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Relazione italiana dell’avv. Giovanni Spadea – Trento – 3/10/2008

L’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in Italia

Il tema del convegno è molto importante per la civiltà giuridica e per la vera democrazia negli Stati europei, che nel sottoscrivere la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ben sapevano che, ai sensi dell’art.1 della Convenzione stessa, avevano preso l’impegno di rispettarla e di non violarla, accettando al contempo la giurisdizione della Corte.

Si tratta di obblighi convenzionali che –come ritenuto nella risalente decisione CEDU del 11.01.1961 dell’Austria c. Italia– sono privi del carattere classico della reciprocità ed hanno, invece, natura di obbligazioni essenzialmente oggettive, come si deduce dalle premesse della Convenzione, nelle quali è, fra l’altro, scritto che  le libertà fondamentali “costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo” e che gli Stati europei sono “forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, a prendere le prime misure adatte ad assicurare la garanzia collettiva di certi diritti enunciati nella Dichiarazione Universale” dei diritti dell’uomo.

Mi pare, quindi, evidente che il tema si incentri sul raggiungimento dell’effettiva tutela delle libertà e dei diritti tutelati dalla Convenzione anche nella fase successiva alla tutela giudiziale interna, considerata la disciplina dell’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (che citerò con sigla CEDU) mediante le regole poste dall’art. 46 della vigente Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il quale contiene le seguenti letterali disposizioni: “1. Le Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte per le controversie di cui sono parti.

  1. 2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione.
  2. Ove il Comitato dei Ministri ritenga che la sorveglianza di una sentenza definitiva è intralciata dalla difficoltà d’intepretare tale sentenza, esso può investire la Corte affinché si pronunzi su tale questione d’interpretazione. La decisione di investire la Corte è presa con voto a maggioranza di due terzi dei rappresentanti aventi diritto ad un seggio nel Comitato.
  3. Ove il Comitato dei Ministri ritenga che un’Alta Parte contraente rifiuti di attenersi ad una sentenza definitiva in una controversia di cui è parte, esso può, dopo aver messo in mora questa Parte e mediante una decisione adottata con un voto a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti aventi diritto ad un seggio nel Comitato, investire la Corte della questione dell’osservanza di questa Parte degli obblighi relativi al paragrafo 1.
  4. Se la Corte accerta una violazione del paragrafo 1, essa rinvia il caso al Comitato dei Ministri affinché esamini i provvedimenti da adottare. Qualora la Corte accerti che non vi è stata violazione del paragrafo 1, essa rinvia il caso al Comitato dei Ministri, il quale decide di porre fine al suo esame”.

L’articolo 46 riportato, che riproduce anche due precedenti disposizioni della convenzione, è stato ancora di recente così modificato dall’art. 16 del Protocollo 14 che è stato ratificato dalla Repubblica Italiana il 07.03.2006, in seguito alla Legge 15.12.2005, n. 280.

 Con il nuovo attuale testo dell’art. 46 si parla di conformazione e non di immediata esecutività della sentenza CEDU, mentre la forza esecutiva della sentenza della Corte di Giustizia U.E. è testualmente dichiarata dagli artt. 244 e 256 del Trattato U.E..

 Con esso si è voluto, onde rinforzare la garanzia della tutela stabilita dalla Convenzione, far superare al Comitato dei Ministri sia le difficoltà interpretative influenti sull’esecuzione della sentenza di condanna dello Stato membro convenuto sia il rifiuto dello Stato membro di conformarsi alle sentenze della Corte che vengono trasmesse al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, cui risulta assegnata la funzione di sorveglianza sull’esecuzione di esse; sorveglianza da intendere non già poliziesca bensì di aiuto e di stimolazione alla corretta ed effettiva esecuzione della sentenza CEDU, la quale di norma accerta e dichiara che un provvedimento giudiziario dello Stato membro ha violato un diritto tutelato dalla convenzione.

Come si può subito notare, la disposizione del riportato primo paragrafo dell’art. 46 si dirige direttamente agli Stati che hanno sottoscritto ( stipulato ) la Convenzione, contraendo essi anche l’impegno di conformarsi alle sentenze della Corte, attività conformativa necessaria ed effettiva sulla quale esercita la sorveglianza –come prevede il secondo paragrafo- il Comitato dei Ministri.

 A tal proposito occorre (anzitutto) precisare che il suddetto primo paragrafo dell’art. 46 fa chiaro ed espresso riferimento soltanto alle sentenze definitive della Corte, cioè a quelle che l’art. 44 della Convenzione individua come sentenze definitive ed alle quali lo Stato condannato deve –per suo obbligo oggettivo- dare esecuzione.

E’ pure necessario ricordare che la sentenza della Corte di norma non è di tipo annullatorio-cassatorio, bensì di natura essenzialmente accertativa-dichiarativa (cfr. CEDU sentenza 13.06.1979 caso Marckx / Belgio) della violazione della convenzione da parte dello Stato membro che è la normale parte resistente o il soggetto contro cui è rivolto il ricorso e quindi contro il quale è pronunciata la sentenza: in breve, proprio questa peculiare natura della sentenza –anche quando accorda al ricorrente un’equa soddisfazione in seguito alla dichiarata violazione della convenzione (cfr. l’art.41 Conv.)– rende ben evidente l’insorgenza del problema costituito dall’esatta esecuzione della sentenza della CEDU. Infatti la Corte, quando accoglie il ricorso, dichiara nel dispositivo che vi è stata violazione della convenzione come risulta dall’art.41 Conv. che prevede testualmente: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli …” può accordare alla parte lesa un’equa soddisfazione in mancanza di perfetta rimozione degli effetti della accertata violazione da parte dello Stato membro.

Si comprende, dunque, anche di più il significato del primo paragrafo dell’art. 46 laddove viene usata la locuzione “impegno a conformarsi alla sentenza definitiva” da parte dello Stato membro quale unico soggetto onerato dell’ esatta ottemperanza alla sentenza, ponendo in essere ogni attività che sia di integrale salvaguardia e ripristino della posizione giuridica del ricorrente ritenuta dalla CEDU ingiustamente violata. In sostanza l’obbligo di conformazione a quanto ritenuto giusto e necessario dalla Corte nella sua sentenza deve ritenersi che, all’evidenza, comprenda la tendenziale eliminazione totale degli effetti della violazione dichiarata dalla Corte possibilmente mediante restitutio in integrum ed anche mediante equa soddisfazione nonchè attraverso l’adozione di misure di carattere generale, e talvolta anche individuale, idonee a prevenire le stesse oppure analoghe violazioni; attività conformativa che resta sempre sorvegliata ed aiutata dal Comitato dei Ministri.

Con molta amarezza occorre notare che, per quanto riguarda l’Italia, non sempre si è avuta una conformazione sollecita o priva di resistenze di vario genere, essendosi talvolta avuta addirittura l’inesecuzione (cfr. il caso Dorigo) in ogni campo del diritto (penale, civile ed amministrativo) specialmente – ma non solo – quando la sentenza della CEDU ha dichiarato una violazione consumata con una sentenza interna divenuta giudicato, cioè da ritenere, in via di principio, irremovibile.

Ma è ben noto che quest’ultima –cioè il giudicato interno- è la situazione normale, poiché il ricorso alla CEDU segue all’esaurimento delle vie di ricorso interne e richiede pure tempo per presentarlo e farlo decidere.

La ragione di questo comportamento italiano di permanente non puntuale ottemperanza all’impegno conformativo contratto con la convenzione sta, oltre che in un passato di diffusa dimenticanza, oggi in una culla di inerzia e specialmente nel fatto che –non essendo la sentenza CEDU ritenuta direttamente applicabile nello Stato italiano pur avendo essa carattere vincolante per gli Stati aderenti- manca nell’ordinamento giuridico italiano un meccanismo legislativo generale idoneo a far riaprire i giudicati interni formatisi sulle sentenze nazionali che dalla sentenza della CEDU sono state poi dichiarate in contrasto con qualche disposizione della convenzione europea.

In verità, questa situazione legislativa di inerzia, a parte le incertezze della giurisprudenza interna sul valore della convenzione (disapplicazione o interpretazione adeguatrice della norma interna, sentenze n.388/1999 e n.10/1993 della Corte Costituzionale) e sull’efficacia della sentenza CEDU, oggi mi pare che si sia ancor più aggravata soprattutto a seguito della sentenza n.129 del 2008 della Corte Costituzionale, che, a proposito del caso Dorigo, ha deciso –ovviamente rigettando la questione d’incostituzionalità dell’art. 630, c.1, lett. a) c.p.p.- l’impossibilità di far ritenere la sentenza della CEDU quale fatto idoneo per la revisione del giudicato penale, sentenza che estende (cfr. il n. 5) la stessa ragione contraria alla “complessa tematica dei rimedi “revocatori“…nel settore del processo civile” e che, per ulteriore conseguenza, a mio parere, vale pure nel processo amministrativo.

In sintesi, è rimasto, dunque, disatteso anche l’auspicio contenuto nella raccomandazione n.1684 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e nella risposta adottata dal Comitato dei Ministri ove ben risulta fino al 2005 un “persistente mancato rispetto, da parte dell’Italia, delle proprie decisioni e risoluzioni nel caso Dorigo” nonché l’inesistenza nell’ordinamento italiano di un meccanismo di legge “che permetta la riapertura di procedimenti quando la Corte Europea abbia accertato una violazione della Convenzione”.

Insomma, si può ritenere che, a parte alcuni interventi legislativi ed amministrativi (quali ad es.: la nuova disciplina della contumacia nel processo penale; la legge n.12/06 che assegna al Capo del Governo il dovere e la responsabilità di promuovere gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo; la modifica del casellario giudiziale penale che adesso deve contenere anche la menzione delle pronunce della CEDU; il decreto 01.02.2007 del Presidente del Consiglio dei Ministri che contiene misure per dare esecuzione alla citata legge n.12/06 relativa all’attuazione delle pronunce della CEDU), l’Italia non ha ancora risolto, in via legislativa generale (e men che meno in via di consolidata ed unanime giurisprudenza), il problema fondamentale della riapertura dei procedimenti interni già definiti in sede nazionale in violazione delle norme convenzionali e neppure ha trovato un qualsivoglia altro specifico rimedio idoneo a por fine alla violazione accertata dalla CEDU, specialmente nel campo penale in presenza di detenzione. Infatti, il disegno di legge “(S 1797 del 18.09.07) recante disposizioni in materia di revisione del processo a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo” – che avrebbe tutavia risolto soltanto il problema della revisione del giudicato penale – non è stato fino ad oggi approvato dal Parlamento.

Devo aggiungere che, come aveva auspicato il Comitato dei Ministri nel succitato documento, è venuta meno anche l’apertura della giurisprudenza nazionale comune verso il riconoscimento in Italia dell’efficacia diretta della Convenzione come interpretata dalla Corte Europea: infatti, la tesi più aperta sia della giurisprudenza comune sull’efficacia diretta della convenzione e sia della Corte di Cassazione penale (sentenza n.2800/07) sull’ineseguibilità del giudicato penale interno dichiarato dalla sentenza della CEDU in violazione della convenzione parrebbe ormai in contrasto con le recenti sentenze nn.348 e 349/07 della Corte Costituzionale che ha espresso l’autorevole decisione contraria nel senso che le sentenze della CEDU –diversamente da quelle pronunciate dalla Corte di giustizia dell’U.E.- non producono effetti diretti nell’ordinamento interno degli Stati membri e neanche sono reputabili fatto idoneo per la revisione del giudicato (sent. n.129/08 stessa Corte).

Per di più, sembra lontana la data di introduzione nell’Unione Europea del Trattato di Lisbona, il cui articolo 6, comma 3, prevede: “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

In base a tale disposizione, divenendo i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione diritto dell’Unione Europea, i giudici nazionali sono, senza dubbio, tenuti ad applicare direttamente le norme della Convenzione, ed anche ad attribuire effetti diretti alla sentenza della Corte a’sensi dell’art.117 Costituzione, per cui resta da augurarsi, in tale auspicabile evenienza, il miglioramento delle conoscenze e della sensibilità della magistratura italiana.

Il fatto che, purtroppo, alla data odierna, lo Stato italiano non si sia ancora attrezzato per il concreto ed effettivo rispetto della CEDU e per l’esecuzione delle sentenze della Corte che ne dichiarano la violazione fa quasi abbassare a livello di fantasticherie varie disposizioni fondamentali della Costituzione, secondo la quale la Repubblica  “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art.2), assicura “il pieno sviluppo della persona umana” (art.3) e, comunque, rispetta “i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art.117), tra i quali ultimi rientrano di certo quelli contratti con la sottoscrizione della CEDU.

Inoltre, mi sembra opportuno notare che dall’Italia è stata pure disattesa la “Risoluzione A4-0278/97 del Parlamento europeo sui rapporti fra il diritto internazionale, il diritto comunitario e il diritto costituzionale degli Stati membri” ove si legge: “B. Considerando che una completa ed efficace tutela giudiziaria dei diritti fondamentali costituisce una caratteristica essenziale di qualsiasi comunità di diritto,…”.  

 Si aggiunga che l’Italia è rimasta anche insensibile al Preambolo della cosiddetta “Carta di Nizza” approvata dal Consiglio europeo nel 2000 ove si legge: “La presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Bisogna, infatti, rilevare che – come non è sfuggito al Comitato dei Ministri già nel 2007 – tutta l’attività normativa italiana più sopra indicata sia da ritenere complessivamente poco ben pensata, modesta ed insufficiente, poiché, fatta eccezione per l’esecuzione di sentenze di condanna al pagamento di somme di danaro accordate dalla Corte Europea per “equa soddisfazione”, ha lasciato e resta aperta tutta la problematica dell’adempimento delle sentenze CEDU allorché comportano la necessaria rimozione del giudicato formatosi in sede nazionale in violazione della convenzione ovvero quando debbano essere assunte le cosiddette “misure generali” necessarie per evitare il permanere nell’ordinamento interno (primario, secondario ed amministrativo) di norme in contrasto con la convenzione, cioè sono assenti le misure normative in grado di risolvere tanto l’esecuzione della sentenza CEDU quanto la violazione sistematica della convenzione (cfr. la materia dell’indennità per l’espropriazione per pubblica utilità che, dopo la sentenza CEDU nel caso Scordino, è stata ridisciplinata con legge secondo i principi fissati dalla CEDU avendo fatto superare alla Cassazione ed alla Corte Costituzionale le ben note antiche e poco giustificabili remore).

Tantomeno si può ritenere che sia idoneo e sufficiente il ricordato Decreto presidenziale 01.02.007 che, avendo soltanto finalità amministrative/organizzative e data la sua nota carenza di valore di legge, certamente non può incidere –come non incide la legge n.12/06- sulle sentenze passate in giudicato, potendo esso solamente informare del problema e sollecitarne la soluzione anche attraverso un’opera di sensibilizzazione del Parlamento, al quale spetta la funzione legislativa.

Insomma, mi pare doveroso sottolineare che lo Stato italiano non possa più persistere in questa palude giuridica irrispettosa della CEDU, della propria Costituzione e delle norme comunitarie, posto che l’art. 6, 2°comma, del vigente Trattato dell’U.E. così dispone: ”L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali… e quali risultano dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario”.

Si può dire, ricordando un passo di una sentenza della Corte (caso Mamatkoulov c. Turchia del 06 febbraio 2003), che l’Italia continua a violare uno dei pilastri essenziali del sistema europeo di tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Ritengo opportuno osservare che il valore dichiarativo delle sentenze della Corte lascia intatto il carattere vincolante per lo Stato membro di rimuovere la violazione accertata della convenzione, cioè resta fermo l’obbligo di convenzione di conformare le pronunce giudiziarie interne (penali, civili ed amministrative) alla sentenza della CEDU, attività conformativa che è libera nella scelta delle misure correlative, ma vincolante nel risultato di effettività, ed obbligatoria, benché non coercita e non coercibile (perché manca un organo deputato ad assicurare l’attuazione coattiva delle decisioni). Infatti, secondo la costante giurisprudenza della CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, “Lo Stato è libero, sotto il controllo del comitato dei ministri, di scegliere le misure generali o individuali con le quali conformarsi alle sentenze della Corte e porre fine alla violazione ivi accertata purché tali misure siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza. Nel dialogo tra Stati e comitato, la Corte non ha alcun ruolo: in particolare la Convenzione non le attribuisce competenza a imporre allo Stato l’apertura di una procedura o l’annullamento di una condanna quando in esse si riscontrino violazioni della Convenzione medesima o dei protocolli. Qualora si tratti di misure di riparazione specifiche occorre però tenere conto delle circostanze del caso concreto e dei contenuti della sentenza di condanna, sicché, ove in una procedura interna fossero riscontrate violazioni dell’art. 6, la riapertura o la rinnovazione del processo potrebbero dirsi misure appropriate alla riparazione della violazione. Se è vero che la Corte non può controllare che lo Stato abbia o no dato seguito alla condanna – competenza, questa, che spetta al comitato dei ministri – ciò non significa che essa non abbia competenza sui comportamenti tenuti dallo Stato nella fase della esecuzione che costituiscano violazioni della Convenzione non considerate nella sentenza. In particolare, la Corte può decidere sul ricorso in cui l’individuo lamenta che lo Stato condannato ha commesso una nuova violazione della Convenzione in occasione della riapertura di un processo interno o della revisione della sentenza (ovvero della procedura da seguire per accertare le condizioni di riapertura o di revisione)” (cfr. CEDU,  sez. V, 04 ottobre 2007, n. 32772 Verein gegen Tieifabriken Schvveiz (VgT) c. Svizzera; sentenza che fa seguito ad altre quali il caso Marckx / Belgio del 1979, il caso Vermeire c. Belgio del 1991, il caso Scozzari e Giunta c. Italia del 2000, il caso Broniowski c.Polonia del 2005).

Occorre anche ricordare che la normativa italiana sopra rammentata è stata qualche mese addietro reputata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (nel rapporto AS/Jur (2008) 24) inidonea ad assicurare il completo ed effettivo adempimento dell’obbligo conformativo, che va attuato secondo i canoni stabiliti dalla riferita costante giurisprudenza della Corte Europea, pur facendo particolare riferimento alla mancnza di una legge che permetta la riapertura soltanto dei processi penali.

 In sintesi, come notato nella relazione al citato disegno di legge (S 1797 del 18 settembre 2007) e dal Consiglio d’Europa nel 2008, all’Italia oggi manca una legge che assicuri in concreto la riapertura dei processi penali ormai definiti con sentenza passata in giudicato.

La prova ulteriore della descritta inadempienza è data dal rilievo  finale contenuto nella stessa sentenza n. 129/08 della Corte Costituzionale, che ha rivolto il testuale “ pressante invito al legislatore ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato, nei processi peanli, violazioni ai principi sanciti all’articolo 6 della CEDU”.

Mi sembra però corretto aggiungere, essendo quasi sempre dimenticato, che la stessa carenza normativa riguardi anche i processi civili ed amministrativi, poiché, seguendo ed adoperando il ragionamento di Corte Costituzionale n.129/08, la sentenza della CEDU non può considerarsi sul piano interno come causa speciale di revocazione della sentenza divenuta giudicato in assenza di previsione nell’art.395 del codice  procedura civile oppure nell’art. 28 della legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali ovvero nell’art.46 del Testo Unico di leggi sul Consiglio di Stato.

La situazione italiana è stata, dunque, dal Consiglio d’Europa giustamente definita allarmante e non più sostenibile, per cui occorre trovare un rimedio efficace e duraturo, dovendo il nostro Stato provvedere e comportarsi secondo le pregevoli norme costituzionali ed in conformità agli obblighi comunitari e convenzionali liberamente sottoscritti.

D’altra parte, nel presente caso non si tratta di violazione di obblighi sinallgmatici, come nelle convenzioni classiche, bensì di adempimenti oggettivamente doverosi e qualificanti il tasso di democrazia e civiltà  dello Stato.

Sennonchè devo notare che, purtroppo, il rimedio idoneo ad eseguire la sentenza della CEDU che comporti la riapertura dei giudicati penali, civili ed amministrati è ormai soltanto di tipo legislativo, non potendosi più affidare né all’attività di “interpretazione adeguatrice” delle norme interne alla convenzione per come interpretata dalla CEDU e neanche alla giurisprudenza interna che ritenesse l’effetto diretto delle sentenze CEDU ovvero l’ineseguibilità della sentenza nazionale passata in giudicato, in quanto queste teorie trascurano, fra l’altro, di considerare che il sistema giudiziario italiano ex art. 101 Costituzione si basa sui giudici che sono “soggetti soltanto alla legge” e non già al precedente giudiziario oppure a gerarchie giudiziarie: com’è ben noto, si tratta di un sistema che ai molti pregi unisce però il difetto della disgregazione delle decisioni giurisdizionali che, evidentemente, lasciano il qui discusso problema privo di soluzione corretta, efficace e rapida.

Com’è poi ben noto, non esiste in Italia una tutela costituzionale  direttamente accessibile, poiché il giudizio della Corte costituzionale è, infatti, per legge previsto come giudizio incidentale e cioè nell’ambito di un processo. Sicchè il giudizio di costituzionalità – che funziona quale giudizio di comparazione di una norma ordinaria con la costituzione – rappresenta, ad un tempo, una soluzione eventuale ed altresì, dati i precedenti citati, almeno di dubbio utile esito, e, per di più, di lunga attesa.

In conseguenza, resta solo il rimedio legislativo implicitamente, ma chiaramente, sollecitato dalla Corte Costituzionale nel punto n. 7 della sentenza n.129/08, considerando, altresì, che soltanto questo rimedio può togliere alla sentenza interna la forza esecutiva del giudicato e giustificare il completo ripristino di ogni modificazione nel frattempo intervenuta.

Se quanto detto vale per dare effetti conformativi interni alla sentenza della CEDU e per adeguare la normativa nazionale alla convenzione per come interpretata dalla Corte, reputo che per eseguire le sentenze di condanna ad un’equa soddisfazione si potrebbe adoperare il procedimento del giudizio d’ottemperanza di diritto processuale amministrativo, sempre che dal Giudice amministrativo venisse accettata la tesi che esse siano direttamente applicabili nello Stato italiano e che sono già definitive allorchè emesse ai sensi dell’art. 44 della convenzione, cosicchè potrebbero essere ritenute giudicato ai sensi dell’art. 27, n.4, del Testo Unico sul Consiglio di Stato che è stato adoperato –prima della legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi- per l’esecuzione delle sentenze amministrative.

Dissento, in fine, dalla tesi che nega, in via di principio, a tali sentenze il valore di titolo giuridico per un’azione di danno ai sensi dell’art. 2043 codice civile, in quanto si tratta proprio di sentenza che accerta una violazione e, dunque, un’ingiustizia che rappresenta, fra gli altri elementi, la qualifica basilare del danno arrecato.

In conclusione, pur col vivo rammarico di aver esposto un panorama non esaltante, ma anzi censurabile, mi auguro che lo Stato italiano si doti al più presto di uno strumento legislativo che, sia pure con le immancabili dispute interpretative, possa fornire una efficace e sicura soluzione sia al problema del rapporto delle norme interne con la convenzione e sia al problema di dare esecuzione all’impegno dello Stato di conformarsi alle sentenze della Corte.

Relazione italiana dell’avv. Giovanni Spadea – Genova – 22/10/2010

“I diritti fondamentali previsti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla c.d. Carta di Nizza dopo il trattato di Lisbona nell’ordinamento italiano”

   Mi sono permesso di modificare il tema assegnatomi ritenendo opportuno vedere insieme i diritti fondamentali tutelati dalla Carta di Nizza e dalla Convenzione Europea nel Trattato.

   Il tema dei diritti fondamentali ha ormai da più decenni ricevuto nelle varie giurisdizioni l’attenzione e l’interesse dei vari gradi della magistratura italiana ed altresì dell’Avvocatura che -dopo varie incertezze- hanno spinto verso il rispetto di principi generali di civiltà giuridica nei vari aspetti (ad esempio giusto processo, effettività della giustizia) e come oggetto degli obblighi interni dei  membri dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa.

   In particolare, il tema del nostro incontro è di molto interesse e di molta attualità poiché gli Stati membri dell’Unione Europea hanno aggiornato l’ordinamento comunitario del Trattato di Maastricht e di Amsterdam che aveva già proclamato, con l’articolo 6 della versione consolidata del trattato sull’Unione Europea, che i diritti dell’uomo e le sue libertà fondamentali, quale risultante ed espressione delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, vengono dall’Unione “rispettati ” essendo “diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione…”; in breve, tali diritti fondamentali ex conventione dal Trattato venivano però soltanto “riconosciuti” come principi generali del diritto comunitario.

   Proprio questo principio era stato pure in seguito ribadito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea fatta a Nizza nel Dicembre dell’anno 2000 ed adottata dopo a Strasburgo nel 2007 nonchè poi recepita dal trattato di Lisbona.

   Con il nuovo articolo 6 del Trattato di Lisbona del Dicembre 2007, come meglio si vedrà tra poco, è stata portata quasi a termine la definitiva introduzione negli ordinamenti degli Stati membri sia della più articolata normativa della Carta di Nizza e sia di quella classica della Convenzione Europea, entrambe poste a tutela dei diritti fondamentali con una quasi copertura totale notoriamente applicabile alla materia penale e civile in cui è anche inclusa quella del diritto amministrativo.

   Ma questa importante novità non ha ancora avuto molta fortuna nella giurisprudenza dell’ Italia, soprattutto della Corte Costituzionale che, come nel passato, ritiene che il persistente dissidio tra norma nazionale e norma convenzionale può esser composto solo dalla Corte Costituzionale con la pronuncia di non costituzionalità della legge interna in contrasto con la norma comunitaria  o con obblighi internazionali. In sintesi, il giudice del normale processo non può, quindi,  disapplicare la norma interna in contrasto con la Convenzione Europea, ma può al massimo, se il caso lo consente, adoperare una interpretazione di adeguamento della legge interna rispetto alla Convenzione: sicchè non può applicare direttamente la Convenzione europea alla quale l’Unione europea “ aderisce”.

   Questa è, infatti, la più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale: a partire dalle famose sentenze nn.348 e 349 del 2007 alla n.103 del 2008, alle successive nn.125 e 311 del 2009 e, per finire, alle nn.28, 93 e 227 del 2010 che compongono una sorte di monolito non rimovibile: quindi tale giurisprudenza, pur dopo la comunitarizzazione avvenuta con il Trattato della convenzione europea e della Carta di Nizza, continua a precludere al giudice nazionale di applicarle direttamente rispetto alla norma interna non compatibile.

   La tesi di tale giurisprudenza è che diritto comunitario (dell’Unione Europea) e diritto interno sono due sistemi “autonomi e distinti ancorché coordinati”, per cui il giudice nazionale applica il proprio diritto ed al massimo lo adegua all’altro adoperando la cosiddetta interpretazione adeguatrice.

   Orbene, la Convenzione Europea contiene -di per se stessa- obblighi convenzionali che -come ritenuto nella risalente decisione della Corte di Straburgo del 11.01.1961 dell’Austria c. Italia- sono privi del carattere classico della reciprocità ed hanno, invece, natura di obbligazioni essenzialmente oggettive, come si deduce dalle premesse della Convenzione, nelle quali è, fra l’altro, scritto che le libertà fondamentali “costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo” e che gli Stati europei sono “forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, a prendere le prime misure adatte ad assicurare la garanzia collettiva di certi diritti enunciati nella Dichiarazione Universale” dei diritti dell’uomo.

   E’ pure necessario ricordare che -secondo la Convenzione- la sentenza della Corte di norma non è di tipo annullatorio-cassatorio, bensì di natura essenzialmente accertativa-dichiarativa (confronta sentenza CEDU 13.06.1979 caso Marckx / Belgio) della violazione della convenzione da parte degli organi giudiziari dello Stato membro che è la parte resistente necessaria o il soggetto contro cui è rivolto il ricorso e quindi contro il quale è pronunciata la sentenza: infatti la Corte, quando accoglie il ricorso, dichiara nel dispositivo che vi è stata violazione di una norma della convenzione: secondo l’art.41 Convenzione “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli …” di norma stabilisce la perfetta rimozione degli effetti della accertata violazione da parte dello Stato membro o,  in mancanza, accorda alla parte lesa un’equa soddisfazione.

   La sopra cennata giurisprudenza della Corte costituzionale italiana è, con mia rispettosa opinione, non condividibile, poiché contrasta con la sua stessa finalità ultima che intende assicurare ed anche perché rallenta l’effettività della giustizia potendo  perfino far aumentare la quantità delle vertenze giudiziarie e le pronunce di condanna dello Stato.

   In breve, mi pare che tale gurisprudenza somigli più ad un muro turrito elevato a difesa della città-Stato che non ad una necessaria apertura della nuova strada costituzionale europea che persegue la giustizia effettiva senza declamazioni.

   Questa critica è, in verità, latente nella stessa legislazione italiana che talvolta segna improvvisi passi verso il “diritto europeo” e quindi va nel senso dell’unicità del sistema giuridico nell’Unione Europea che per forza deve essere quello già delineato dal Trattato di Lisbona.

   Nel senso ora indicato mi paiono da leggere non solo l’art.117, 1° comma, della Costituzione che delinea il parametro nel quadro “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” assunto dalla Corte costituzionale per giustificare la sua decisione, ma pure l’art.1 vigente della legge n.241/90 che nell’attività amministrativa stabilisce la necessaria applicazione dei “principi dell’ordinamento comunitario”, che sono oggi anche direttamente ricavabili dal Trattato, nonché il recente art.1 della legge n.104/2010 sul nuovo Processo Amministrativo che poggia sul principio europeo di effettività: “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”, espressione di vero nuovo conio che si proietta sul globo giuridico europeo nel quale è centrale il nuovo trattato di Lisbona.

   Si comprende, dunque, di più che non si può persistere né nelle lungaggini dei processi interni e neppure nel sentirsi, infine, condannare dalla Corte di Strasburgo all’esatta ottemperanza alla sentenza, ponendo poi in essere ogni attività che sia di integrale salvaguardia e ripristino della posizione giuridica del ricorrente ritenuta dalla Corte di Strasburgo ingiustamente violata.

   In sostanza l’obbligo di conformazione a quanto ritenuto giusto e necessario dalla Corte di Strasburgo nella sua sentenza -che, all’evidenza, comprende la tendenziale eliminazione totale degli effetti della violazione dichiarata dalla stessa Corte possibilmente mediante restitutio in integrum ed anche mediante equa soddisfazione nonchè attraverso l’adozione di misure di carattere generale, e talvolta anche individuale, idonee a prevenire le stesse oppure analoghe violazioni- è attività conformativa ex post che allunga il tempo della giustizia e quindi viola il principio di effettività (vedi ad es. per un caso di specie Tribunale Amministrativo di Milano n.1370/08), poiché la sentenza della CEDU dichiara, dopo molti anni dato il suo carico di ricorsi, una violazione consumata con una sentenza interna divenuta giudicato irremovibile.

   Questa, infatti, è la situazione normale, poiché il ricorso alla CEDU segue all’esaurimento delle vie di ricorso interne e richiede pure tempo per farlo decidere.

   Ma il procedimento giudiziario italiano delineato dalla Corte costituzionale sottende una contraddizione, poiché la stessa Corte, specialmente nella sua sentenza n.28/2010- -come ha di recente anche notato Celotto- ha ben presente, come è scritto in un inciso di certo né banale e neanche disattento- che “le norme comunitarie… sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano”. Il che -a mio modesto parere- è una giusta constatazione che diverrà più chiara allorché si terrà conto che il trattato di Lisbona permette l’accesso tanto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea quanto, alla fine, alla Corte di Strasburgo, che quindi detiene la supremazia giurisdizionale, non trattandosi di corti parallele come diverrà dopo la stipulazione dell’accordo di adesione dell’Unione Europea alla Convenzione determinando uno spazio giudiziario unico dei diritti fondamentali (vedi messaggio del Presidente Costa a questo Convegno e “Rapporto annuale 2007 ” dello stesso Presidente nonché il caso Bosphorus Airways parimenti deciso dalle due Corti).

   L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona non consente più, per mio modesto parere, di continuare nella tesi della Corte costituzionale del distinto ed autonomo sistema che viene da essa coordinato in via di giudizio di legittimità costituzionale, ovviamente se e quando la relativa questione viene “proposta” dal giudice comune in via incidentale.

   All’incontrario della nostra giurisprudenza costituzionale l’ordinamento comunitario voluto dal Trattato di Lisbona permette di dare già oggi potere applicativo della Convenzione Europea e della Carta di Nizza a tutela dei diritti fondamentali al giudice del singolo processo che, se del caso, può addirittura rivolgersi alla Corte di Lussemburgo per la corretta interpretazione di questo aspetto giuridico.

   Ma se la Convenzione non fosse ritenuta direttamente applicabile -quale diritto comunitario- nello Stato italiano pur avendo essa carattere vincolante per gli Stati aderenti o perchè manca nell’ordinamento giuridico italiano un meccanismo legislativo generale idoneo a renderla applicabile, cioè non bastando la legge di ratifica e di esecuzione come già ritenuto da Cassazione a Sezioni Unite 06.05.2003 n.6853, il contrasto con le disposizioni del Trattato europeo sarebbe di imminente dichiarazione, posto che già molti giudici (di merito e di legittimità) hanno indirizzato le decisioni interne sulla necessità di rispettare la convenzione (disapplicazione o interpretazione adeguatrice della norma interna) per rispetto dell’art.6 del Trattato di Lisbona.

   E’, dunque, mia opinione che con l’entrata in vigore del Trattato si configura l’esistenza nell’ordinamento italiano del meccanismo legale che permette la penetrazione nell’ordinamento nazionale della Convenzione europea e della Carta di Nizza, per cui gli organi di giustizia interna possono persistere nella giurisprudenza di riconoscimento in Italia dell’efficacia diretta della Convenzione come interpretata dalla Corte Europea: infatti, la tesi più aperta della giurisprudenza comune sull’efficacia diretta della convenzione non può subire arretramento per via delle sentenze nn.348 e 349/07 e delle altre citate della Corte costituzionale, poiché il giudice interno deve ritenersi sottoposto al disposto dell’art.101 Costituzione che lo ritiene sottoposto solo alla legge, per cui con la legge di ratifica e di esecuzione le norme del trattato sono tali da produrre effetti diretti nell’ordinamento interno degli Stati membri. Questo è, a mio parere, il senso dell’introduzione nell’Unione Europea del Trattato di Lisbona, posto che l’articolo 6, n. 3, prevede: “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

   In base a tale disposizione, i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione sono divenuti diritto dell’Unione Europea, sicché i giudici nazionali sono, ancor prima dell’accordo di adesione ex  art. 6, n.2, tenuti ad applicare direttamente le norme della Convenzione, attribuendo così effetti diretti alla propria sentenza e conformando in tal modo l’ordinamento italiano alle reali esigenze declamate dal diritto europeo nonché risparmiandolo dalle sentenze della Corte di Strasburgo che talvolta hanno prodotto il temuto sfondamento del muro protettivo eretto proprio dalla Corte costituzionale (confrontare ad esempio il tema dell’indennità di espropriazione).

   Quella della Corte costituzionale mi pare anche una tesi inadeguata ai tempi odierni, potendo leggersi nella Costituzione italiana non fantasticherie, ma disposizioni fondamentali, anche utili per la diretta applicazione, secondo le quali la Repubblica Italiana “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art.2), assicura “il pieno sviluppo della persona umana” (art.3), “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo” , cioè “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art.11) e, comunque, rispetta “i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art.117), tra i quali ultimi rientrano di certo quelli contratti da ultimo con il Trattato di Lisbona inclusa la Convenzione che la “Risoluzione A4-0278/97 del Parlamento europeo sui rapporti fra il diritto internazionale, il diritto comunitario e il diritto costituzionale degli Stati membri” voleva adempiuta proprio perché “una completa ed efficace tutela giudiziaria dei diritti fondamentali costituisce una caratteristica essenziale di qualsiasi comunità di diritto,…”.  

   Si deve poi aggiungere che la tesi della Corte Costituzionale è nel 2010 rimasta anche insensibile alla cosiddetta “Carta di Nizza” approvata dal Consiglio europeo nel 2000 ed ora facente parte del Trattato di Lisbona ove si legge: “La presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo.

   Mi pare, dunque, che la nostra Corte costituzionale -se ne avrà occasione- non possa più non riesaminare la problematica dell’adempimento del Trattato comportante la necessaria e regolare conformazione dell‘ attività giurisdizionale alle norme stipulate e che sono penetrate nell’ordinamento interno (primario, secondario ed amministrativo), rendendo inapplicabili le norme in contrasto con la convenzione e con la Carta di Nizza.

   Mi rendo conto del diverso trattamento ricevuto dalla Carta di Nizza e dalla Convenzione con l’art.6 del vigente Trattato dell’U.E. –ratificato e reso esecutivo con legge n.130/08- ma è però chiaro che è stata superata la precedente dizione secondo la quale ”L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Infatti oggi il Trattato prevede, anzitutto, che “L’Unione riconosce i diritti, le libertà ed i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea… che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”; in secondo luogo, prevede che “L’Unione aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”; ma, in chiusura, soprattutto dispone che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione Europea …,  e risultanti dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

   Si tenga pure conto di una dichiarazione aggiunta relativa “a disposizioni dei trattati” ove è scritto che “la Carta dei diritti fondamentali… ha forza giuridicamente vincolante”, nonché del protocollo n.2 relativo all’art.6 paragrafo 2 ove è precisato che “l’accordo relativo all’adesione dell’Unione Europea… deve garantire che siano preservate le caratteristiche specifiche dell’Unione e del diritto dell’Unione”.

   La situazione prodotta dal Trattato sugli ordinamenti degli Stati membri dell’Unione mi sembra, quindi, ben diversa da quella delineata dalla nostra Corte costituzionale con la sopra vista giurisprudenza, che già è stata contraddetta dalla Corte di Giustizia U.E. con la sentenza 27.10.2009 in C-115/08, secondo cui “Con riferimento ai principi generali del diritto comunitario, il giudice nazionale è tenuto a conferire alla legge nazionale che è chiamato ad applicare un’interpretazione per quanto possibile conforme ai precetti del diritto comunitario, con l’avvertenza che se una simile applicazione conforme non è possibile, il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di proteggere i diritti che questo attribuisce ai singoli, eventualmente disapplicando ogni disposizione la cui applicazione … condurrebbe a un risultato contrario al diritto comunitario”: pare, dunque, corretto ritenere che l’ordinamento interno debba adeguarsi al diritto comunitario, inclusa la parte della tutela dei diritti dell’uomo sanciti all’articolo 6 del Trattato.

   In buona sostanza, mi sembra che il problema della tutela dei diritti fondamentali abbia ricevuto dal Trattato una previsione rinforzata, in quanto per i cittadini dell’U.E. è già offerta – cioè prima dell’adesione dell’Unione europea alla Convenzione – la tutela secondo la Carta di Nizza che ha lo stesso valore giuridico dei trattati, per cui è oggi da ritenere direttamente applicabile dal giudice nazionale in quanto di valore giuridico pari a quello del trattato sull’U.E.: vale a dire il giudice interno applica in via immediata il diritto comunitario e “disapplica all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale” (così pure la Corte di Giustizia C.E. 18.07.2007 n.119 e la sua più recente giurisprudenza 28.01.2010 n.406 e 19.01.2010 n.555 che ribadiscono il dovere del giudice nazionale di disapplicare la norma interna in contrasto con norma superiori, per di più senza necessità di proporre alla Corte di Giustizia europea una questione pregiudiziale sull’interpretazione del principio da applicare in concreto).

   Lo stesso deve, inoltre, dirsi secondo la disposizione contenuta nell’art.6, n.3 del Trattato che –come già visto e come risulta pure dal secondo “considerando” del protocollo n.24– anche i diritti previsti dalla Convenzione europea“fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”, sicché essi vanno tutelati dal giudice nazionale come per quelli stabiliti dalla Carta di Nizza, cioè direttamente disapplicando la norma interna in contrasto con la disposizione convenzionale e, dunque, senza dover più sollevare per incidens la questione di legittimità costituzionale.

   Il problema della tutela resta, quindi, aperto per i soggetti non cittadini di uno Stato membro dell’U.E. ed appartenenti ad uno Stato sottoscrittore della convenzione europea.  Anche in tal caso, ma ancora per poco tempo, il giudice ordinario – quello amministrativo è già tenuto ad agire in modo conforme agli obblighi comunitari e convenzionali (c.d. diritto europeo sopra citato) –  potrebbe già oggi attuare direttamente l’art. 6, n.3 che si uniforma alle pregevoli norme costituzionali qualificanti il tasso di democrazia e civiltà  dello Stato.

   Infatti, in caso diverso, si riprodurrebbero quasi i mali odierni di giustizia tardiva, mentre il sistema giudiziario italiano –che ex art.101 Costituzione si basa sui giudici che sono “soggetti soltanto alla legge”- e non già sul precedente giudiziario anche se di autorevoli gerarchie giudiziarie- potrebbe direttamente emettere decisioni giurisdizionali che diano soluzione corretta, efficace e rapida in conformità alla Corte di Strasburgo ed a quella di Lussemburgo; potere da ritenere sia per quanto detto ed anche perché il giudizio della Corte costituzionale è dalla legge italiana previsto come giudizio incidentale – cioè sorge nell’ambito di un altro processo – che rappresenta, ad un tempo, una soluzione eventuale ed altresì, dati i precedenti citati, almeno di dubbio utile esito, e, per di più, di lunga attesa.

   Ma questo sistema non mi parrebbe attuativo di un trattamento paritario dato che il modulo di procedimento è diverso a seconda che si giudichi un cittadino comunitario o un non comunitario pur applicando lo stesso diritto.

   In conseguenza, mi pare che la conclusione da trarre, anche per il tempo non lungo di definizione dell’accordo di adesione dell’UE alla Convenzione, sia quella già stabilita in molti casi dalla giurisprudenza interna da vari organi giurisdizionali e che parrebbe auspicata da recenti leggi, dalla significativa apertura della Corte Costituzionale allorché ha parlato di norme comunitarie “cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie”, dalla Corte di Cassazione (Sezioni Unite – 06.05.2003 n.6852, idem 29.12.2006 n.27619; Sezione III – 02.02.2010 n.2352 secondo cui “la filonomachia della Corte di Cassazione include anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del Trattato di Lisbona e della Carta di Nizza che esso pone a fondamento del diritto comune Europeo”), dal Consiglio di Stato (Sezione IV – 30.11.2007 n.6124 secondo cui i diritti della Convenzione “hanno una diretta rilevanza nell’ordinamento interno”, idem 04.02.2008 n.303; idem 02.03.2010 n.1220 che a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha ritenuto di fare applicazione diretta dei principi di effettività della tutela giurisdizionale secondo gli articoli 6 e 13 della Convenzione; Sezione VI – 03.03.2010 n.1241 che afferma la primazia del diritto comunitario e del dovere di disapplicazione di qualsiasi norma interna incompatibile con la normativa comunitaria vincolando in tal senso il giudice nazionale) sia pure con un recente revirement (Consiglio di Stato, Sezione VI, 15.06.2010 n.3760 che segue la giurisprudenza della Corte Costituzionale), da magistrature ordinarie (Corte d’Appello di Firenze, Sezione penale, 14.07.2006 che ritiene il giudice nazionale obbligato a disapplicare la norma interna in contrasto con la Convenzione; Tribunale Civile di Pistoia 23.03.2007 che ha ritenuto la disapplicazione di norme interne contrarie alla Convenzione), e dai Tribunali Amministrativi Regionali (Lazio, Sezione II bis, 18.05.2010 n.11984 che a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e la prevista adesione dell’unione alla Convenzione Europea ha ritenuto immediatamente operante negli ordinamenti nazionali le norme sui diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione come principi interni al diritto dell’unione; Sardegna 31.01.2008 n.83; Lombardia – Brescia 11.08.2007 n.716 secondo cui i giudici nazionali applicano i principi individuati dalla Convenzione oltre che le norme di diritto interno e comunitario).

   Per attuare questo più celere procedimento non occorrono ulteriori regole processuali, ma solo un consapevole nuovo indirizzo della giurisprudenza costituzionale che non può escludere l’applicazione diretta da parte del giudice nazionale delle norme della Convenzione Europea e della Carta di Nizza in quanto – con l’incorporazione nel Trattato – sono divenute norme “cogenti e sovraordinate” alle leggi ordinarie nazionali, come non pare la Corte costituzionale abbia più tenuto in debita considerazione con la recente sentenza 24.6.2010, n.227 facente seguito alla 28.01.2010 n.28 che sembrava pronta ad un’inversione del proprio consolidato indirizzo della necessaria  dichiarazione d’illegittimità cstituzionale della norma interna  contrastante con quella della convenzione, ritenendo così quasi inabile il giudice comune a disapplicare la norma non conforme a quella della convenzione per come  interpretata  dalla  Corte di Strasburgo o da quella del Lussemburgo.

   In definitiva è mia opinione che la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione Europea o nell’ambito dell’area del Consiglio d’Europa (che oggi include 47 Stati) con il sopravvenuto Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 01.12.2009, abbia trovato la definitiva ed uniforme sistemazione nel senso che il Giudice nazionale ha potere per disapplicare direttamente la norma interna in contrasto con il Trattato di Lisbona o comunque con la Convenzione, dovendo questo Giudice comportarsi in ossequio al principio irrinunciabile del giusto processo e della effettività.