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Relazione italiana dell’avv. Giovanni Spadea – Trento – 3/10/2008

L’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in Italia

Il tema del convegno è molto importante per la civiltà giuridica e per la vera democrazia negli Stati europei, che nel sottoscrivere la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ben sapevano che, ai sensi dell’art.1 della Convenzione stessa, avevano preso l’impegno di rispettarla e di non violarla, accettando al contempo la giurisdizione della Corte.

Si tratta di obblighi convenzionali che –come ritenuto nella risalente decisione CEDU del 11.01.1961 dell’Austria c. Italia– sono privi del carattere classico della reciprocità ed hanno, invece, natura di obbligazioni essenzialmente oggettive, come si deduce dalle premesse della Convenzione, nelle quali è, fra l’altro, scritto che  le libertà fondamentali “costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo” e che gli Stati europei sono “forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, a prendere le prime misure adatte ad assicurare la garanzia collettiva di certi diritti enunciati nella Dichiarazione Universale” dei diritti dell’uomo.

Mi pare, quindi, evidente che il tema si incentri sul raggiungimento dell’effettiva tutela delle libertà e dei diritti tutelati dalla Convenzione anche nella fase successiva alla tutela giudiziale interna, considerata la disciplina dell’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (che citerò con sigla CEDU) mediante le regole poste dall’art. 46 della vigente Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il quale contiene le seguenti letterali disposizioni: “1. Le Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte per le controversie di cui sono parti.

  1. 2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione.
  2. Ove il Comitato dei Ministri ritenga che la sorveglianza di una sentenza definitiva è intralciata dalla difficoltà d’intepretare tale sentenza, esso può investire la Corte affinché si pronunzi su tale questione d’interpretazione. La decisione di investire la Corte è presa con voto a maggioranza di due terzi dei rappresentanti aventi diritto ad un seggio nel Comitato.
  3. Ove il Comitato dei Ministri ritenga che un’Alta Parte contraente rifiuti di attenersi ad una sentenza definitiva in una controversia di cui è parte, esso può, dopo aver messo in mora questa Parte e mediante una decisione adottata con un voto a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti aventi diritto ad un seggio nel Comitato, investire la Corte della questione dell’osservanza di questa Parte degli obblighi relativi al paragrafo 1.
  4. Se la Corte accerta una violazione del paragrafo 1, essa rinvia il caso al Comitato dei Ministri affinché esamini i provvedimenti da adottare. Qualora la Corte accerti che non vi è stata violazione del paragrafo 1, essa rinvia il caso al Comitato dei Ministri, il quale decide di porre fine al suo esame”.

L’articolo 46 riportato, che riproduce anche due precedenti disposizioni della convenzione, è stato ancora di recente così modificato dall’art. 16 del Protocollo 14 che è stato ratificato dalla Repubblica Italiana il 07.03.2006, in seguito alla Legge 15.12.2005, n. 280.

 Con il nuovo attuale testo dell’art. 46 si parla di conformazione e non di immediata esecutività della sentenza CEDU, mentre la forza esecutiva della sentenza della Corte di Giustizia U.E. è testualmente dichiarata dagli artt. 244 e 256 del Trattato U.E..

 Con esso si è voluto, onde rinforzare la garanzia della tutela stabilita dalla Convenzione, far superare al Comitato dei Ministri sia le difficoltà interpretative influenti sull’esecuzione della sentenza di condanna dello Stato membro convenuto sia il rifiuto dello Stato membro di conformarsi alle sentenze della Corte che vengono trasmesse al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, cui risulta assegnata la funzione di sorveglianza sull’esecuzione di esse; sorveglianza da intendere non già poliziesca bensì di aiuto e di stimolazione alla corretta ed effettiva esecuzione della sentenza CEDU, la quale di norma accerta e dichiara che un provvedimento giudiziario dello Stato membro ha violato un diritto tutelato dalla convenzione.

Come si può subito notare, la disposizione del riportato primo paragrafo dell’art. 46 si dirige direttamente agli Stati che hanno sottoscritto ( stipulato ) la Convenzione, contraendo essi anche l’impegno di conformarsi alle sentenze della Corte, attività conformativa necessaria ed effettiva sulla quale esercita la sorveglianza –come prevede il secondo paragrafo- il Comitato dei Ministri.

 A tal proposito occorre (anzitutto) precisare che il suddetto primo paragrafo dell’art. 46 fa chiaro ed espresso riferimento soltanto alle sentenze definitive della Corte, cioè a quelle che l’art. 44 della Convenzione individua come sentenze definitive ed alle quali lo Stato condannato deve –per suo obbligo oggettivo- dare esecuzione.

E’ pure necessario ricordare che la sentenza della Corte di norma non è di tipo annullatorio-cassatorio, bensì di natura essenzialmente accertativa-dichiarativa (cfr. CEDU sentenza 13.06.1979 caso Marckx / Belgio) della violazione della convenzione da parte dello Stato membro che è la normale parte resistente o il soggetto contro cui è rivolto il ricorso e quindi contro il quale è pronunciata la sentenza: in breve, proprio questa peculiare natura della sentenza –anche quando accorda al ricorrente un’equa soddisfazione in seguito alla dichiarata violazione della convenzione (cfr. l’art.41 Conv.)– rende ben evidente l’insorgenza del problema costituito dall’esatta esecuzione della sentenza della CEDU. Infatti la Corte, quando accoglie il ricorso, dichiara nel dispositivo che vi è stata violazione della convenzione come risulta dall’art.41 Conv. che prevede testualmente: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli …” può accordare alla parte lesa un’equa soddisfazione in mancanza di perfetta rimozione degli effetti della accertata violazione da parte dello Stato membro.

Si comprende, dunque, anche di più il significato del primo paragrafo dell’art. 46 laddove viene usata la locuzione “impegno a conformarsi alla sentenza definitiva” da parte dello Stato membro quale unico soggetto onerato dell’ esatta ottemperanza alla sentenza, ponendo in essere ogni attività che sia di integrale salvaguardia e ripristino della posizione giuridica del ricorrente ritenuta dalla CEDU ingiustamente violata. In sostanza l’obbligo di conformazione a quanto ritenuto giusto e necessario dalla Corte nella sua sentenza deve ritenersi che, all’evidenza, comprenda la tendenziale eliminazione totale degli effetti della violazione dichiarata dalla Corte possibilmente mediante restitutio in integrum ed anche mediante equa soddisfazione nonchè attraverso l’adozione di misure di carattere generale, e talvolta anche individuale, idonee a prevenire le stesse oppure analoghe violazioni; attività conformativa che resta sempre sorvegliata ed aiutata dal Comitato dei Ministri.

Con molta amarezza occorre notare che, per quanto riguarda l’Italia, non sempre si è avuta una conformazione sollecita o priva di resistenze di vario genere, essendosi talvolta avuta addirittura l’inesecuzione (cfr. il caso Dorigo) in ogni campo del diritto (penale, civile ed amministrativo) specialmente – ma non solo – quando la sentenza della CEDU ha dichiarato una violazione consumata con una sentenza interna divenuta giudicato, cioè da ritenere, in via di principio, irremovibile.

Ma è ben noto che quest’ultima –cioè il giudicato interno- è la situazione normale, poiché il ricorso alla CEDU segue all’esaurimento delle vie di ricorso interne e richiede pure tempo per presentarlo e farlo decidere.

La ragione di questo comportamento italiano di permanente non puntuale ottemperanza all’impegno conformativo contratto con la convenzione sta, oltre che in un passato di diffusa dimenticanza, oggi in una culla di inerzia e specialmente nel fatto che –non essendo la sentenza CEDU ritenuta direttamente applicabile nello Stato italiano pur avendo essa carattere vincolante per gli Stati aderenti- manca nell’ordinamento giuridico italiano un meccanismo legislativo generale idoneo a far riaprire i giudicati interni formatisi sulle sentenze nazionali che dalla sentenza della CEDU sono state poi dichiarate in contrasto con qualche disposizione della convenzione europea.

In verità, questa situazione legislativa di inerzia, a parte le incertezze della giurisprudenza interna sul valore della convenzione (disapplicazione o interpretazione adeguatrice della norma interna, sentenze n.388/1999 e n.10/1993 della Corte Costituzionale) e sull’efficacia della sentenza CEDU, oggi mi pare che si sia ancor più aggravata soprattutto a seguito della sentenza n.129 del 2008 della Corte Costituzionale, che, a proposito del caso Dorigo, ha deciso –ovviamente rigettando la questione d’incostituzionalità dell’art. 630, c.1, lett. a) c.p.p.- l’impossibilità di far ritenere la sentenza della CEDU quale fatto idoneo per la revisione del giudicato penale, sentenza che estende (cfr. il n. 5) la stessa ragione contraria alla “complessa tematica dei rimedi “revocatori“…nel settore del processo civile” e che, per ulteriore conseguenza, a mio parere, vale pure nel processo amministrativo.

In sintesi, è rimasto, dunque, disatteso anche l’auspicio contenuto nella raccomandazione n.1684 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e nella risposta adottata dal Comitato dei Ministri ove ben risulta fino al 2005 un “persistente mancato rispetto, da parte dell’Italia, delle proprie decisioni e risoluzioni nel caso Dorigo” nonché l’inesistenza nell’ordinamento italiano di un meccanismo di legge “che permetta la riapertura di procedimenti quando la Corte Europea abbia accertato una violazione della Convenzione”.

Insomma, si può ritenere che, a parte alcuni interventi legislativi ed amministrativi (quali ad es.: la nuova disciplina della contumacia nel processo penale; la legge n.12/06 che assegna al Capo del Governo il dovere e la responsabilità di promuovere gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo; la modifica del casellario giudiziale penale che adesso deve contenere anche la menzione delle pronunce della CEDU; il decreto 01.02.2007 del Presidente del Consiglio dei Ministri che contiene misure per dare esecuzione alla citata legge n.12/06 relativa all’attuazione delle pronunce della CEDU), l’Italia non ha ancora risolto, in via legislativa generale (e men che meno in via di consolidata ed unanime giurisprudenza), il problema fondamentale della riapertura dei procedimenti interni già definiti in sede nazionale in violazione delle norme convenzionali e neppure ha trovato un qualsivoglia altro specifico rimedio idoneo a por fine alla violazione accertata dalla CEDU, specialmente nel campo penale in presenza di detenzione. Infatti, il disegno di legge “(S 1797 del 18.09.07) recante disposizioni in materia di revisione del processo a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo” – che avrebbe tutavia risolto soltanto il problema della revisione del giudicato penale – non è stato fino ad oggi approvato dal Parlamento.

Devo aggiungere che, come aveva auspicato il Comitato dei Ministri nel succitato documento, è venuta meno anche l’apertura della giurisprudenza nazionale comune verso il riconoscimento in Italia dell’efficacia diretta della Convenzione come interpretata dalla Corte Europea: infatti, la tesi più aperta sia della giurisprudenza comune sull’efficacia diretta della convenzione e sia della Corte di Cassazione penale (sentenza n.2800/07) sull’ineseguibilità del giudicato penale interno dichiarato dalla sentenza della CEDU in violazione della convenzione parrebbe ormai in contrasto con le recenti sentenze nn.348 e 349/07 della Corte Costituzionale che ha espresso l’autorevole decisione contraria nel senso che le sentenze della CEDU –diversamente da quelle pronunciate dalla Corte di giustizia dell’U.E.- non producono effetti diretti nell’ordinamento interno degli Stati membri e neanche sono reputabili fatto idoneo per la revisione del giudicato (sent. n.129/08 stessa Corte).

Per di più, sembra lontana la data di introduzione nell’Unione Europea del Trattato di Lisbona, il cui articolo 6, comma 3, prevede: “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

In base a tale disposizione, divenendo i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione diritto dell’Unione Europea, i giudici nazionali sono, senza dubbio, tenuti ad applicare direttamente le norme della Convenzione, ed anche ad attribuire effetti diretti alla sentenza della Corte a’sensi dell’art.117 Costituzione, per cui resta da augurarsi, in tale auspicabile evenienza, il miglioramento delle conoscenze e della sensibilità della magistratura italiana.

Il fatto che, purtroppo, alla data odierna, lo Stato italiano non si sia ancora attrezzato per il concreto ed effettivo rispetto della CEDU e per l’esecuzione delle sentenze della Corte che ne dichiarano la violazione fa quasi abbassare a livello di fantasticherie varie disposizioni fondamentali della Costituzione, secondo la quale la Repubblica  “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art.2), assicura “il pieno sviluppo della persona umana” (art.3) e, comunque, rispetta “i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art.117), tra i quali ultimi rientrano di certo quelli contratti con la sottoscrizione della CEDU.

Inoltre, mi sembra opportuno notare che dall’Italia è stata pure disattesa la “Risoluzione A4-0278/97 del Parlamento europeo sui rapporti fra il diritto internazionale, il diritto comunitario e il diritto costituzionale degli Stati membri” ove si legge: “B. Considerando che una completa ed efficace tutela giudiziaria dei diritti fondamentali costituisce una caratteristica essenziale di qualsiasi comunità di diritto,…”.  

 Si aggiunga che l’Italia è rimasta anche insensibile al Preambolo della cosiddetta “Carta di Nizza” approvata dal Consiglio europeo nel 2000 ove si legge: “La presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Bisogna, infatti, rilevare che – come non è sfuggito al Comitato dei Ministri già nel 2007 – tutta l’attività normativa italiana più sopra indicata sia da ritenere complessivamente poco ben pensata, modesta ed insufficiente, poiché, fatta eccezione per l’esecuzione di sentenze di condanna al pagamento di somme di danaro accordate dalla Corte Europea per “equa soddisfazione”, ha lasciato e resta aperta tutta la problematica dell’adempimento delle sentenze CEDU allorché comportano la necessaria rimozione del giudicato formatosi in sede nazionale in violazione della convenzione ovvero quando debbano essere assunte le cosiddette “misure generali” necessarie per evitare il permanere nell’ordinamento interno (primario, secondario ed amministrativo) di norme in contrasto con la convenzione, cioè sono assenti le misure normative in grado di risolvere tanto l’esecuzione della sentenza CEDU quanto la violazione sistematica della convenzione (cfr. la materia dell’indennità per l’espropriazione per pubblica utilità che, dopo la sentenza CEDU nel caso Scordino, è stata ridisciplinata con legge secondo i principi fissati dalla CEDU avendo fatto superare alla Cassazione ed alla Corte Costituzionale le ben note antiche e poco giustificabili remore).

Tantomeno si può ritenere che sia idoneo e sufficiente il ricordato Decreto presidenziale 01.02.007 che, avendo soltanto finalità amministrative/organizzative e data la sua nota carenza di valore di legge, certamente non può incidere –come non incide la legge n.12/06- sulle sentenze passate in giudicato, potendo esso solamente informare del problema e sollecitarne la soluzione anche attraverso un’opera di sensibilizzazione del Parlamento, al quale spetta la funzione legislativa.

Insomma, mi pare doveroso sottolineare che lo Stato italiano non possa più persistere in questa palude giuridica irrispettosa della CEDU, della propria Costituzione e delle norme comunitarie, posto che l’art. 6, 2°comma, del vigente Trattato dell’U.E. così dispone: ”L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali… e quali risultano dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario”.

Si può dire, ricordando un passo di una sentenza della Corte (caso Mamatkoulov c. Turchia del 06 febbraio 2003), che l’Italia continua a violare uno dei pilastri essenziali del sistema europeo di tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Ritengo opportuno osservare che il valore dichiarativo delle sentenze della Corte lascia intatto il carattere vincolante per lo Stato membro di rimuovere la violazione accertata della convenzione, cioè resta fermo l’obbligo di convenzione di conformare le pronunce giudiziarie interne (penali, civili ed amministrative) alla sentenza della CEDU, attività conformativa che è libera nella scelta delle misure correlative, ma vincolante nel risultato di effettività, ed obbligatoria, benché non coercita e non coercibile (perché manca un organo deputato ad assicurare l’attuazione coattiva delle decisioni). Infatti, secondo la costante giurisprudenza della CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, “Lo Stato è libero, sotto il controllo del comitato dei ministri, di scegliere le misure generali o individuali con le quali conformarsi alle sentenze della Corte e porre fine alla violazione ivi accertata purché tali misure siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza. Nel dialogo tra Stati e comitato, la Corte non ha alcun ruolo: in particolare la Convenzione non le attribuisce competenza a imporre allo Stato l’apertura di una procedura o l’annullamento di una condanna quando in esse si riscontrino violazioni della Convenzione medesima o dei protocolli. Qualora si tratti di misure di riparazione specifiche occorre però tenere conto delle circostanze del caso concreto e dei contenuti della sentenza di condanna, sicché, ove in una procedura interna fossero riscontrate violazioni dell’art. 6, la riapertura o la rinnovazione del processo potrebbero dirsi misure appropriate alla riparazione della violazione. Se è vero che la Corte non può controllare che lo Stato abbia o no dato seguito alla condanna – competenza, questa, che spetta al comitato dei ministri – ciò non significa che essa non abbia competenza sui comportamenti tenuti dallo Stato nella fase della esecuzione che costituiscano violazioni della Convenzione non considerate nella sentenza. In particolare, la Corte può decidere sul ricorso in cui l’individuo lamenta che lo Stato condannato ha commesso una nuova violazione della Convenzione in occasione della riapertura di un processo interno o della revisione della sentenza (ovvero della procedura da seguire per accertare le condizioni di riapertura o di revisione)” (cfr. CEDU,  sez. V, 04 ottobre 2007, n. 32772 Verein gegen Tieifabriken Schvveiz (VgT) c. Svizzera; sentenza che fa seguito ad altre quali il caso Marckx / Belgio del 1979, il caso Vermeire c. Belgio del 1991, il caso Scozzari e Giunta c. Italia del 2000, il caso Broniowski c.Polonia del 2005).

Occorre anche ricordare che la normativa italiana sopra rammentata è stata qualche mese addietro reputata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (nel rapporto AS/Jur (2008) 24) inidonea ad assicurare il completo ed effettivo adempimento dell’obbligo conformativo, che va attuato secondo i canoni stabiliti dalla riferita costante giurisprudenza della Corte Europea, pur facendo particolare riferimento alla mancnza di una legge che permetta la riapertura soltanto dei processi penali.

 In sintesi, come notato nella relazione al citato disegno di legge (S 1797 del 18 settembre 2007) e dal Consiglio d’Europa nel 2008, all’Italia oggi manca una legge che assicuri in concreto la riapertura dei processi penali ormai definiti con sentenza passata in giudicato.

La prova ulteriore della descritta inadempienza è data dal rilievo  finale contenuto nella stessa sentenza n. 129/08 della Corte Costituzionale, che ha rivolto il testuale “ pressante invito al legislatore ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato, nei processi peanli, violazioni ai principi sanciti all’articolo 6 della CEDU”.

Mi sembra però corretto aggiungere, essendo quasi sempre dimenticato, che la stessa carenza normativa riguardi anche i processi civili ed amministrativi, poiché, seguendo ed adoperando il ragionamento di Corte Costituzionale n.129/08, la sentenza della CEDU non può considerarsi sul piano interno come causa speciale di revocazione della sentenza divenuta giudicato in assenza di previsione nell’art.395 del codice  procedura civile oppure nell’art. 28 della legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali ovvero nell’art.46 del Testo Unico di leggi sul Consiglio di Stato.

La situazione italiana è stata, dunque, dal Consiglio d’Europa giustamente definita allarmante e non più sostenibile, per cui occorre trovare un rimedio efficace e duraturo, dovendo il nostro Stato provvedere e comportarsi secondo le pregevoli norme costituzionali ed in conformità agli obblighi comunitari e convenzionali liberamente sottoscritti.

D’altra parte, nel presente caso non si tratta di violazione di obblighi sinallgmatici, come nelle convenzioni classiche, bensì di adempimenti oggettivamente doverosi e qualificanti il tasso di democrazia e civiltà  dello Stato.

Sennonchè devo notare che, purtroppo, il rimedio idoneo ad eseguire la sentenza della CEDU che comporti la riapertura dei giudicati penali, civili ed amministrati è ormai soltanto di tipo legislativo, non potendosi più affidare né all’attività di “interpretazione adeguatrice” delle norme interne alla convenzione per come interpretata dalla CEDU e neanche alla giurisprudenza interna che ritenesse l’effetto diretto delle sentenze CEDU ovvero l’ineseguibilità della sentenza nazionale passata in giudicato, in quanto queste teorie trascurano, fra l’altro, di considerare che il sistema giudiziario italiano ex art. 101 Costituzione si basa sui giudici che sono “soggetti soltanto alla legge” e non già al precedente giudiziario oppure a gerarchie giudiziarie: com’è ben noto, si tratta di un sistema che ai molti pregi unisce però il difetto della disgregazione delle decisioni giurisdizionali che, evidentemente, lasciano il qui discusso problema privo di soluzione corretta, efficace e rapida.

Com’è poi ben noto, non esiste in Italia una tutela costituzionale  direttamente accessibile, poiché il giudizio della Corte costituzionale è, infatti, per legge previsto come giudizio incidentale e cioè nell’ambito di un processo. Sicchè il giudizio di costituzionalità – che funziona quale giudizio di comparazione di una norma ordinaria con la costituzione – rappresenta, ad un tempo, una soluzione eventuale ed altresì, dati i precedenti citati, almeno di dubbio utile esito, e, per di più, di lunga attesa.

In conseguenza, resta solo il rimedio legislativo implicitamente, ma chiaramente, sollecitato dalla Corte Costituzionale nel punto n. 7 della sentenza n.129/08, considerando, altresì, che soltanto questo rimedio può togliere alla sentenza interna la forza esecutiva del giudicato e giustificare il completo ripristino di ogni modificazione nel frattempo intervenuta.

Se quanto detto vale per dare effetti conformativi interni alla sentenza della CEDU e per adeguare la normativa nazionale alla convenzione per come interpretata dalla Corte, reputo che per eseguire le sentenze di condanna ad un’equa soddisfazione si potrebbe adoperare il procedimento del giudizio d’ottemperanza di diritto processuale amministrativo, sempre che dal Giudice amministrativo venisse accettata la tesi che esse siano direttamente applicabili nello Stato italiano e che sono già definitive allorchè emesse ai sensi dell’art. 44 della convenzione, cosicchè potrebbero essere ritenute giudicato ai sensi dell’art. 27, n.4, del Testo Unico sul Consiglio di Stato che è stato adoperato –prima della legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi- per l’esecuzione delle sentenze amministrative.

Dissento, in fine, dalla tesi che nega, in via di principio, a tali sentenze il valore di titolo giuridico per un’azione di danno ai sensi dell’art. 2043 codice civile, in quanto si tratta proprio di sentenza che accerta una violazione e, dunque, un’ingiustizia che rappresenta, fra gli altri elementi, la qualifica basilare del danno arrecato.

In conclusione, pur col vivo rammarico di aver esposto un panorama non esaltante, ma anzi censurabile, mi auguro che lo Stato italiano si doti al più presto di uno strumento legislativo che, sia pure con le immancabili dispute interpretative, possa fornire una efficace e sicura soluzione sia al problema del rapporto delle norme interne con la convenzione e sia al problema di dare esecuzione all’impegno dello Stato di conformarsi alle sentenze della Corte.