura processuale: nella giurisdizione esclusiva, quando si facesse questione non dell’impugnazione di un atto (soggetta ad un termine di decadenza), ma della tutela di un diritto.[25]

Questa apertura giurisprudenziale ha riguardato sia l’ipotesi di provvedimento emanato in contrasto con il regolamento,[26] sia l’opposta fattispecie di conformità del provvedimento al regolamento illegittimo (Cons. St., V, n. 799/1993, in Foro amm., 1994, p. 80).

La giurisprudenza ha tuttavia avuto modo di specificare che in questo secondo caso non viene tanto in considerazione la disapplicazione del regolamento, quanto la sua invalidazione (Cons. St., IV, n. 222/1996, in Foro amm., 1996, p. 488): la differenza risiederebbe nella diversa relazione (di presupposizione, e non di pregiudizialità) che in tale fattispecie lega il provvedimento amministrativo al regolamento, nel senso che l’invalidazione dell’atto presupposto consiste nell’accertare la trasmissione del vizio dall’atto presupposto all’atto applicativo, mentre la disapplicazione dell’atto pregiudiziale consiste nel considerare l’atto pregiudiziale tamquam non esset, senza alcuna trasmissione di vizi.

Sotto altro profilo, si è invece rilevato come un problema di disapplicazione non si pone nell’ipotesi di impugnazione di un provvedimento amministrativo conforme ad un regolamento illegittimo (non impugnato) per contrasto con una norma di rango primario successiva: in tal caso, infatti, la non applicazione del regolamento consegue alla sua abrogazione da parte della norma primaria confliggente, mentre la valutazione di illegittimità del provvedimento impugnato viene imputata direttamente alla relazione fra tale provvedimento ed il parametro normativo primario violato, dal momento che il regolamento “è venuto meno per la vis abrogans della legge”[27].

  1. Mi sia consentita, in conclusione, una considerazione che mi viene stimolata dal clima in cui si svolge questa discussione: un assise internazionale di giudici amministrativi che si sforzano di comprendere come – e perché – il medesimo problema possa trovare soluzioni processuali diverse nei rispettivi ordinamenti.

E’ proprio l’occasione di questo incontro, così estraneo a logiche diverse da quella della comune riflessione su uno dei momenti centrali dell’attività giurisdizionale, che mi induce a deviare sia pure per un momento dal rigoroso esame di profili giuridici, per riflettere sul senso del nostro impegno culturale ed intellettuale.

 Ogni segnale normativo che giunge dall’Europa (si tratti di fonti direttamente applicabili, ovvero di soft law: il cui valore politico e simbolico, come le Associazioni europee dei giudici hanno sempre percepito,  è tuttavia talora superiore alle prime) non va né enfatizzato, né pregiudizialmente rifiutato, ma calato nel sistema ordinamentale proprio di ogni singolo paese.

Il diritto europeo, o il sistema della C.E.D.U., vanno presi per quelli che sono: degli importanti momenti di evoluzione giuridica continentale, e non degli inutili fattori di complicazione di cose semplici, cavalcati come tali spesso più per finalità emozionali che per reali convinzioni giuridiche (e senza un adeguato rigore del metodo).

Al giudice, al giudice che abbia a cuore soltanto il corretto ed efficace esercizio della giurisdizione e non la promozione di se stesso e delle proprie presunte qualità o capacità innovative, tutto ciò non interessa.

Al giudice, al giudice privo di complessi che non deve dimostrare nulla, interessa viceversa depurare l’indagine dai falsi problemi e dagli pseudo-problemi, per affrontare le novità normative con gli strumenti concettuali che un saldo metodo esegetico da sempre gli offre.

Troppo spesso le opinioni critiche rispetto all’impatto negli ordinamenti interni del diritto dell’U.E. o della C.E.D.U., della critica contengono tutto tranne l’etimo, cioè il giudizio: non considerano che, per essere davvero efficace, l’innesto di queste fonti deve essere operato secondo i princìpi.

La storia, come insegna Berlin, non è un susseguirsi geometrico di eventi, la risultante dell’applicazione meccanica di leggi, filosofiche e non: ma è un cammino complesso, in cui il ruolo degli individui è quello di contribuire ad individuare un non facile equilibrio fra tradizione e innovazione.

 Il rigore che deve guidare l’interprete – non lo dico per piaggeria verso la Germania che oggi ci ospita, ma per convinzione intima –  deve essere quello di ricercare, come Hegel, un metodo ordinato in cui sviluppare ogni nuova conquista in “in un grande sistema unitario”,[28] senza svilirne il senso in speculazioni atomistiche di nessuna utilità.

Il confronto fra l’attività del giudice e la teoria delle fonti, nel rinnovato quadro istituzionale e politico dell’Europa attuale, è tema quanto mai indicato per verificare la tenuta delle categorie.

Credo che l’utilità di questi incontri, il taglio che ad essi viene impresso, ma soprattutto lo spirito di riflessione costruttiva e libera da ogni condizionamento (palese od occulto) che li caratterizza, siano il modo migliore per curare una efficace risposta della giurisdizione ai tanti problemi posti dall’evoluzione normativa anche internazionale.

Tutti noi qui presenti siamo evidentemente animati da una forte vocazione europeista; ma siamo al tempo stesso spinti da una altrettanto significativa apertura al confronto, senza pregiudizi, fra soluzioni ordinamentali diverse: un confronto che produce in ciascuno differenti convinzioni, filtrate dalla sensibilità culturale ed intellettuale che è propria di ognuno, senza alcun condizionamento.

E’ per me motivo di grande soddisfazione contribuire a questo dibattito: per questo ringrazio molto l’AGATIF che mi ha inviato a tenere questa relazione, e ancora di più i colleghi ed amici che hanno avuto la pazienza di ascoltarmi.

[1] Bozza provvisoria della relazione svolta il 27 maggio 2011 a Bad Staffelstein, in occasione dell’incontro di studi organizzato dall’Associazione dei giudici amministrativi tedeschi, italiani e francesi (AGATIF).

[2] I. Berlin, Political Ideas in the Romantic age, trad. It., Bompiani, 2009, p. 380.

[3] V. Crisafulli, I principi costituzionali dell’interpretazione ed applicazione delle leggi, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, vol. I. Padova, 1940, p. 671.

[4] Sui profili di diritto europeo dei limiti alla rilevabilità d’ufficio di questioni di illegittimità, si veda M. Eliantonio, Europeanisation of Administrative Justice?, Amsterdam, Europa Law Publishing, 2009, in specie cap. 3, The Duty of National Court sto Raise ex Officio Points of EC Law.

[5] In argomento sia consentito il rinvio a G. Tulumello, Brevi note su abuso del diritto e processo amministrativo, in Giurisprudenza di merito, 2007

[6] Sull’importanza di tale disposizione si veda G. della Cananea, La “lingua dei diritti” nel dialogo tra le Corti nazionali ed europee, in Dir. Amm., 2010, 97: “Nell’annoverare tra le fonti dei vincoli alle leggi statali e regionali , oltre all’ordinamento comunitario, anche gli ‘obblighi internazionali’, fornisce un più saldo fondamento alla tesi che il rispetto di un trattato non possa essere subordinato all’ultima leggina. L’avallo dato dalla Corte costituzionale a questa tesi, qualunque ne sia la più esatta formulazione in punto di teoria delle fonti, è cruciale per il definitivo riconoscimento del rilievo costituzionale del due process of law”.

[7] In generali, sui limiti posti all’attività interpretativa del giudice dalle sentenze della Corte costituzionale, in relazione al “seguito” delle pronunce, si veda l’accurata analisi di M. Bignami, Il seguito asimmetrico delle pronunce della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2008, 807 e ss.

[8] In dottrina, F. Modugno, Sul problema dell’interpretazione conforme a costituzione: un breve excursus, in Giur. It., 2010, p. 1961; M. Raveraira, Le critiche all’interpretazione conforme: dalla teoria alla prassi un’incidentalità “accidentata”?, ivi, p. 1968.

[9] Sui principali profili d’interesse per la giustizia amministrativa, F. Manganaro, Il potere amministrativo nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Dir. proc. amm., 2010, 428.

[10] T.A.R. Lazio, Roma, sentenza 18 maggio 2010 n. 11984: “

Nello stesso senso  Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2 marzo 2010 n. 1220: “la Sezione deve fare applicazione dei principi sulla effettività della tutela giurisdizionale, desumibili dall’articolo 24 della Costituzione e dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (divenuti direttamente applicabili nel sistema nazionale, a seguito della modifica dell’art. 6 del Trattato, disposta dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009)”.

[11] A. Celotto, Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano? (in margine alla sentenza n.1220/2010 del Consiglio di Stato), in www.giustamm.it: “Il Trattato Unione Europea, per come modificato dal Trattato di Lisbona, consente – superando la tradizionale querelle (cfr. CGCE 28 marzo 1996, parere 2/94) – l’adesione dell’Unione alla CEDU. Non solo tale adesione deve ancora avvenire, secondo le procedure del protocollo n. 8 annesso al Trattato, ma soprattutto non comporterà l’equiparazione della CEDU al diritto comunitario, bensì – semplicemente – una loro utilizzabilità quali “principi generali” del diritto dell’Unione al pari delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Si tratta di una formula non certo dissimile da quella originaria del Trattato sull’Unione europea (approvata nel 1992) “L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario”. Ad avviso di chi scrive, quindi, il Trattato di Lisbona nulla ha modificato circa la (non) diretta applicabilità nell’ordinamento italiano della CEDU che resta, per l’Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale, secondo quanto già riconosciuto dalla Corte costituzionale”.

Nello stesso senso F. Lisena, L’Unione europea “aderisce” alla CEDU: quando le parole non bastano a “fare cose”, in www.giustamm.it.

[12] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 15 giugno 2010 n. 3760: “al giudice nazionale spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle fonti normative. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, egli dovrà investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, co. 1”.

[13] U. De Siervo, I diritti fondamentali europei e i diritti costituzionali italiani, in Diritti e Costituzione nell’Unione europea, a cura di G. Zagrebelsky, Laterza, 2003, pp. 258 e ss.

[14] A. Evrard – G. Tulumello, La motivation des actes administratifs comme garantie du droit à une bonne administration dans la Charte des Droits Fondamentaux, in www.giustamm.it.

Sullo stesso problema M. Bignami, L’interpretazione del giudice comune nella “morsa” delle corti sovranazionali, in Giur. Cost., 2008, 595 e ss.

[15] Consiglio di Stato, A.P., decisione 8 aprile 1963, n. 8, in AA.VV., Le grandi decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 2001, 355, con nota di A. Patroni Griffi,  L’annullamento dell’atto amministrativo per incostituzionalità della norma attributiva del potere.

Nello stesso senso, più di recente, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, sentenza 8 novembre 2006, n. 12133.

La rilevanza pratica della questione potrebbe ora accrescersi per effetto della recente giurisprudenza costituzionale sul controllo dei presupposti della decretazione d’urgenza (Corte costituzionale, sentenze n. 171/2007 e 128/2008), che di fatto amplia lo spettro del controllo di costituzionalità sui decreti-legge, incrementando così la possibilità che tale categoria di fonti (in quanto parametro di legittimità di atti amministrativi) possa subìre gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale [in argomento, A. Celotto, C’è sempre una prima volta … (La Corte costituzionale annulla un decreto-legge per mancanza dei presupposti); Id., La “seconda rondine”: ormai c’è un giudice per i presupposti del decreto-legge, entrambi in www.giustamm.it ].

[16] A. Patroni Griffi, L’annullamento dell’atto amministrativo per incostituzionalità della norma attributiva del potere, cit., p. 364.

[17] T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza 12 novembre 2007 n. 1721, ove le seguenti, ulteriori considerazioni: ““In sintesi, la norma di legge dichiarata incostituzionale, è cancellata dall’ordinamento sin dalla sua emanazione, di talché ove essa disciplinava il potere posto a base dell’atto amministrativo, ed esercitato in concreto dall’Autorità emanante, detto esercizio non può più essere considerato conforme a legge dopo la pronuncia della Corte costituzionale”. (….) “La illegittimità conseguente a pronuncia di incostituzionalità, ( . . . ) deve essere verificata alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale consolidato, secondo cui la retroattività della declaratoria di illegittimità costituzionale si arresta dinanzi ai c.d. rapporti esauriti”.

[18]  F. Sorrentino, Le fonti del diritto, II ed., Genova, 1997, 78.

Circa la decorrenza temporale degli effetti di un decreto-legge, quale parametro di legittimità di atti amministrativi,.v. A. Celotto, Da quando decorrono gli effetti del decreto-legge? (in margine all’art. 40-bis della legge di conversione del c.d. decreto Bersani), in www.giustamm.it

[19]  T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 28 settembre 1989, n. 530, in Dir. Proc. Amm.vo, 1990 308 abbraccia la tesi della inesistenza, mentre Cons. di Stato, VI, 13 febbraio 1997, n. 272, in Giur. It., 1997, III, 1, 375., aderisce invece alla tesi della illegittimità-annullabilità.

[20] T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza 7 dicembre 2007 n. 1959.

[21] In argomento, F. Modugno – A. Celotto, Dichiarazione di illegittimità costituzionale della “sanatoria” di decreti-legge non convertiti ed effetti sugli atti conseguenzialmente adottati (in particolare sugli atti amministrativi), nota a Corte cost., 18 novembre 2000, n. 507, in Giur it., 10/2001, 1781.

[22] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 31 marzo 2011 , n. 1983.

[23] C. Mortati, Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità, Milano, 1964.

[24] Sia consentito sul punto il rinvio a G. Tulumello, voce Disapplicazione, in Dizionario di diritto pubblico, vol. III, Milano, 2006, p. 1987.

[25] Requisito ribadito, dopo un’oscillazione giurisprudenziale, da Cons. St., V, n. 367/2004, in Urb. app., 2004, p. 697 ss.

Dai superiori, e finora incontroversi, presupposti per la disapplicabilità dell’atto regolamentare sembra discostarsi una decisione che ha affermato la disapplicabilità di una norma regolamentare comunale disciplinante le ubicazioni degli impianti di telefonia mobile, nel giudizio in cui si è impugnato il diniego di rilascio del permesso di costruire. per l’installazione di un impianto di telefonia mobile, senza peraltro indagare la natura della situazione giuridica soggettiva azionata: Consiglio di Stato, sez. VI, decisione 3 ottobre 2007, n. 5098, ove l’affermazione per cui  “Si tratta, in particolare, di un atto avente natura di regolamento, che, come tale, può essere certamente disapplicato dal Giudice amministrativo che lo ritenga illegittimo, anche in assenza di una specifica impugnazione. Ormai da tempo, infatti, questo Consiglio (v, fra le tante, Consiglio Stato, sez. VI, 12 aprile 2000, n. 2183), ammette che il Giudice amministrativo, in applicazione del principio della gerarchia delle fonti, possa valutare direttamente, attraverso lo strumento della disapplicazione del regolamento, il contrasto tra provvedimento e legge, eventualmente annullando il provvedimento a prescindere dell’impugnazione congiunta del regolamento”.

Sicché,  a meno che si tratti di mera svista che non altera i tratti del noto e ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, deve ritenersi che, nell’ottica di tale decisione, la pretesa all’installazione di un impianto di telefonia mobile debba essere qualificata in termini di diritto soggettivo.

[26]  Cons. St., V, n. 154/1992, in Giur. It., 1993, III, c. 653 ss., con nota di E. Cannada Bartoli, Disapplicazione d’ufficio di norma regolamentare illegittima.

[27] G. Morbidelli, La disapplicazione dei regolamenti nella giurisdizione amministrativa, in Impugnazione e “disapplicazione” dei regolamenti, Atti del convegno organizzato dal Consiglio di Stato e dall’Associazione studiosi del processo amministrativo il 16 maggio 1997, Torino, Giappichelli, 1998, p. 64.

[28] I. Berlin, Political Ideas in the Romantic age, cit., p. 361.