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RELAZIONI

Relazione italiana 3 del dott. G. Demaio – Catanzaro – 26/5/2017

Il principio chi inquina paga fra prevenzione, regolazione e riparazione

Affrontare la tematica del principio chi inquina paga risulta di non facile impostazione alla luce della oggettiva trasversalità dello stesso che spazia dal diritto internazionale a quello europeo per giungere a quello nazionale e in considerazione del suo stretto collegamento con altri principi in materia ambientale (principio di precauzione, principio dello sviluppo sostenibile etc.) che lo rendono parte di un sistema complesso volto a tutelare l’ecosistema.

L’approccio utilizzato nella presente relazione è dunque di inquadramento del principio nell’ambito della più ampia categoria della tutela ambientale che contiene in sé diversi modelli di gestione e diverse fasi; fra tutte quella preventiva, quella regolatoria e quella riparatoria.

L’interpretazione del principio ha costituito oggetto di dibattito, se pur l’orientamento prevalente in dottrina ritiene che esso sia “aperto”, nel senso che può trovare applicazione sia mediante forme di risarcimento del danno ambientale basate sulla responsabilità civile, sia mediante l’irrogazione di sanzioni amministrative, sia attraverso l’istituzione di tributi ambientali.

Infatti va da subito precisato che ai fini di tutela ambientale di certo non basterebbe prevedere solo ed esclusivamente il ristoro di un danno ambientale già avvenuto ma occorre indurre comportamenti “virtuosi” negli operatori che possano “arginare” le conseguenze negative delle loro attività produttive, specie se in re ipsa esso sono pericolose per la salute e l’ambiente.

In tale ottica la dottrina in Italia suole distinguere fra vari modelli di gestione dei problemi ambientali. In particolare individua il modello affidato al diritto privato ed il modello affidato all’intervento pubblicistico.

Circa il primo va da subito precisato che esso attiene alla fase in cui il danno è stato già prodotto. La disciplina sul danno ambientale prevista dalla Parte IV del d.lgs. 152/2006 (codice dell’ambiente), infatti, configura una responsabilità ambientale che, almeno secondo le intenzioni del legislatore, si configura di tipo civilistico fondata sul rimedio risarcitorio e di cui si occuperà in via successiva la Dott.ssa Lo Sapio con riferimento ad alcuni aspetti processuali.

Il principio chi inquina paga, pertanto, in tale accezione, si riferisce alle situazioni in cui un danno è stato cagionato, imponendo che i costi della sua riparazione siano supportati dal responsabile, in una logica di internalizzazione delle esternalità negative. Tuttavia, l’imputazione dei costi che esso comporta produce un forte incentivo per i responsabili dell’inquinamento a investire per migliorare le proprie prestazioni ambientali e per ridurre l’inquinamento. Gli agenti, sapendo di correre il rischio di essere obbligati a risarcire i danni ambientali (esternalità negative) sono indotti ad adottare le misure più opportune finalizzate a ridurre al minimo i rischi di un danno connesso alla propria attività.

Tale rimedio tuttavia mostra i suoi limiti sotto vari profili; fra tutti la circostanza che l’incertezza scientifica influisce sul nesso di causalità rendendo difficile dimostrare che il danno è la conseguenza di una certa azione ed inoltre i danni sono spesso difficilmente quantificabili o monetizzabili in un giudizio risarcitorio.
Nei documenti infatti dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico quanto in quelli comunitari tra gli strumenti di attuazione del principio non compare mai la tecnica riparatoria ma l’attenzione è volta ai meccanismi di natura amministrativa che realizzano una tutela di tipo preventivo.

In tale ottica il principio chi inquina paga concerne il fenomeno del cd. inquinamento continuo, controllabile da parte dell’apparato pubblico nella sua dimensione qualitativa e quantitativa. Non riguarda invece i danni causati da incidenti che esulano da ogni meccanismo di controllo preventivo.
Con riferimento all’inquinamento continuo l’attuazione del principio di realizza tramite strumenti idonei a realizzare una tutela di tipo preventivo.

Appare dunque corretto far riferimento anche ad altri modelli di gestione dei problemi ambientali ed in particolare a quelli affidati all’intervento pubblicistico, rientranti nel cd. command and control.
Tale modello in cui in cui rientrano i poteri autorizzatori, i poteri di pianificazione, i poteri di controllo e quelli sanzionatori, si caratterizza per la fissazione di standard, limiti o divieti generali e per la presenza del soggetto pubblico che può emanare ordinanze per fronteggiare situazione imprevedibili, imporre divieti e ordini e regolamentare l’attività dei privati.

Circa il collegamento fra il principio chi inquina paga e tale modello di tutela ambientale, va sottolineato che il d. lgs. 152/2006 all’art. 3, nell’introdurre i principi dell’azione ambientale fra cui quello de quo, statuisce che tali principi sono regola generali della materia ambientale nell’adozione degli atti normativi, di indirizzo e di coordinamento e nell’emanazione dei provvedimenti di natura contingibile ed urgente.

Sulla scorta di tale richiamo la dottrina dunque sostiene che la disciplina del codice dell’ambiente sia, innanzitutto, una disciplina procedimentale. Ed in tal senso si colloca anche l’opinione di chi (G. ROSSI) sottolinea il ruolo del decisore pubblico nella tutela dell’ambiente affermando che “la protezione dell’ambiente rappresenta il risultato di una pluralità di comportamenti virtuosi da parte dell’insieme di soggetti privati e pubblici e la funzione dell’amministrazione è quella di garantire tale risultato”.

Il tradizionale sistema di regolazione operato attraverso l’azione amministrativa, pertanto, nell’imporre il rispetto delle norme fissate dai pubblici poteri dà attuazione al principio chi inquina paga, costringendo le imprese a sopportare i costi necessari per gli opportuni adeguamenti delle strutture produttive.

Per tutelare l’ambiente, infatti, sono stati predisposti una serie di procedimenti, per lo più autorizzatori, volti a verificare la compatibilità con l’ambiente di certe attività, tentando di bilanciare gli interessi in vista di un‘ottimizzazione della tutela ambientale. Ci si riferisce, in particolare, alle procedure di VAS (valutazione ambientale strategica), di VIA (valutazione di impatto ambientale), AIA (autorizzazione integrata ambientale).

Tuttavia tale sistema non ha incontrato il consenso degli economisti che hanno ritenuto costituisca un sistema poco incentivante e hanno proposto soluzioni alternative tramite la tassazione ambientale e la compravendita dei diritti di inquinamento.

Per fare un esempio, si può considerare il caso della legge Merli (319/76) sugli scarichi, la quale avrebbe dovuto portare alla graduale eliminazione degli scarichi non a norma; tuttavia, a causa dell’eccessiva rigidità, non distingueva tra inquinanti biodegradabili e tossici, nè considerava le condizioni ambientali dei corpi ricettori e ciò portò al suo fallimento.

Si è passati, così, all’uso di strumenti di tipo economico-finanziario, idonei a garantire equilibrio tra «ambiente» e «mercato», migliorando gli standards qualitativi della tutela ambientale, giungendo alla conclusione della necessità di “instrument mix”, e cioè di un approccio multiforme che tenga in debita considerazione l’oggettiva circostanza che i problemi ambientali sono poliedrici.

Circa le tasse ambientali, giova ricordare che l’economista Pigou elaborò una prima proposta di correttivo delle diseconomie esterne in campo ambientale, prevedendo l’introduzione di imposte correttive speciali gravanti sulle attività economiche che causino effetti sociali indesiderati a terzi estranei ad ogni rapporto economico con l’attività da sottoporre a tassazione.

Ad oggi, invece, le imposizioni fiscali previste nell’ordinamento nazionale sono molte, in particolare a livello nazionale troviamo le tasse sulle emissioni di sostanze nocive (tasse sulle emissioni di anidride solforosa (SO2) e di ossido di azoto (NOx) provenienti da grandi impianti di combustione).
Al momento della loro formulazione, questi tributi necessitano di considerazioni che soppesino i vari interessi economici, sociali ed ambientali individuando le modalità e le misure più idonee per permettere appunto uno sviluppo sostenibile. Infatti la tassa che hanno una potenza termica superiore ai 50 MW, trova applicazione e regolamentazione a livello statale.

Va menzionata anche la tassa speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, altrimenti chiamata Ecotassa, istituita con la legge n. 549 del 1995, la cui finalità è espressamente ambientale, posto che la motivazione giustificatrice è data dal fine di ridurre la produzione di rifiuti, incentivarne il recupero di energia o altre materie prime dai rifiuti stessi, finanziare le opere di bonifica dei siti contaminati o le opere di recupero delle aree degradate. In particolare rappresenta un tributo ambientale in senso stretto sulla base della relazione causale e diretta che intercorre tra l’unità fisica impiegata per la commisurazione dell’imposta ed il danno cagionato all’ambiente. Sulla base infatti delle qualità e quantità di rifiuti depositati in discarica, il soggetto passivo del tributo, quale il gestore dell’attività di stoccaggio dei rifiuti, è tenuto al versamento di un ammontare pari al danno effettivo.

Tuttavia, la politica di tutela ambientale non viene attuata solo attraverso l’ausilio di tributi ambientali, bensì è possibile ricorrere ad altri strumenti per la sua realizzazione, spesso molto efficienti. I limiti della tassazione ambientale hanno spinto a impiegare degli incentivi alle imprese, per indurre i produttori a scelte che incidono meno sull’equilibrio ambientale.

Si cerca infatti, di incorporare tutti i costi ambientali prodotti durante la vita del bene, facendo sì che, anche se prodotto secondo criteri ecologici, non subisca dei danni concorrenziali, provocati dai prodotti più inquinanti.
La loro legittimazione risiede nella scelta di singoli e imprese, di porsi su un piano di “competitività non di prezzo”, essi cioè si accollano i maggiori costi derivanti dalla produzione di beni ecologicamente compatibili, dando spazio a mercati in cui i consumatori danno molto rilievo agli aspetti sociali e ambientali.

Gli incentivi possono assumere forme diverse, ad esempio si possono ricordare disposizioni che condizionano il riconoscimento di sgravi contributivi all’osservanza di norme a tutela dell’ambiente, vantaggi procedimentali alle imprese che aderiscono a sistemi di gestione ambientale, sussidi per ammodernare gli impianti di depurazione, contributi finanziari agli enti locali per costruire impianti pubblici di disinquinamento e per incentivare l’innovazione tecnologica a favore di processi produttivi meno inquinanti, senza tralasciare le politiche di promozione relative alle fonti di energie rinnovabili.

Si possono menzionare anche i finanziamenti per stimolare l’acquisto di autoveicoli eco-compatibili, agevolazioni fiscali per incitare ad un maggiore impiego di impianti fotovoltaici per la produzione di energia elettrica da fonte solare. Lo scopo è di influenzare i comportamenti dei produttori incitandoli a rivolgersi verso tecniche ed attività a minore pressione fiscale, ma utili per lo sviluppo eco-compatibile e quindi alla tutela dell’ambiente. Gli interventi sono relativi ad es. alla riqualificazione energetica complessiva di edifici esistenti, alla riduzione della perdita di energia, all’ installazione di pannelli solari, all’installazione di caldaie ad elevata efficienza.

Connessa alla scelta di politica ambientale è la creazione di un “ mercato di diritti di inquinamento”, volto a far sì che le imprese negozino quote di inquinamento, se non considerano più conveniente o non riescano a limitare in altro modo le emissioni inquinanti della loro produzione. Le autorità competenti o con norme o con regolamenti stabiliscono il livello massimo di inquinamento tollerato e rilasciano un certo numero di permessi di inquinamento che corrispondono a quote di inquinamento consentito, lasciando poi alle singole imprese la scelta se investire in tecnologie ecologiche, in impianti di depurazione oppure acquistare i permessi .

Il cd. Emission Trading Scheme, cioè il sistema dei permessi negoziabili, assieme alle tasse ambientali, influenza un comportamento ecologicamente corretto, garantendo il rispetto di un limite di inquinamento, che altrimenti, sarebbe stato violato. Ogni impresa, sulla base di un’analisi dei costi e benefici, deve optare o per l’acquisto o la vendita nel mercato di una quota di inquinamento (imprese con maggiore costo di disinquinamento tendono a comprare), oppure rivolgersi a forme alternative di produzione meno inquinanti (imprese con costi minori tendono a vendere).

Esso prevede determinate quote di CO2 che le imprese possono produrre, eventualmente comprando quelle necessarie per coprire le quote in eccesso. Ovviamente a strumenti diversi corrispondono costi e benefici diversi. Mentre i permessi negoziabili richiedono maggiori controlli, pur garantendo maggiore certezza di risultati, i tributi sono più facilmente applicabili e influenzano maggiormente i comportamenti e garantiscono una produzione di gettito, ottenibile dai primi solo attraverso un’asta pubblica delle quote.

Nell’ambito dei permessi rientrano i cd Certificati verdi, disciplinati dall’art 11 del d.lgs.16 marzo 1999 n. 79, che impone a coloro che producono o importano energia elettrica da fonte non rinnovabile di immettere ogni anno nel sistema elettrico nazionale una quota di energia prodotta da fonti rinnovabili. Il Gestore dei servizi elettrici, rilascia infatti ai produttori in possesso di tali impianti IAFR tali certificati verdi, i quali, hanno la peculiarietà di poter essere oggetto di scambio e di negoziazioni bilaterali da parte di produttori che non possono o non ritengono opportuno investire in impianti di energia rinnovabili, ma gravati dall’obbligo di legge.

L’obbligo di legge, pertanto, può essere adempiuto o attraverso la produzione/immissione diretta di elettricità da fonti rinnovabili e/o acquistando diritti rilasciati ad altri produttori di energia rinnovabile (la cui produzione, evidentemente, eccede la loro quota-dovuta). Lo scopo è quello di incrementare il ricorso a fonti di energia rinnovabili, sulla base di un obbligo di legge. I produttori in tal modo ricevono un finanziamento in ragione dell’energia pulita prodotta, che si aggiunge alla vendita dell’energia generata.

Un ulteriore meccanismo di tutela ambientale è il sistema di cauzioni. Tale strumento è stato per lo più utilizzato per la riduzione dei costi. Un esempio è la cauzione sui contenitori di bevande, in particolare di vetro, consiste in un deposito all’atto dell’acquisto ed un rimborso all’atto della restituzione del contenitore. Impiegato per lo più in un ‘ottica preventiva, combina in sé elementi propri della tassazione e del sussidio e ne massimizza i vantaggi, consentendo di raggiungere gli effetti tipici di una tassa, tuttavia garantendone il rimborso perciò più facilmente sopportabile dai consociati.
Permette il recupero a costo ridotto di materiali difficilmente smaltibili, senza danni ambientali, un esempio sono, le batterie esauste, ovvero le ipotesi in cui si voglia ottenere il riciclaggio per evitare un inutile spreco di risorse facilmente riciclabili, quali, ad esempio, il vetro o l’alluminio. L’ iniziativa può essere degli stessi operatori economici privati (per finalità economiche),oppure di quelli pubblici per incentivare il riciclaggio.

Da ultimo occorre aggiungere qualche osservazione circa le fasi finali di attuazione del principio chi inquina paga, e cioè quella della riparazione e del ripristino.

L’azione di riparazione, così come delineata dal codice dell’ambiente, comprende due tipologie di iniziative, quelle volte a “controllare, circoscrivere, eliminare o gestire in altro modo, con effetto immediato” gli inquinanti o qualsiasi altro fattore di danno da una parte e, dall’altra le vere e proprie misure di riparazione, a seconda della tempestività dell’intervento. L’autorità competente può approvare le misure di riparazione proposte dall’operatore o deciderle essa stessa anche con la sua collaborazione.

La riparazione del danno all’acqua o alle specie e agli habitat naturali protetti consiste nel riportare l’ambiente alle condizioni originarie e ciò è possibile tramite tre misure di riparazione.
In primis vi è la riparazione “primaria”, costituita da misure in grado di riportare le risorse e/o i servizi danneggiati alle condizioni originarie o verso esse.
Segue la riparazione “complementare”, consistente in qualsiasi intervento finalizzato a compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati. Lo scopo è quello di ottenere, se opportuno anche in un sito alternativo, un livello di risorse naturali e/o servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie.
Da ultimo vi è la riparazione “compensativa”, comprendente qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita contemporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo, vale a dire fino al momento in cui le risorse e/o i servizi siano stati ripristinati o almeno ricondotti verso le condizioni originarie.
Le perdite temporanee sono quelle che derivano dal mancato svolgimento delle normali funzioni ecologiche o dalla mancata fornitura di servizi ad altre risorse naturali o al pubblico. La compensazione, dunque, consiste in ulteriori miglioramenti delle risorse naturali nel sito danneggiato o in un sito alternativo, non è una compensazione finanziaria al pubblico.

Le azioni di riparazione primaria da intraprendere sono quelle utili a riportare direttamente le risorse naturali e i servizi alle condizioni originarie in tempi brevi o tramite il ripristino naturale.

In tali casi, l’autorità competente può prescrivere il metodo, ad esempio la valutazione monetaria, per determinare la portata delle necessarie misure di riparazione complementare e compensativa. Se tuttavia la valutazione delle risorse di sostituzione non può essere eseguita in tempi e a costi ragionevoli, l’autorità competente può scegliere misure di riparazione il cui costo sia equivalente al valore monetario stimato delle risorse e/o servizi perduti.

La scelta delle opzioni di riparazione dovrebbe avvenire con l’aiuto delle migliori tecnologie disponibili, valutando una serie di criteri: l’effetto sulla salute e la sicurezza pubblica; il costo di attuazione; la probabilità di successo, la misura in cui ciascuna opzione impedisce danni futuri e collaterali in seguito alla sua attuazione; la misura in cui giova ad ogni componente della riosrsa naturale e/o del servizio; la misura in cui ciascuna opzione tiene conto dei pertinenti aspetti sociali, economici e culturali e di altri fattori specifici della località; il tempo necessario per l’efficace riparazione del danno ambientale; la misura in cui ciascuna opzione realizza la riparazione del sito colpito dal danno; il collegamento geografico al sito danneggiato.

In deroga a quanto appena descritto, l’autorità competente può decidere di non intraprendere ulteriori misure di riparazione qualora, a seguito delle misure già adottate, non esiste più un rischio significativo di effetti nocivi per la salute umana, l’acqua, le specie e gli habitat naturali protetti e i costi delle misure di riparazione primaria siano sproporzionati rispetto ai vantaggi ambientali ricercati.

In applicazione del principio comunitario “chi inquina paga”, il D.lgs 152/2006 stabilisce che i costi necessari per realizzare le misure di prevenzione e ripristino ambientale sono posti a carico dell’operatore responsabile del danno anche esercitando l’azione di rivalsa, qualora le spese siano anticipate per garantire un intervento immediato nel caso in cui il responsabile rimanga inerte o non sia individuato.

In conclusione va ricordato l’opinione di autorevole dottrina (FRACCHIA) secondo cui l’approccio a molti problemi ambientali richiede l’apporto della scienza, la quale non è in grado di dare certezze assolute. Le altre caratteristiche dei problemi ambientali sono la globalità e le asimmetrie informative. Infatti i problemi ambientali hanno un carattere globale ed una profondità temporale e spaziale per cui noi subiamo gli effetti ambientali di comportamenti tenuti da altri in tempo diverso o luogo diverso dal nostro.
Basti pensare al rapporto fra il fenomeno del global warming e le prospettive per le generazioni future. Come conseguenza di ciò diventa difficile individuare i responsabili e inoltre i pregiudizi causati hanno molto spesso carattere diffuso.
In tale contesto compito del diritto, dunque, è anche quello di “attutire” e di “gestire” gli effetti collegati a cause su cui non si può incidere (terremoti etc..) posto che in tale settore rileva, altresì, il tema delle asimmetrie informative che possono colpire chi è danneggiato da un problema ambientale o il decisore pubblico che non hanno le necessarie informazioni per decidere o provare un danno.

Relazione italiana del dott. Antonio Plaisant – Cagliari – 8/6/2018

1. Nozioni preliminari

Nell’ordinamento italiano la tutela del territorio è affidata a molteplici strumenti normativi e amministrativi.

Esistono, in primo luogo, previsioni normative volte a garantire che l’edificazione di qualunque suolo, pubblico o privato, si svolga in modo compatibile con standard minimi di vivibilità e salubrità: si tratta delle norme edilizie, che fanno capo al d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, oltre che, per alcuni aspetti relativi ai rapporti di vicinato, al codice civile.

Ugualmente di tenore generale sono le previsioni normative finalizzate a garantire che l’utilizzo dei suoli avvenga nell’ambito di una strategia complessiva degli interventi: si tratta delle previsioni urbanistiche, contenute negli atti di pianificazione del corretto utilizzo del territorio, adottati a diversi livelli di governo, ma principalmente a livello comunale; in questi atti pianificatori l’amministrazione predetermina il tipo di utilizzo (c.d. “destinazione urbanistica”) consentito per ogni singola porzione del territorio, assicurando così il complessivo equilibrio tra zone a destinazione residenziale, industriale, commerciale, etc., nonché la presenza di adeguate infrastrutture e opere pubbliche.

Vi sono, poi, regole finalizzate a garantire adeguata protezione a specifiche parti del territorio considerate rilevanti dal punto di vista paesaggistico e ambientale, secondo la disciplina generale di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42: in questi casi le autorità amministrative preposte possono imporre appositi vincoli paesaggistici, cioè provvedimenti amministrativi che vietano la modificazione dell’area interessata (vincoli assoluti) ovvero la subordinano a previa valutazione, da parte dell’amministrazione, circa la compatibilità con il paesaggio protetto (vincoli relativi).

Chiunque intenda realizzare un’opera che comporti una stabile modificazione del territorio, ad esempio un edificio destinato a civile abitazione o ad attività commerciale, deve chiedere la relativa autorizzazione (c.d. permesso di costruire) o in alternativa (per interventi di minore impatto) comunicare l’inizio dei lavori affinché l’amministrazione possa verificare la compatibilità dell’intervento con la normativa vigente (c.d. segnalazione certificata di inizio attività).

Se l’opera è prevista su un’area sottoposta a vincolo paesaggistico (relativo), la sua realizzazione presuppone, come detto, il rilascio di una specifica autorizzazione amministrativa, denominata nulla osta paesaggistico.

Si definisce “abuso” qualunque intervento umano che modifichi il territorio in assenza o in difformità dalle autorizzazioni amministrative necessarie; a seconda del tipo di norma violata (e del relativo interesse tutelato) l’abuso sarà “edilizio” ovvero “paesaggistico”.

Ovviamente è possibile che un medesimo manufatto violi entrambe le tipologie di norme (e correlativi interessi protetti), comportando allo stesso tempo un abuso edilizio e paesaggistico.

2. L’apparato sanzionatorio

L’utilizzo del territorio è affidato alla vigilanza di enti pubblici, che se accertano un abuso applicano sanzioni a carico del suo autore.

Tali sanzioni sono di diversa natura e intensità, a seconda della tipologia e gravità dell’abuso, in generale si possono distinguere sanzioni amministrative e penali.

Le sanzioni amministrative sono di natura pecuniaria (in sostanza, delle multe) ovvero ripristinatoria (ordini rivolti all’autore dell’abuso per costringerlo a demolire il manufatto).

In alcuni casi la legge prevede che -se l’autore dell’abuso non esegue la demolizione- l’opera e il terreno sottostante sono acquisiti al patrimonio pubblico.

Il soggetto cui vengono inflitte le sanzioni può impugnare il relativo provvedimento sanzionatorio innanzi al giudice amministrativo.

Sono previste determinate sanzioni per gli abusi edilizi e altre sanzioni per gli abusi paesaggistici, ma le due tipologie (e correlative sanzioni) si cumulano se il manufatto integra entrambi i tipi di illecito.

Le sanzioni penali sono previste per quei particolari abusi, sia edilizi che paesaggistici, previsti dalla legge come reati.

L’applicazione delle sanzioni penali è riservata al giudice ordinario.

3. Gli strumenti di sanatoria degli abusi

Il legislatore prevede alcuni strumenti che consentono all’autore dell’abuso di ottenere una “sanatoria”, cioè un provvedimento amministrativo in grado di “riportare ex post” il manufatto nell’ambito della legalità.

Così come esistono diversi tipi di abuso (edilizio e paesaggistico), e correlative sanzioni, allo stesso modo esistono due differenti procedimenti per la sanatoria (edilizia e paesaggistica), sottoposti a differente disciplina normativa.

La sanatoria degli abusi edilizi è, in via generale, affidata a un meccanismo denominato “doppia conformità” o anche “accertamento di conformità”, disciplinato dall’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001.

Esso è applicabile soltanto a opere che, seppur realizzate in assenza di un titolo edilizio, sono sostanzialmente compatibili con la vigente disciplina edilizia e urbanistica; in particolare, il comune può adottare il provvedimento di sanatoria se il manufatto è compatibile tanto con la normativa edilizia e urbanistica esistente al momento di realizzazione dell’abuso quanto con quella (eventualmente) sopravvenuta al momento della richiesta di sanatoria.

Quest’ultima è subordinata al pagamento di una somma di denaro, di importo maggiore rispetto agli oneri di urbanizzazione previsti ai fini del “nomale” permesso di costruire, per attribuire alla fattispecie una portata (anche) sanzionatoria.

La sanatoria degli abusi paesaggistici è regolata dall’art. 181 del d.lgs. n. 42/2004, che la subordina alla positiva valutazione dell’amministrazione circa la compatibilità paesaggistica del manufatto realizzato senza autorizzazione preventiva (c.d. nulla osta paesaggistico in sanatoria).

A differenza di quanto si è visto per gli abusi edilizi, solo alcune tipologie di abusi paesaggistici, considerate a priori meno gravi, sono suscettibili di sanatoria, in particolare sono sanabili:

  • gli abusi che non abbiano determinato creazione di nuove superfici utili o di nuovi volumi;
  • gli abusi consistenti nell’impiego di materiali difformi rispetto a quelli previsti nell’autorizzazione paesaggistica;
  • gli abusi consistenti in lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria.

Tutti gli altri abusi paesaggistici, prima di tutto quelli che hanno comportato la realizzazione di nuovi volumi e/o di nuove superfici utili, non possono fruire della sanatoria postuma.

Questo regime, più severo rispetto a quello della sanatoria degli abusi edilizi, si spiega in relazione al fatto che –per proteggere più efficacemente un bene considerato di alto rango, come il paesaggio– il legislatore ha ritenuto opportuno disincentivare gli abusi gravi vietandone a priori la sanatoria; in altre parole, chi intende realizzare un manufatto in area paesaggisticamente vincolata deve sapere che se l’intervento comporta nuovi volumi o superfici utili l’unico sistema per “metterlo a norma” è quello di chiedere il nulla osta preventivo, mentre se l’opera viene realizzata in assenza di tale autorizzazione iniziale risulterà, poi, non sanabile, per cui in caso di accertamento dovrà essere demolita, salva la possibilità di chiedere successivamente il nullaosta per ricostruirla nuovamente.

Se un’opera si pone in contrasto, allo stesso tempo, con la normativa edilizia e con quella paesaggistica, per sanarla è necessario che sussistano i presupposti di entrambe le tipologie di sanatoria, che dovranno essere attivate entrambe e i relativi procedimenti si svolgeranno parallelamente.

Ai sistemi ordinari di sanatoria degli abusi si aggiungono meccanismi straordinari, previsti da leggi speciali, che vengono denominati condoni.

In questi casi la legge consente la sanatoria di abusi anche gravi e oltre i limiti generali sopra descritti.

Questo tipo di scelta normativa -da sempre criticata perché da molti ritenuta “diseducativa” per il cittadino- trova fondamento in due obiettivi di politica legislativa:

  • “fare cassa”, essendo il condono subordinato al pagamento di elevate sanzioni pecuniarie;
  • riportare nell’ambito della legalità contesti edilizi degradati perché interessati da gravi e ripetuti abusi edilizi non adeguatamente sanzionati.

Nel tempo sono state varate molteplici leggi di condono, caratterizzate da presupposti non sempre coincidenti, ma come regola generale sono stati esclusi dalla sanatoria solo alcuni abusi più gravi, come le lottizzazioni abusive (vedi infra) e le opere realizzate in zone soggette a vincolo paesaggistico assoluto (vedi supra).

Il notevole numero di richieste di condono, soprattutto nelle aree meridionali del Paese, ha comportato l’accumularsi di gravissimi ritardi nella definizione delle relative pratiche, tanto che molti comuni hanno dovuto costituire appositi “uffici-condono” e si trovano tuttora a esaminare richieste risalenti a svariati decenni addietro; nel frattempo l’opera abusiva resta, ovviamente, in piedi.

Un’ultima notazione è che il rilascio del provvedimento di sanatoria (sia per gli abusi edilizi che per quelli paesaggistici) comporta, oltre alla regolarizzazione del manufatto sotto il profilo amministrativo, l’estinzione dei connessi reati, laddove previsti.

4. Le principali criticità che emergono nella repressione degli abusi edilizi e paesaggistici

 4.1. Premessa

La prassi ha evidenziato rilevanti difficoltà nell’espletamento dell’attività di vigilanza e repressione degli abusi edilizi e paesaggistici, legate a ostacoli di ordine sia pratico che giuridico.

4.2. Le criticità pratiche

Una prima criticità è legata al fatto che -soprattutto in alcune zone d’Italia- il sistema di pianificazione urbanistica è entrato effettivamente in vigore con ritardo e in modo inefficiente e/o incompleto, il che ha comportato lo sviluppo di edificazioni disordinate e difficili da “ricondurre a sistema”, incentivando ampliamenti e nuove costruzioni abusivi.

Un secondo profilo è rappresentato dal frequente utilizzo dello strumento del condono (vedi supra), che ha spesso incentivato nuovi abusi realizzati proprio confidando sulla futura adozione di una nuova legge di condono.

Un terzo elemento è costituito dalla carenza di personale che cronicamente affligge gli enti deputati alla vigilanza edilizia, prima di tutto i comuni.

Un quarto ostacolo è insito nel fatto che gli organi amministrativi deputati allo svolgimento dell’attività repressiva si trovano spesso “a stretto contatto” con la popolazione -soprattutto nei centri urbani di piccole e medie dimensioni- il che comporta una certa “riluttanza” a operare interventi repressivi incidenti sulla sfera soggettiva di soggetti con i quali esistano legami di parentela, amicizia o anche solo di conoscenza, ma comunque utili sotto il profilo elettorale.

Per arginare questo fenomeno patologico, alcuni recenti interventi normativi -a partire dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, c.d. “legge anticorruzione”- hanno inserito l’attività di repressione degli abusi edilizi e paesaggistici tra quelle “a maggior rischio corruzione”, sottoponendola a misure preventive specifiche, tra cui la rotazione periodica del personale preposto.

4.3. Le criticità giuridiche

Il sistema italiano di repressione degli abusi edilizi e paesaggistici si caratterizza per una notevole complessità e, sotto certi profili, distonia rispetto a canoni generali dell’azione amministrativa, specialmente quella di carattere sanzionatorio, il che ha comportato l’insorgere di questioni giuridiche complesse.

Un primo profilo da sottolineare è la (già segnalata) sovrapposizione di competenze attribuite a organi diversi, sia amministrativi che giurisdizionali.

Ciò vale, in primo luogo, per i meccanismi di sanatoria, che necessariamente vengono in rilievo in via preventiva rispetto all’applicazione della sanzione, giacché prima di ordinare la demolizione occorre verificare se sussistano i presupposti per sanare l’abuso.

Si pensi all’esame delle richieste di sanatoria paesaggistica, che coinvolgono:

  • il comune, chiamato a redigere una relazione preliminare sull’istanza di sanatoria;
  • la regione o la soprintendenza (organo statale), che esprimono un parere vincolante;
  • il comune nuovamente, che deve concludere la procedura con il rilascio del nulla osta postumo o con il suo formale diniego.

Tutto ciò comporta un evidente aggravio dei tempi di definizione delle richieste di sanatoria, in pendenza delle quali resta sospeso anche il connesso procedimento sanzionatorio.

Già si è evidenziato, inoltre, che certi abusi edilizi e paesaggistici costituiscono, allo stesso tempo, reato e illecito amministrativo, con la conseguente competenza della pubblica amministrazione ad applicare la sanzione amministrativa (poi impugnabile di fronte al giudice amministrativo) e del giudice penale ad applicare la sanzione penale.

In tali ipotesi possono emergere persino conflitti (cc.dd. indiretti) tra pronunce giurisdizionali, come nel caso in cui il giudice amministrativo annulla il diniego del titolo edilizio in sanatoria, ritenendolo illegittimo, e il giudice penale condanna, invece, l’autore del manufatto per il relativo reato o quanto meno procede al sequestro penale del cantiere, ritenendo che la sua realizzazione costituisca, appunto, reato.

Di tutto ciò fanno inevitabilmente le spese:

  • le amministrazioni, spesso in difficoltà nella gestione di un sistema così articolato;
  • gli stessi cittadini interessati alla sanatoria e/o colpiti da provvedimenti sanzionatori, i quali devono confrontarsi con procedimenti complessi, gestiti da autorità diverse, e magari difendersi contemporaneamente in più sedi giurisdizionali: quella penale, quella amministrativa e, in alcuni casi, persino quella civile, laddove la controversia edilizia si colleghi a rapporti di vicinato.

Un secondo fattore di criticità giuridica emerge laddove trascorra un notevole lasso di tempo tra il momento della realizzazione del manufatto abusivo e quello della sua scoperta da parte dell’attività amministrativa, chiamata ad applicare le sanzioni, magari, a distanza di decenni.

Tale eventualità ha sollevato due problemi, entrambi delicati.

Il primo problema riguarda la disciplina applicabile.

Infatti, poiché in materia sanzionatoria dovrebbe operare il principio penalistico di irretroattività normativa, è inevitabile porsi la seguente domanda: può essere applicata una sanzione prima non prevista, perché introdotta da una legge successiva alla realizzazione dell’abuso?

La risposta della giurisprudenza, dopo varie oscillazioni, è ora di tenore prevalentemente positivo, ritenendosi applicabili (anche) sanzioni introdotte da leggi successive alla realizzazione del manufatto; si è, infatti, ritenuto che gli illeciti edilizi e paesaggistici -impattando in modo duraturo sul territorio- siano di “natura permanente” e perciò siano da considerare “sempre in corso” sino alla demolizione dell’opera abusiva.

Per la stessa ragione la prevalente giurisprudenza penale esclude che il termine di prescrizione del reato edilizio o paesaggistico cominci a decorrere sino a quando l’opera resta in piedi.

Il secondo problema giuridico riguarda la tutela dell’affidamento del proprietario del manufatto abusivo, nel caso in cui -dopo la sua realizzazione- l’amministrazione ometta per lungo tempo (magari per svariati decenni) di adottare un ordine di demolizione.

Su tale questione la giurisprudenza amministrativa ha cambiato più volte opinione, tanto che:

  • tradizionalmente riteneva che il trascorrere del tempo non fosse di alcuno ostacolo all’adozione dell’ordine di demolizione del manufatto abusivo;
  • successivamente ha ritenuto che l’infruttuoso decorso di un lungo periodo di tempo ingenerasse nel proprietario del manufatto -specie se persona diversa dall’autore dell’abuso- un affidamento meritevole di tutela, per cui l’amministrazione avrebbe potuto adottare successivamente l’ordine di demolizione solo motivando specificamente sulla gravità dell’abuso e sulla sua portata concretamente lesiva del territorio e del paesaggio;
  • negli ultimi tempi si è sostanzialmente tornati all’impostazione tradizionale, avendo il Consiglio di Stato, in Adunanza Plenaria, affermato che il trascorrere di un tempo anche molto lungo dalla realizzazione dell’abuso non comporta alcun affidamento meritevole di tutela in capo al proprietario del manufatto e, quindi, non incide sul potere repressivo dell’amministrazione, la quale può fondare l’ordinanza di demolizione sul solo carattere abusivo dell’opera, senza esprimere alcuna ulteriore valutazione e motivazione[1].

5. Una fattispecie particolare: la lottizzazione abusiva

Esiste una fattispecie di abuso edilizio considerata particolarmente grave e come tale soggetta a regole particolari: si tratta della c.d. lottizzazione abusiva, che costituisce (anche) reato di una certa gravità.

Attualmente la fattispecie è disciplinata all’art. 30 del d.p.r. n. 380/2001[2], che individua due distinte ipotesi di lottizzazione abusiva:

  • la c.d. “lottizzazione abusiva cartolare”, che si ha quando un terreno urbanisticamente destinato a uso agricolo (uso che, per sua natura, presuppone estensioni ampie) viene formalmente frazionato (mediante modifica catastale) e ceduto a terzi in porzioni separate, il che ne evidenzia il potenziale utilizzo edificatorio, ovviamente vietato in zona agricola;
  • la c.d. “lottizzazione abusiva materiale”, che si ha quando un terreno urbanisticamente destinato a uso agricolo -pur senza il formale frazionamento sopra descritto- viene materialmente diviso in più lotti e dotato di infrastrutture (ad esempio, le strade di accesso ai singoli lotti) che ugualmente ne evidenziano il potenziale utilizzo edificatorio, come detto incompatibile con la zona agricola.

La lottizzazione abusiva è un illecito di carattere preventivo, giacché le relative condotte -in quanto sintomatiche di un intento edificatorio riferito a un’ampia porzione di territorio in cui ciò non è consentito- sono considerate abusive (e costituenti reato) a prescindere dalla successiva realizzazione dei relativi manufatti; questo perché il legislatore considera particolarmente pericolosa un’operazione abusiva mossa da obiettivi speculativi e che, comunque, coinvolge un’ampia porzione di territorio.

L’apparato sanzionatorio predisposto dal legislatore in materia di lottizzazione abusiva è particolarmente severo, essendo sempre prevista la confisca (cioè l’acquisizione delle aree interessate al patrimonio pubblico), che può essere disposta sia dall’autorità amministrativa sia dal giudice penale che procede per il reato di lottizzazione abusiva.

Non è previsto alcun meccanismo di sanatoria, né in relazione alle aree interessate né, tanto meno, in relazione agli eventuali manufatti realizzati in violazione della destinazione agricola.

Questa disciplina era stata poi interpretata dalla giurisprudenza nazionale in termini particolarmente rigorosi, considerando applicabile la misura della confisca a prescindere dal fatto che risultasse provata la c.d. “buona fede soggettiva” dei singoli proprietari, cioè a prescindere dal fatto che gli stessi fossero a conoscenza (dolo) o comunque potessero rendersi conto in base alle circostanze del caso concreto (colpa) del programmato intervento edificatorio. Nella prassi tale impostazione ha reso possibile la confisca del fondo compreso nella lottizzazione abusiva (anche) a carico, ad esempio, di un acquirente del tutto ignaro del complessivo intento del lottizzante abusivo.

Sull’argomento sono però successivamente intervenute la Corte Europea dei diritti dell’Uomo[3] e la Corte costituzionale[4], precisando che la confisca riveste la natura di “sanzione intrinsecamente penale”, la quale, anche se applicata da un’autorità amministrativa (invece che dal giudice penale), può essere disposta solo a condizione che risulti la “coscienza e volontà” del proprietario/acquirente del fondo circa l’esistenza della lottizzazione abusiva.

Secondo entrambe le Corti, infatti, l’opposta soluzione adottata dalla giurisprudenza italiana -propensa, come detto, ad applicare la sanzione della confisca in termini rigorosamente oggettivi- si poneva in contrasto l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e con l’art. 1 del protocollo 1 allegato alla stessa Convenzione, “trattandosi di sanzione penale la cui applicabilità al caso di specie non era chiaramente prevista dalla legge, e sproporzionata rispetto allo scopo di tutela ambientale perseguito” (così, testualmente, la C.e.d.u.)

A queste puntualizzazioni si è poi attenuto il Consiglio di Stato, concludendo negli stessi termini in alcune successive pronunce[5].

In particolare il giudice amministrativo italiano ha precisato che:

  • la buona fede dell’acquirente non può essere esclusa a priori, essendo piuttosto oggetto di una verifica da effettuarsi in base alle circostanze del caso specifico, fermo restando che il relativo onere della prova (sulla mala fede dell’acquirente del terreno) grava sull’amministrazione;
  • tale prova non può, dunque, fondarsi soltanto su una (inesistente) presunzione di conoscenza del regime urbanistico ed edilizio risultante dagli atti di pianificazione urbanistica;
  • deve, allora, considerarsi in buona fede, salvo specifica prova contraria, il cittadino non esperto della materia che abbia acquistato il bene senza ricevere alcuna obiezione del notaio rogante; difatti il cittadino comune non dispone, per regola, delle conoscenze necessarie per operare autonomamente tali verifiche, sicché il suo obbligo di diligenza deve ritenersi assolto nel momento in cui si è affidato a un professionista qualificato, cui ha rappresentato lealmente i fatti di cui è a conoscenza;
  • la buona fede soggettiva dell’acquirente deve essere, invece, esclusa laddove risulti che egli poteva rendersi conto della situazione in qualunque modo -ad esempio per avere esercitato il diritto di accesso agli atti della pratica edilizia- e questo sulla base del principio generale di cui all’art. 1147 cod. civ., secondo cui “La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave”.

Inoltre il Consiglio di Stato ha precisato che le “garanzie soggettive” sopra descritte riguardano la sola confisca del bene, per la quale si richiede appunto la colpevolezza del proprietario del fondo, mentre non condizionano gli ulteriori effetti previsti dalla legge in materia di lottizzazione abusiva -quali i divieti di proseguire le opere e di cedere il fondo a terzi- perché tali divieti non tendono a sanzionare bensì a impedire ulteriori conseguenze dell’abuso e perciò trovano adeguato fondamento nella (sola) oggettiva esistenza dello stesso.

[1]  Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 17 ottobre 2017, n. 9.

[2] Che così testualmente recita, per quanto interessa ai fini della presente trattazione: “1. Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio. 2. Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica sia in forma privata, aventi ad oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali relativi a terreni sono nulli e non possono essere stipulati né trascritti nei pubblici registri immobiliari ove agli atti stessi non sia allegato il certificato di destinazione urbanistica contenente le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’area interessata. …7. Nel caso in cui il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale accerti l’effettuazione di lottizzazione di terreni a scopo edificatorio senza la prescritta autorizzazione, con ordinanza da notificare ai proprietari delle aree ed agli altri soggetti indicati nel comma 1 dell’articolo 29, ne dispone la sospensione. Il provvedimento comporta l’immediata interruzione delle opere in corso ed il divieto di disporre dei suoli e delle opere stesse con atti tra vivi, e deve essere trascritto a tal fine nei registri immobiliari. 8. Trascorsi novanta giorni, ove non intervenga la revoca del provvedimento di cui al comma 7, le aree lottizzate sono acquisite di diritto al patrimonio disponibile del comune il cui dirigente o responsabile del competente ufficio deve provvedere alla demolizione delle opere. In caso di inerzia si applicano le disposizioni concernenti i poteri sostitutivi di cui all’articolo 31, comma 8… 10. Le disposizioni di cui sopra si applicano agli atti stipulati ed ai frazionamenti presentati ai competenti uffici del catasto dopo il 17 marzo 1985, e non si applicano comunque alle divisioni ereditarie, alle donazioni fra coniugi e fra parenti in linea retta ed ai testamenti, nonché agli atti costitutivi, modificativi od estintivi di diritti reali di garanzia e di servitù.

[3] Si fa riferimento alla pronuncia della Corte europea diritti dell’Uomo, Sez. II, 20 gennaio 2009, in ricorso n. 75909/01, Sud Fondi c. Italia.

[4]  Si fa riferimento alla sentenza della Corte costituzionale 26 marzo 2015, n. 49.

[5] Si fa riferimento a Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 luglio 2017, n. 3750 e 20 settembre 2017, n. 4399

Relazione italiana dell’avv. Giovanni Spadea – Trento – 3/10/2008

L’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in Italia

Il tema del convegno è molto importante per la civiltà giuridica e per la vera democrazia negli Stati europei, che nel sottoscrivere la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ben sapevano che, ai sensi dell’art.1 della Convenzione stessa, avevano preso l’impegno di rispettarla e di non violarla, accettando al contempo la giurisdizione della Corte.

Si tratta di obblighi convenzionali che –come ritenuto nella risalente decisione CEDU del 11.01.1961 dell’Austria c. Italia– sono privi del carattere classico della reciprocità ed hanno, invece, natura di obbligazioni essenzialmente oggettive, come si deduce dalle premesse della Convenzione, nelle quali è, fra l’altro, scritto che  le libertà fondamentali “costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo” e che gli Stati europei sono “forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, a prendere le prime misure adatte ad assicurare la garanzia collettiva di certi diritti enunciati nella Dichiarazione Universale” dei diritti dell’uomo.

Mi pare, quindi, evidente che il tema si incentri sul raggiungimento dell’effettiva tutela delle libertà e dei diritti tutelati dalla Convenzione anche nella fase successiva alla tutela giudiziale interna, considerata la disciplina dell’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (che citerò con sigla CEDU) mediante le regole poste dall’art. 46 della vigente Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il quale contiene le seguenti letterali disposizioni: “1. Le Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte per le controversie di cui sono parti.

  1. 2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione.
  2. Ove il Comitato dei Ministri ritenga che la sorveglianza di una sentenza definitiva è intralciata dalla difficoltà d’intepretare tale sentenza, esso può investire la Corte affinché si pronunzi su tale questione d’interpretazione. La decisione di investire la Corte è presa con voto a maggioranza di due terzi dei rappresentanti aventi diritto ad un seggio nel Comitato.
  3. Ove il Comitato dei Ministri ritenga che un’Alta Parte contraente rifiuti di attenersi ad una sentenza definitiva in una controversia di cui è parte, esso può, dopo aver messo in mora questa Parte e mediante una decisione adottata con un voto a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti aventi diritto ad un seggio nel Comitato, investire la Corte della questione dell’osservanza di questa Parte degli obblighi relativi al paragrafo 1.
  4. Se la Corte accerta una violazione del paragrafo 1, essa rinvia il caso al Comitato dei Ministri affinché esamini i provvedimenti da adottare. Qualora la Corte accerti che non vi è stata violazione del paragrafo 1, essa rinvia il caso al Comitato dei Ministri, il quale decide di porre fine al suo esame”.

L’articolo 46 riportato, che riproduce anche due precedenti disposizioni della convenzione, è stato ancora di recente così modificato dall’art. 16 del Protocollo 14 che è stato ratificato dalla Repubblica Italiana il 07.03.2006, in seguito alla Legge 15.12.2005, n. 280.

 Con il nuovo attuale testo dell’art. 46 si parla di conformazione e non di immediata esecutività della sentenza CEDU, mentre la forza esecutiva della sentenza della Corte di Giustizia U.E. è testualmente dichiarata dagli artt. 244 e 256 del Trattato U.E..

 Con esso si è voluto, onde rinforzare la garanzia della tutela stabilita dalla Convenzione, far superare al Comitato dei Ministri sia le difficoltà interpretative influenti sull’esecuzione della sentenza di condanna dello Stato membro convenuto sia il rifiuto dello Stato membro di conformarsi alle sentenze della Corte che vengono trasmesse al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, cui risulta assegnata la funzione di sorveglianza sull’esecuzione di esse; sorveglianza da intendere non già poliziesca bensì di aiuto e di stimolazione alla corretta ed effettiva esecuzione della sentenza CEDU, la quale di norma accerta e dichiara che un provvedimento giudiziario dello Stato membro ha violato un diritto tutelato dalla convenzione.

Come si può subito notare, la disposizione del riportato primo paragrafo dell’art. 46 si dirige direttamente agli Stati che hanno sottoscritto ( stipulato ) la Convenzione, contraendo essi anche l’impegno di conformarsi alle sentenze della Corte, attività conformativa necessaria ed effettiva sulla quale esercita la sorveglianza –come prevede il secondo paragrafo- il Comitato dei Ministri.

 A tal proposito occorre (anzitutto) precisare che il suddetto primo paragrafo dell’art. 46 fa chiaro ed espresso riferimento soltanto alle sentenze definitive della Corte, cioè a quelle che l’art. 44 della Convenzione individua come sentenze definitive ed alle quali lo Stato condannato deve –per suo obbligo oggettivo- dare esecuzione.

E’ pure necessario ricordare che la sentenza della Corte di norma non è di tipo annullatorio-cassatorio, bensì di natura essenzialmente accertativa-dichiarativa (cfr. CEDU sentenza 13.06.1979 caso Marckx / Belgio) della violazione della convenzione da parte dello Stato membro che è la normale parte resistente o il soggetto contro cui è rivolto il ricorso e quindi contro il quale è pronunciata la sentenza: in breve, proprio questa peculiare natura della sentenza –anche quando accorda al ricorrente un’equa soddisfazione in seguito alla dichiarata violazione della convenzione (cfr. l’art.41 Conv.)– rende ben evidente l’insorgenza del problema costituito dall’esatta esecuzione della sentenza della CEDU. Infatti la Corte, quando accoglie il ricorso, dichiara nel dispositivo che vi è stata violazione della convenzione come risulta dall’art.41 Conv. che prevede testualmente: “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli …” può accordare alla parte lesa un’equa soddisfazione in mancanza di perfetta rimozione degli effetti della accertata violazione da parte dello Stato membro.

Si comprende, dunque, anche di più il significato del primo paragrafo dell’art. 46 laddove viene usata la locuzione “impegno a conformarsi alla sentenza definitiva” da parte dello Stato membro quale unico soggetto onerato dell’ esatta ottemperanza alla sentenza, ponendo in essere ogni attività che sia di integrale salvaguardia e ripristino della posizione giuridica del ricorrente ritenuta dalla CEDU ingiustamente violata. In sostanza l’obbligo di conformazione a quanto ritenuto giusto e necessario dalla Corte nella sua sentenza deve ritenersi che, all’evidenza, comprenda la tendenziale eliminazione totale degli effetti della violazione dichiarata dalla Corte possibilmente mediante restitutio in integrum ed anche mediante equa soddisfazione nonchè attraverso l’adozione di misure di carattere generale, e talvolta anche individuale, idonee a prevenire le stesse oppure analoghe violazioni; attività conformativa che resta sempre sorvegliata ed aiutata dal Comitato dei Ministri.

Con molta amarezza occorre notare che, per quanto riguarda l’Italia, non sempre si è avuta una conformazione sollecita o priva di resistenze di vario genere, essendosi talvolta avuta addirittura l’inesecuzione (cfr. il caso Dorigo) in ogni campo del diritto (penale, civile ed amministrativo) specialmente – ma non solo – quando la sentenza della CEDU ha dichiarato una violazione consumata con una sentenza interna divenuta giudicato, cioè da ritenere, in via di principio, irremovibile.

Ma è ben noto che quest’ultima –cioè il giudicato interno- è la situazione normale, poiché il ricorso alla CEDU segue all’esaurimento delle vie di ricorso interne e richiede pure tempo per presentarlo e farlo decidere.

La ragione di questo comportamento italiano di permanente non puntuale ottemperanza all’impegno conformativo contratto con la convenzione sta, oltre che in un passato di diffusa dimenticanza, oggi in una culla di inerzia e specialmente nel fatto che –non essendo la sentenza CEDU ritenuta direttamente applicabile nello Stato italiano pur avendo essa carattere vincolante per gli Stati aderenti- manca nell’ordinamento giuridico italiano un meccanismo legislativo generale idoneo a far riaprire i giudicati interni formatisi sulle sentenze nazionali che dalla sentenza della CEDU sono state poi dichiarate in contrasto con qualche disposizione della convenzione europea.

In verità, questa situazione legislativa di inerzia, a parte le incertezze della giurisprudenza interna sul valore della convenzione (disapplicazione o interpretazione adeguatrice della norma interna, sentenze n.388/1999 e n.10/1993 della Corte Costituzionale) e sull’efficacia della sentenza CEDU, oggi mi pare che si sia ancor più aggravata soprattutto a seguito della sentenza n.129 del 2008 della Corte Costituzionale, che, a proposito del caso Dorigo, ha deciso –ovviamente rigettando la questione d’incostituzionalità dell’art. 630, c.1, lett. a) c.p.p.- l’impossibilità di far ritenere la sentenza della CEDU quale fatto idoneo per la revisione del giudicato penale, sentenza che estende (cfr. il n. 5) la stessa ragione contraria alla “complessa tematica dei rimedi “revocatori“…nel settore del processo civile” e che, per ulteriore conseguenza, a mio parere, vale pure nel processo amministrativo.

In sintesi, è rimasto, dunque, disatteso anche l’auspicio contenuto nella raccomandazione n.1684 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e nella risposta adottata dal Comitato dei Ministri ove ben risulta fino al 2005 un “persistente mancato rispetto, da parte dell’Italia, delle proprie decisioni e risoluzioni nel caso Dorigo” nonché l’inesistenza nell’ordinamento italiano di un meccanismo di legge “che permetta la riapertura di procedimenti quando la Corte Europea abbia accertato una violazione della Convenzione”.

Insomma, si può ritenere che, a parte alcuni interventi legislativi ed amministrativi (quali ad es.: la nuova disciplina della contumacia nel processo penale; la legge n.12/06 che assegna al Capo del Governo il dovere e la responsabilità di promuovere gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo; la modifica del casellario giudiziale penale che adesso deve contenere anche la menzione delle pronunce della CEDU; il decreto 01.02.2007 del Presidente del Consiglio dei Ministri che contiene misure per dare esecuzione alla citata legge n.12/06 relativa all’attuazione delle pronunce della CEDU), l’Italia non ha ancora risolto, in via legislativa generale (e men che meno in via di consolidata ed unanime giurisprudenza), il problema fondamentale della riapertura dei procedimenti interni già definiti in sede nazionale in violazione delle norme convenzionali e neppure ha trovato un qualsivoglia altro specifico rimedio idoneo a por fine alla violazione accertata dalla CEDU, specialmente nel campo penale in presenza di detenzione. Infatti, il disegno di legge “(S 1797 del 18.09.07) recante disposizioni in materia di revisione del processo a seguito di sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo” – che avrebbe tutavia risolto soltanto il problema della revisione del giudicato penale – non è stato fino ad oggi approvato dal Parlamento.

Devo aggiungere che, come aveva auspicato il Comitato dei Ministri nel succitato documento, è venuta meno anche l’apertura della giurisprudenza nazionale comune verso il riconoscimento in Italia dell’efficacia diretta della Convenzione come interpretata dalla Corte Europea: infatti, la tesi più aperta sia della giurisprudenza comune sull’efficacia diretta della convenzione e sia della Corte di Cassazione penale (sentenza n.2800/07) sull’ineseguibilità del giudicato penale interno dichiarato dalla sentenza della CEDU in violazione della convenzione parrebbe ormai in contrasto con le recenti sentenze nn.348 e 349/07 della Corte Costituzionale che ha espresso l’autorevole decisione contraria nel senso che le sentenze della CEDU –diversamente da quelle pronunciate dalla Corte di giustizia dell’U.E.- non producono effetti diretti nell’ordinamento interno degli Stati membri e neanche sono reputabili fatto idoneo per la revisione del giudicato (sent. n.129/08 stessa Corte).

Per di più, sembra lontana la data di introduzione nell’Unione Europea del Trattato di Lisbona, il cui articolo 6, comma 3, prevede: “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

In base a tale disposizione, divenendo i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione diritto dell’Unione Europea, i giudici nazionali sono, senza dubbio, tenuti ad applicare direttamente le norme della Convenzione, ed anche ad attribuire effetti diretti alla sentenza della Corte a’sensi dell’art.117 Costituzione, per cui resta da augurarsi, in tale auspicabile evenienza, il miglioramento delle conoscenze e della sensibilità della magistratura italiana.

Il fatto che, purtroppo, alla data odierna, lo Stato italiano non si sia ancora attrezzato per il concreto ed effettivo rispetto della CEDU e per l’esecuzione delle sentenze della Corte che ne dichiarano la violazione fa quasi abbassare a livello di fantasticherie varie disposizioni fondamentali della Costituzione, secondo la quale la Repubblica  “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art.2), assicura “il pieno sviluppo della persona umana” (art.3) e, comunque, rispetta “i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art.117), tra i quali ultimi rientrano di certo quelli contratti con la sottoscrizione della CEDU.

Inoltre, mi sembra opportuno notare che dall’Italia è stata pure disattesa la “Risoluzione A4-0278/97 del Parlamento europeo sui rapporti fra il diritto internazionale, il diritto comunitario e il diritto costituzionale degli Stati membri” ove si legge: “B. Considerando che una completa ed efficace tutela giudiziaria dei diritti fondamentali costituisce una caratteristica essenziale di qualsiasi comunità di diritto,…”.  

 Si aggiunga che l’Italia è rimasta anche insensibile al Preambolo della cosiddetta “Carta di Nizza” approvata dal Consiglio europeo nel 2000 ove si legge: “La presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Bisogna, infatti, rilevare che – come non è sfuggito al Comitato dei Ministri già nel 2007 – tutta l’attività normativa italiana più sopra indicata sia da ritenere complessivamente poco ben pensata, modesta ed insufficiente, poiché, fatta eccezione per l’esecuzione di sentenze di condanna al pagamento di somme di danaro accordate dalla Corte Europea per “equa soddisfazione”, ha lasciato e resta aperta tutta la problematica dell’adempimento delle sentenze CEDU allorché comportano la necessaria rimozione del giudicato formatosi in sede nazionale in violazione della convenzione ovvero quando debbano essere assunte le cosiddette “misure generali” necessarie per evitare il permanere nell’ordinamento interno (primario, secondario ed amministrativo) di norme in contrasto con la convenzione, cioè sono assenti le misure normative in grado di risolvere tanto l’esecuzione della sentenza CEDU quanto la violazione sistematica della convenzione (cfr. la materia dell’indennità per l’espropriazione per pubblica utilità che, dopo la sentenza CEDU nel caso Scordino, è stata ridisciplinata con legge secondo i principi fissati dalla CEDU avendo fatto superare alla Cassazione ed alla Corte Costituzionale le ben note antiche e poco giustificabili remore).

Tantomeno si può ritenere che sia idoneo e sufficiente il ricordato Decreto presidenziale 01.02.007 che, avendo soltanto finalità amministrative/organizzative e data la sua nota carenza di valore di legge, certamente non può incidere –come non incide la legge n.12/06- sulle sentenze passate in giudicato, potendo esso solamente informare del problema e sollecitarne la soluzione anche attraverso un’opera di sensibilizzazione del Parlamento, al quale spetta la funzione legislativa.

Insomma, mi pare doveroso sottolineare che lo Stato italiano non possa più persistere in questa palude giuridica irrispettosa della CEDU, della propria Costituzione e delle norme comunitarie, posto che l’art. 6, 2°comma, del vigente Trattato dell’U.E. così dispone: ”L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali… e quali risultano dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario”.

Si può dire, ricordando un passo di una sentenza della Corte (caso Mamatkoulov c. Turchia del 06 febbraio 2003), che l’Italia continua a violare uno dei pilastri essenziali del sistema europeo di tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Ritengo opportuno osservare che il valore dichiarativo delle sentenze della Corte lascia intatto il carattere vincolante per lo Stato membro di rimuovere la violazione accertata della convenzione, cioè resta fermo l’obbligo di convenzione di conformare le pronunce giudiziarie interne (penali, civili ed amministrative) alla sentenza della CEDU, attività conformativa che è libera nella scelta delle misure correlative, ma vincolante nel risultato di effettività, ed obbligatoria, benché non coercita e non coercibile (perché manca un organo deputato ad assicurare l’attuazione coattiva delle decisioni). Infatti, secondo la costante giurisprudenza della CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, “Lo Stato è libero, sotto il controllo del comitato dei ministri, di scegliere le misure generali o individuali con le quali conformarsi alle sentenze della Corte e porre fine alla violazione ivi accertata purché tali misure siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza. Nel dialogo tra Stati e comitato, la Corte non ha alcun ruolo: in particolare la Convenzione non le attribuisce competenza a imporre allo Stato l’apertura di una procedura o l’annullamento di una condanna quando in esse si riscontrino violazioni della Convenzione medesima o dei protocolli. Qualora si tratti di misure di riparazione specifiche occorre però tenere conto delle circostanze del caso concreto e dei contenuti della sentenza di condanna, sicché, ove in una procedura interna fossero riscontrate violazioni dell’art. 6, la riapertura o la rinnovazione del processo potrebbero dirsi misure appropriate alla riparazione della violazione. Se è vero che la Corte non può controllare che lo Stato abbia o no dato seguito alla condanna – competenza, questa, che spetta al comitato dei ministri – ciò non significa che essa non abbia competenza sui comportamenti tenuti dallo Stato nella fase della esecuzione che costituiscano violazioni della Convenzione non considerate nella sentenza. In particolare, la Corte può decidere sul ricorso in cui l’individuo lamenta che lo Stato condannato ha commesso una nuova violazione della Convenzione in occasione della riapertura di un processo interno o della revisione della sentenza (ovvero della procedura da seguire per accertare le condizioni di riapertura o di revisione)” (cfr. CEDU,  sez. V, 04 ottobre 2007, n. 32772 Verein gegen Tieifabriken Schvveiz (VgT) c. Svizzera; sentenza che fa seguito ad altre quali il caso Marckx / Belgio del 1979, il caso Vermeire c. Belgio del 1991, il caso Scozzari e Giunta c. Italia del 2000, il caso Broniowski c.Polonia del 2005).

Occorre anche ricordare che la normativa italiana sopra rammentata è stata qualche mese addietro reputata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (nel rapporto AS/Jur (2008) 24) inidonea ad assicurare il completo ed effettivo adempimento dell’obbligo conformativo, che va attuato secondo i canoni stabiliti dalla riferita costante giurisprudenza della Corte Europea, pur facendo particolare riferimento alla mancnza di una legge che permetta la riapertura soltanto dei processi penali.

 In sintesi, come notato nella relazione al citato disegno di legge (S 1797 del 18 settembre 2007) e dal Consiglio d’Europa nel 2008, all’Italia oggi manca una legge che assicuri in concreto la riapertura dei processi penali ormai definiti con sentenza passata in giudicato.

La prova ulteriore della descritta inadempienza è data dal rilievo  finale contenuto nella stessa sentenza n. 129/08 della Corte Costituzionale, che ha rivolto il testuale “ pressante invito al legislatore ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei per consentire all’ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbiano riscontrato, nei processi peanli, violazioni ai principi sanciti all’articolo 6 della CEDU”.

Mi sembra però corretto aggiungere, essendo quasi sempre dimenticato, che la stessa carenza normativa riguardi anche i processi civili ed amministrativi, poiché, seguendo ed adoperando il ragionamento di Corte Costituzionale n.129/08, la sentenza della CEDU non può considerarsi sul piano interno come causa speciale di revocazione della sentenza divenuta giudicato in assenza di previsione nell’art.395 del codice  procedura civile oppure nell’art. 28 della legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali ovvero nell’art.46 del Testo Unico di leggi sul Consiglio di Stato.

La situazione italiana è stata, dunque, dal Consiglio d’Europa giustamente definita allarmante e non più sostenibile, per cui occorre trovare un rimedio efficace e duraturo, dovendo il nostro Stato provvedere e comportarsi secondo le pregevoli norme costituzionali ed in conformità agli obblighi comunitari e convenzionali liberamente sottoscritti.

D’altra parte, nel presente caso non si tratta di violazione di obblighi sinallgmatici, come nelle convenzioni classiche, bensì di adempimenti oggettivamente doverosi e qualificanti il tasso di democrazia e civiltà  dello Stato.

Sennonchè devo notare che, purtroppo, il rimedio idoneo ad eseguire la sentenza della CEDU che comporti la riapertura dei giudicati penali, civili ed amministrati è ormai soltanto di tipo legislativo, non potendosi più affidare né all’attività di “interpretazione adeguatrice” delle norme interne alla convenzione per come interpretata dalla CEDU e neanche alla giurisprudenza interna che ritenesse l’effetto diretto delle sentenze CEDU ovvero l’ineseguibilità della sentenza nazionale passata in giudicato, in quanto queste teorie trascurano, fra l’altro, di considerare che il sistema giudiziario italiano ex art. 101 Costituzione si basa sui giudici che sono “soggetti soltanto alla legge” e non già al precedente giudiziario oppure a gerarchie giudiziarie: com’è ben noto, si tratta di un sistema che ai molti pregi unisce però il difetto della disgregazione delle decisioni giurisdizionali che, evidentemente, lasciano il qui discusso problema privo di soluzione corretta, efficace e rapida.

Com’è poi ben noto, non esiste in Italia una tutela costituzionale  direttamente accessibile, poiché il giudizio della Corte costituzionale è, infatti, per legge previsto come giudizio incidentale e cioè nell’ambito di un processo. Sicchè il giudizio di costituzionalità – che funziona quale giudizio di comparazione di una norma ordinaria con la costituzione – rappresenta, ad un tempo, una soluzione eventuale ed altresì, dati i precedenti citati, almeno di dubbio utile esito, e, per di più, di lunga attesa.

In conseguenza, resta solo il rimedio legislativo implicitamente, ma chiaramente, sollecitato dalla Corte Costituzionale nel punto n. 7 della sentenza n.129/08, considerando, altresì, che soltanto questo rimedio può togliere alla sentenza interna la forza esecutiva del giudicato e giustificare il completo ripristino di ogni modificazione nel frattempo intervenuta.

Se quanto detto vale per dare effetti conformativi interni alla sentenza della CEDU e per adeguare la normativa nazionale alla convenzione per come interpretata dalla Corte, reputo che per eseguire le sentenze di condanna ad un’equa soddisfazione si potrebbe adoperare il procedimento del giudizio d’ottemperanza di diritto processuale amministrativo, sempre che dal Giudice amministrativo venisse accettata la tesi che esse siano direttamente applicabili nello Stato italiano e che sono già definitive allorchè emesse ai sensi dell’art. 44 della convenzione, cosicchè potrebbero essere ritenute giudicato ai sensi dell’art. 27, n.4, del Testo Unico sul Consiglio di Stato che è stato adoperato –prima della legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi- per l’esecuzione delle sentenze amministrative.

Dissento, in fine, dalla tesi che nega, in via di principio, a tali sentenze il valore di titolo giuridico per un’azione di danno ai sensi dell’art. 2043 codice civile, in quanto si tratta proprio di sentenza che accerta una violazione e, dunque, un’ingiustizia che rappresenta, fra gli altri elementi, la qualifica basilare del danno arrecato.

In conclusione, pur col vivo rammarico di aver esposto un panorama non esaltante, ma anzi censurabile, mi auguro che lo Stato italiano si doti al più presto di uno strumento legislativo che, sia pure con le immancabili dispute interpretative, possa fornire una efficace e sicura soluzione sia al problema del rapporto delle norme interne con la convenzione e sia al problema di dare esecuzione all’impegno dello Stato di conformarsi alle sentenze della Corte.

Relazione italiana dell’avv. Giovanni Spadea – Genova – 22/10/2010

“I diritti fondamentali previsti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla c.d. Carta di Nizza dopo il trattato di Lisbona nell’ordinamento italiano”

   Mi sono permesso di modificare il tema assegnatomi ritenendo opportuno vedere insieme i diritti fondamentali tutelati dalla Carta di Nizza e dalla Convenzione Europea nel Trattato.

   Il tema dei diritti fondamentali ha ormai da più decenni ricevuto nelle varie giurisdizioni l’attenzione e l’interesse dei vari gradi della magistratura italiana ed altresì dell’Avvocatura che -dopo varie incertezze- hanno spinto verso il rispetto di principi generali di civiltà giuridica nei vari aspetti (ad esempio giusto processo, effettività della giustizia) e come oggetto degli obblighi interni dei  membri dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa.

   In particolare, il tema del nostro incontro è di molto interesse e di molta attualità poiché gli Stati membri dell’Unione Europea hanno aggiornato l’ordinamento comunitario del Trattato di Maastricht e di Amsterdam che aveva già proclamato, con l’articolo 6 della versione consolidata del trattato sull’Unione Europea, che i diritti dell’uomo e le sue libertà fondamentali, quale risultante ed espressione delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, vengono dall’Unione “rispettati ” essendo “diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione…”; in breve, tali diritti fondamentali ex conventione dal Trattato venivano però soltanto “riconosciuti” come principi generali del diritto comunitario.

   Proprio questo principio era stato pure in seguito ribadito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea fatta a Nizza nel Dicembre dell’anno 2000 ed adottata dopo a Strasburgo nel 2007 nonchè poi recepita dal trattato di Lisbona.

   Con il nuovo articolo 6 del Trattato di Lisbona del Dicembre 2007, come meglio si vedrà tra poco, è stata portata quasi a termine la definitiva introduzione negli ordinamenti degli Stati membri sia della più articolata normativa della Carta di Nizza e sia di quella classica della Convenzione Europea, entrambe poste a tutela dei diritti fondamentali con una quasi copertura totale notoriamente applicabile alla materia penale e civile in cui è anche inclusa quella del diritto amministrativo.

   Ma questa importante novità non ha ancora avuto molta fortuna nella giurisprudenza dell’ Italia, soprattutto della Corte Costituzionale che, come nel passato, ritiene che il persistente dissidio tra norma nazionale e norma convenzionale può esser composto solo dalla Corte Costituzionale con la pronuncia di non costituzionalità della legge interna in contrasto con la norma comunitaria  o con obblighi internazionali. In sintesi, il giudice del normale processo non può, quindi,  disapplicare la norma interna in contrasto con la Convenzione Europea, ma può al massimo, se il caso lo consente, adoperare una interpretazione di adeguamento della legge interna rispetto alla Convenzione: sicchè non può applicare direttamente la Convenzione europea alla quale l’Unione europea “ aderisce”.

   Questa è, infatti, la più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale: a partire dalle famose sentenze nn.348 e 349 del 2007 alla n.103 del 2008, alle successive nn.125 e 311 del 2009 e, per finire, alle nn.28, 93 e 227 del 2010 che compongono una sorte di monolito non rimovibile: quindi tale giurisprudenza, pur dopo la comunitarizzazione avvenuta con il Trattato della convenzione europea e della Carta di Nizza, continua a precludere al giudice nazionale di applicarle direttamente rispetto alla norma interna non compatibile.

   La tesi di tale giurisprudenza è che diritto comunitario (dell’Unione Europea) e diritto interno sono due sistemi “autonomi e distinti ancorché coordinati”, per cui il giudice nazionale applica il proprio diritto ed al massimo lo adegua all’altro adoperando la cosiddetta interpretazione adeguatrice.

   Orbene, la Convenzione Europea contiene -di per se stessa- obblighi convenzionali che -come ritenuto nella risalente decisione della Corte di Straburgo del 11.01.1961 dell’Austria c. Italia- sono privi del carattere classico della reciprocità ed hanno, invece, natura di obbligazioni essenzialmente oggettive, come si deduce dalle premesse della Convenzione, nelle quali è, fra l’altro, scritto che le libertà fondamentali “costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo” e che gli Stati europei sono “forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, a prendere le prime misure adatte ad assicurare la garanzia collettiva di certi diritti enunciati nella Dichiarazione Universale” dei diritti dell’uomo.

   E’ pure necessario ricordare che -secondo la Convenzione- la sentenza della Corte di norma non è di tipo annullatorio-cassatorio, bensì di natura essenzialmente accertativa-dichiarativa (confronta sentenza CEDU 13.06.1979 caso Marckx / Belgio) della violazione della convenzione da parte degli organi giudiziari dello Stato membro che è la parte resistente necessaria o il soggetto contro cui è rivolto il ricorso e quindi contro il quale è pronunciata la sentenza: infatti la Corte, quando accoglie il ricorso, dichiara nel dispositivo che vi è stata violazione di una norma della convenzione: secondo l’art.41 Convenzione “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli …” di norma stabilisce la perfetta rimozione degli effetti della accertata violazione da parte dello Stato membro o,  in mancanza, accorda alla parte lesa un’equa soddisfazione.

   La sopra cennata giurisprudenza della Corte costituzionale italiana è, con mia rispettosa opinione, non condividibile, poiché contrasta con la sua stessa finalità ultima che intende assicurare ed anche perché rallenta l’effettività della giustizia potendo  perfino far aumentare la quantità delle vertenze giudiziarie e le pronunce di condanna dello Stato.

   In breve, mi pare che tale gurisprudenza somigli più ad un muro turrito elevato a difesa della città-Stato che non ad una necessaria apertura della nuova strada costituzionale europea che persegue la giustizia effettiva senza declamazioni.

   Questa critica è, in verità, latente nella stessa legislazione italiana che talvolta segna improvvisi passi verso il “diritto europeo” e quindi va nel senso dell’unicità del sistema giuridico nell’Unione Europea che per forza deve essere quello già delineato dal Trattato di Lisbona.

   Nel senso ora indicato mi paiono da leggere non solo l’art.117, 1° comma, della Costituzione che delinea il parametro nel quadro “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” assunto dalla Corte costituzionale per giustificare la sua decisione, ma pure l’art.1 vigente della legge n.241/90 che nell’attività amministrativa stabilisce la necessaria applicazione dei “principi dell’ordinamento comunitario”, che sono oggi anche direttamente ricavabili dal Trattato, nonché il recente art.1 della legge n.104/2010 sul nuovo Processo Amministrativo che poggia sul principio europeo di effettività: “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”, espressione di vero nuovo conio che si proietta sul globo giuridico europeo nel quale è centrale il nuovo trattato di Lisbona.

   Si comprende, dunque, di più che non si può persistere né nelle lungaggini dei processi interni e neppure nel sentirsi, infine, condannare dalla Corte di Strasburgo all’esatta ottemperanza alla sentenza, ponendo poi in essere ogni attività che sia di integrale salvaguardia e ripristino della posizione giuridica del ricorrente ritenuta dalla Corte di Strasburgo ingiustamente violata.

   In sostanza l’obbligo di conformazione a quanto ritenuto giusto e necessario dalla Corte di Strasburgo nella sua sentenza -che, all’evidenza, comprende la tendenziale eliminazione totale degli effetti della violazione dichiarata dalla stessa Corte possibilmente mediante restitutio in integrum ed anche mediante equa soddisfazione nonchè attraverso l’adozione di misure di carattere generale, e talvolta anche individuale, idonee a prevenire le stesse oppure analoghe violazioni- è attività conformativa ex post che allunga il tempo della giustizia e quindi viola il principio di effettività (vedi ad es. per un caso di specie Tribunale Amministrativo di Milano n.1370/08), poiché la sentenza della CEDU dichiara, dopo molti anni dato il suo carico di ricorsi, una violazione consumata con una sentenza interna divenuta giudicato irremovibile.

   Questa, infatti, è la situazione normale, poiché il ricorso alla CEDU segue all’esaurimento delle vie di ricorso interne e richiede pure tempo per farlo decidere.

   Ma il procedimento giudiziario italiano delineato dalla Corte costituzionale sottende una contraddizione, poiché la stessa Corte, specialmente nella sua sentenza n.28/2010- -come ha di recente anche notato Celotto- ha ben presente, come è scritto in un inciso di certo né banale e neanche disattento- che “le norme comunitarie… sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano”. Il che -a mio modesto parere- è una giusta constatazione che diverrà più chiara allorché si terrà conto che il trattato di Lisbona permette l’accesso tanto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea quanto, alla fine, alla Corte di Strasburgo, che quindi detiene la supremazia giurisdizionale, non trattandosi di corti parallele come diverrà dopo la stipulazione dell’accordo di adesione dell’Unione Europea alla Convenzione determinando uno spazio giudiziario unico dei diritti fondamentali (vedi messaggio del Presidente Costa a questo Convegno e “Rapporto annuale 2007 ” dello stesso Presidente nonché il caso Bosphorus Airways parimenti deciso dalle due Corti).

   L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona non consente più, per mio modesto parere, di continuare nella tesi della Corte costituzionale del distinto ed autonomo sistema che viene da essa coordinato in via di giudizio di legittimità costituzionale, ovviamente se e quando la relativa questione viene “proposta” dal giudice comune in via incidentale.

   All’incontrario della nostra giurisprudenza costituzionale l’ordinamento comunitario voluto dal Trattato di Lisbona permette di dare già oggi potere applicativo della Convenzione Europea e della Carta di Nizza a tutela dei diritti fondamentali al giudice del singolo processo che, se del caso, può addirittura rivolgersi alla Corte di Lussemburgo per la corretta interpretazione di questo aspetto giuridico.

   Ma se la Convenzione non fosse ritenuta direttamente applicabile -quale diritto comunitario- nello Stato italiano pur avendo essa carattere vincolante per gli Stati aderenti o perchè manca nell’ordinamento giuridico italiano un meccanismo legislativo generale idoneo a renderla applicabile, cioè non bastando la legge di ratifica e di esecuzione come già ritenuto da Cassazione a Sezioni Unite 06.05.2003 n.6853, il contrasto con le disposizioni del Trattato europeo sarebbe di imminente dichiarazione, posto che già molti giudici (di merito e di legittimità) hanno indirizzato le decisioni interne sulla necessità di rispettare la convenzione (disapplicazione o interpretazione adeguatrice della norma interna) per rispetto dell’art.6 del Trattato di Lisbona.

   E’, dunque, mia opinione che con l’entrata in vigore del Trattato si configura l’esistenza nell’ordinamento italiano del meccanismo legale che permette la penetrazione nell’ordinamento nazionale della Convenzione europea e della Carta di Nizza, per cui gli organi di giustizia interna possono persistere nella giurisprudenza di riconoscimento in Italia dell’efficacia diretta della Convenzione come interpretata dalla Corte Europea: infatti, la tesi più aperta della giurisprudenza comune sull’efficacia diretta della convenzione non può subire arretramento per via delle sentenze nn.348 e 349/07 e delle altre citate della Corte costituzionale, poiché il giudice interno deve ritenersi sottoposto al disposto dell’art.101 Costituzione che lo ritiene sottoposto solo alla legge, per cui con la legge di ratifica e di esecuzione le norme del trattato sono tali da produrre effetti diretti nell’ordinamento interno degli Stati membri. Questo è, a mio parere, il senso dell’introduzione nell’Unione Europea del Trattato di Lisbona, posto che l’articolo 6, n. 3, prevede: “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

   In base a tale disposizione, i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione sono divenuti diritto dell’Unione Europea, sicché i giudici nazionali sono, ancor prima dell’accordo di adesione ex  art. 6, n.2, tenuti ad applicare direttamente le norme della Convenzione, attribuendo così effetti diretti alla propria sentenza e conformando in tal modo l’ordinamento italiano alle reali esigenze declamate dal diritto europeo nonché risparmiandolo dalle sentenze della Corte di Strasburgo che talvolta hanno prodotto il temuto sfondamento del muro protettivo eretto proprio dalla Corte costituzionale (confrontare ad esempio il tema dell’indennità di espropriazione).

   Quella della Corte costituzionale mi pare anche una tesi inadeguata ai tempi odierni, potendo leggersi nella Costituzione italiana non fantasticherie, ma disposizioni fondamentali, anche utili per la diretta applicazione, secondo le quali la Repubblica Italiana “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art.2), assicura “il pieno sviluppo della persona umana” (art.3), “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo” , cioè “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art.11) e, comunque, rispetta “i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art.117), tra i quali ultimi rientrano di certo quelli contratti da ultimo con il Trattato di Lisbona inclusa la Convenzione che la “Risoluzione A4-0278/97 del Parlamento europeo sui rapporti fra il diritto internazionale, il diritto comunitario e il diritto costituzionale degli Stati membri” voleva adempiuta proprio perché “una completa ed efficace tutela giudiziaria dei diritti fondamentali costituisce una caratteristica essenziale di qualsiasi comunità di diritto,…”.  

   Si deve poi aggiungere che la tesi della Corte Costituzionale è nel 2010 rimasta anche insensibile alla cosiddetta “Carta di Nizza” approvata dal Consiglio europeo nel 2000 ed ora facente parte del Trattato di Lisbona ove si legge: “La presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo.

   Mi pare, dunque, che la nostra Corte costituzionale -se ne avrà occasione- non possa più non riesaminare la problematica dell’adempimento del Trattato comportante la necessaria e regolare conformazione dell‘ attività giurisdizionale alle norme stipulate e che sono penetrate nell’ordinamento interno (primario, secondario ed amministrativo), rendendo inapplicabili le norme in contrasto con la convenzione e con la Carta di Nizza.

   Mi rendo conto del diverso trattamento ricevuto dalla Carta di Nizza e dalla Convenzione con l’art.6 del vigente Trattato dell’U.E. –ratificato e reso esecutivo con legge n.130/08- ma è però chiaro che è stata superata la precedente dizione secondo la quale ”L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Infatti oggi il Trattato prevede, anzitutto, che “L’Unione riconosce i diritti, le libertà ed i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea… che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”; in secondo luogo, prevede che “L’Unione aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”; ma, in chiusura, soprattutto dispone che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione Europea …,  e risultanti dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

   Si tenga pure conto di una dichiarazione aggiunta relativa “a disposizioni dei trattati” ove è scritto che “la Carta dei diritti fondamentali… ha forza giuridicamente vincolante”, nonché del protocollo n.2 relativo all’art.6 paragrafo 2 ove è precisato che “l’accordo relativo all’adesione dell’Unione Europea… deve garantire che siano preservate le caratteristiche specifiche dell’Unione e del diritto dell’Unione”.

   La situazione prodotta dal Trattato sugli ordinamenti degli Stati membri dell’Unione mi sembra, quindi, ben diversa da quella delineata dalla nostra Corte costituzionale con la sopra vista giurisprudenza, che già è stata contraddetta dalla Corte di Giustizia U.E. con la sentenza 27.10.2009 in C-115/08, secondo cui “Con riferimento ai principi generali del diritto comunitario, il giudice nazionale è tenuto a conferire alla legge nazionale che è chiamato ad applicare un’interpretazione per quanto possibile conforme ai precetti del diritto comunitario, con l’avvertenza che se una simile applicazione conforme non è possibile, il giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di proteggere i diritti che questo attribuisce ai singoli, eventualmente disapplicando ogni disposizione la cui applicazione … condurrebbe a un risultato contrario al diritto comunitario”: pare, dunque, corretto ritenere che l’ordinamento interno debba adeguarsi al diritto comunitario, inclusa la parte della tutela dei diritti dell’uomo sanciti all’articolo 6 del Trattato.

   In buona sostanza, mi sembra che il problema della tutela dei diritti fondamentali abbia ricevuto dal Trattato una previsione rinforzata, in quanto per i cittadini dell’U.E. è già offerta – cioè prima dell’adesione dell’Unione europea alla Convenzione – la tutela secondo la Carta di Nizza che ha lo stesso valore giuridico dei trattati, per cui è oggi da ritenere direttamente applicabile dal giudice nazionale in quanto di valore giuridico pari a quello del trattato sull’U.E.: vale a dire il giudice interno applica in via immediata il diritto comunitario e “disapplica all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale” (così pure la Corte di Giustizia C.E. 18.07.2007 n.119 e la sua più recente giurisprudenza 28.01.2010 n.406 e 19.01.2010 n.555 che ribadiscono il dovere del giudice nazionale di disapplicare la norma interna in contrasto con norma superiori, per di più senza necessità di proporre alla Corte di Giustizia europea una questione pregiudiziale sull’interpretazione del principio da applicare in concreto).

   Lo stesso deve, inoltre, dirsi secondo la disposizione contenuta nell’art.6, n.3 del Trattato che –come già visto e come risulta pure dal secondo “considerando” del protocollo n.24– anche i diritti previsti dalla Convenzione europea“fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”, sicché essi vanno tutelati dal giudice nazionale come per quelli stabiliti dalla Carta di Nizza, cioè direttamente disapplicando la norma interna in contrasto con la disposizione convenzionale e, dunque, senza dover più sollevare per incidens la questione di legittimità costituzionale.

   Il problema della tutela resta, quindi, aperto per i soggetti non cittadini di uno Stato membro dell’U.E. ed appartenenti ad uno Stato sottoscrittore della convenzione europea.  Anche in tal caso, ma ancora per poco tempo, il giudice ordinario – quello amministrativo è già tenuto ad agire in modo conforme agli obblighi comunitari e convenzionali (c.d. diritto europeo sopra citato) –  potrebbe già oggi attuare direttamente l’art. 6, n.3 che si uniforma alle pregevoli norme costituzionali qualificanti il tasso di democrazia e civiltà  dello Stato.

   Infatti, in caso diverso, si riprodurrebbero quasi i mali odierni di giustizia tardiva, mentre il sistema giudiziario italiano –che ex art.101 Costituzione si basa sui giudici che sono “soggetti soltanto alla legge”- e non già sul precedente giudiziario anche se di autorevoli gerarchie giudiziarie- potrebbe direttamente emettere decisioni giurisdizionali che diano soluzione corretta, efficace e rapida in conformità alla Corte di Strasburgo ed a quella di Lussemburgo; potere da ritenere sia per quanto detto ed anche perché il giudizio della Corte costituzionale è dalla legge italiana previsto come giudizio incidentale – cioè sorge nell’ambito di un altro processo – che rappresenta, ad un tempo, una soluzione eventuale ed altresì, dati i precedenti citati, almeno di dubbio utile esito, e, per di più, di lunga attesa.

   Ma questo sistema non mi parrebbe attuativo di un trattamento paritario dato che il modulo di procedimento è diverso a seconda che si giudichi un cittadino comunitario o un non comunitario pur applicando lo stesso diritto.

   In conseguenza, mi pare che la conclusione da trarre, anche per il tempo non lungo di definizione dell’accordo di adesione dell’UE alla Convenzione, sia quella già stabilita in molti casi dalla giurisprudenza interna da vari organi giurisdizionali e che parrebbe auspicata da recenti leggi, dalla significativa apertura della Corte Costituzionale allorché ha parlato di norme comunitarie “cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie”, dalla Corte di Cassazione (Sezioni Unite – 06.05.2003 n.6852, idem 29.12.2006 n.27619; Sezione III – 02.02.2010 n.2352 secondo cui “la filonomachia della Corte di Cassazione include anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del Trattato di Lisbona e della Carta di Nizza che esso pone a fondamento del diritto comune Europeo”), dal Consiglio di Stato (Sezione IV – 30.11.2007 n.6124 secondo cui i diritti della Convenzione “hanno una diretta rilevanza nell’ordinamento interno”, idem 04.02.2008 n.303; idem 02.03.2010 n.1220 che a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha ritenuto di fare applicazione diretta dei principi di effettività della tutela giurisdizionale secondo gli articoli 6 e 13 della Convenzione; Sezione VI – 03.03.2010 n.1241 che afferma la primazia del diritto comunitario e del dovere di disapplicazione di qualsiasi norma interna incompatibile con la normativa comunitaria vincolando in tal senso il giudice nazionale) sia pure con un recente revirement (Consiglio di Stato, Sezione VI, 15.06.2010 n.3760 che segue la giurisprudenza della Corte Costituzionale), da magistrature ordinarie (Corte d’Appello di Firenze, Sezione penale, 14.07.2006 che ritiene il giudice nazionale obbligato a disapplicare la norma interna in contrasto con la Convenzione; Tribunale Civile di Pistoia 23.03.2007 che ha ritenuto la disapplicazione di norme interne contrarie alla Convenzione), e dai Tribunali Amministrativi Regionali (Lazio, Sezione II bis, 18.05.2010 n.11984 che a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e la prevista adesione dell’unione alla Convenzione Europea ha ritenuto immediatamente operante negli ordinamenti nazionali le norme sui diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione come principi interni al diritto dell’unione; Sardegna 31.01.2008 n.83; Lombardia – Brescia 11.08.2007 n.716 secondo cui i giudici nazionali applicano i principi individuati dalla Convenzione oltre che le norme di diritto interno e comunitario).

   Per attuare questo più celere procedimento non occorrono ulteriori regole processuali, ma solo un consapevole nuovo indirizzo della giurisprudenza costituzionale che non può escludere l’applicazione diretta da parte del giudice nazionale delle norme della Convenzione Europea e della Carta di Nizza in quanto – con l’incorporazione nel Trattato – sono divenute norme “cogenti e sovraordinate” alle leggi ordinarie nazionali, come non pare la Corte costituzionale abbia più tenuto in debita considerazione con la recente sentenza 24.6.2010, n.227 facente seguito alla 28.01.2010 n.28 che sembrava pronta ad un’inversione del proprio consolidato indirizzo della necessaria  dichiarazione d’illegittimità cstituzionale della norma interna  contrastante con quella della convenzione, ritenendo così quasi inabile il giudice comune a disapplicare la norma non conforme a quella della convenzione per come  interpretata  dalla  Corte di Strasburgo o da quella del Lussemburgo.

   In definitiva è mia opinione che la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione Europea o nell’ambito dell’area del Consiglio d’Europa (che oggi include 47 Stati) con il sopravvenuto Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 01.12.2009, abbia trovato la definitiva ed uniforme sistemazione nel senso che il Giudice nazionale ha potere per disapplicare direttamente la norma interna in contrasto con il Trattato di Lisbona o comunque con la Convenzione, dovendo questo Giudice comportarsi in ossequio al principio irrinunciabile del giusto processo e della effettività.

Relazione italiana della prof.ssa Ida Angela Nicotra – Catanzaro – 26/05/2017

 La trasparenza in materia ambientale: dalla Convenzione di Aarhus al freedom of information act del decreto legislativo n. 97 del 2016.

di Ida Angela Nicotra

Componente Autorità Nazionale Anticorruzione

Professore Ordinario di Diritto Costituzionale Università di Catania

 

Sommario: 1. Premessa 2. La Convenzione di Aarhus: diritto alla trasparenza e partecipazione del pubblico ai processi decisionali sulle tematiche ambientali. 3. Il diritto all’informazione ambientale  nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003 n. 4. 4. Il freedom of information act in materia ambientale secondo il d.lgs. n. 195 del 2005. 5. Pubblicazione e accesso alle informazioni ambientali secondo il nuovo paradigma contenuto nell’art. 40 del d.lgs. n.97 del 2016: le nuove prospettive del diritto di conoscere l’ambiente.

  1. Premessa

La Convenzione di Aarhus costituisce il documento normativo di maggiore impatto prodotto dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite tenutasi a Stoccolma del 1972. La Conferenza sull’Ambiente umano vide il riconoscimento, per la prima volta, del principio dello sviluppo sostenibile. Lo sviluppo sostenibile risponde alle esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie. Così, una rinnovata visione del rapporto con la natura si basa sulla necessità di conferire espressa tutela alle prossime generazioni alla luce di una nuova sensibilità che si lega indissolubilmente alle tematiche ambientali.

Il principio dello sviluppo sostenibile si basa sulla regola dell’equità declinata sia in senso intergenerazionale che intragenerazionale[1]. Tale obiettivo viene meglio definito in occasione della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 in cui si sottolinea che il diritto al progresso deve essere esercitato compatibilmente con uno sviluppo sostenibile e con le esigenze delle generazioni presenti senza trascurare quelle che verranno. Un responsabilità, dunque, nei confronti delle risorse ambientali che vede coinvolti non più i singoli Stati separatamente, l’uno indipendentemente dalle azioni dell’altro, ma che pretende l’impegno per la realizzazione di un’azione globale e sinergica. Il d.lgs. n.4 del 2008 introduce con l’art. 3 – quater il principio dello sviluppo sostenibile correlato alla tutela delle generazioni presenti e future ed impone alla pubblica amministrazione di tenere in prioritaria considerazione, nell’ambito di interessi pubblici e privati connata di discrezionalità, gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale.

Prende avvio da tali presupposti fondativi il principio secondo cui i danni causati all’ambiente devono gravare esclusivamente sui responsabili delle situazioni di contaminazione. Il principio del “chi inquina paga” – previsto nell’art. 3  – ter del medesimo  d.lgs.  si basa proprio su questo assunto e permette di far ricadere i costi destinati alla protezione dell’ambiente su chi provoca il degrado. In tal modo, si incoraggiano gli imprenditori a ridurre le emissioni inquinanti causate dalle proprie attività, ricercando prodotti e tecnologie innovative, in grado di assicurare il minor impatto possibile sulle risorse ambientali. L’introduzione di tale principio si basa sul convincimento che produttori e consumatori vengono indotti a scegliere alternative meno inquinanti proprio per evitare le sanzioni a carico dell’inquinatore[2]. Gli incentivi per incoraggiare l’utilizzo di tecniche meno dannose per l’ambiente possono essere di natura economica, creditizia o fiscale, accompagnate da misure che fungono da stimolo all’innovazione tecnologica.

Infatti, l’inquinamento, dal punto di vista economico, crea una inefficiente allocazione delle risorse economiche. Le Istituzioni pubbliche sono chiamate ad intervenire proprio al fine di correggere le alterazioni dell’ecosistema. E’ necessario un sistema pubblico di regolazione, attraverso cui si attribuisce un prezzo al bene ambiente in modo da costringere l’imprese a ridurre le emissioni inquinanti e a sopportare i costi per gli opportuni adeguamenti del processo produttivo.

E tuttavia il principio del “chi inquina paga” sconta il fatto di essere una tecnica riparatoria, chiamata a svolgere per sua naturale vocazione un ruolo di chiusura in quanto misura di contrasto rispetto al comportamento colpevole dell’operatore che pone in essere comportamenti contrari ai principi imposti dagli atti di regolazione.

Fin dal Trattato del 1957 il principio di prevenzione ha costituito un concetto chiave per la costruzione di un modello normativo preordinato alla salvaguardia delle risorse naturali. Esso trova esplicita accoglienza nel 1986 con l’adozione dell’Atto Unico Europeo. La disposizione contenuta nell’art. 130 R, attraverso il collegamento tra prevenzione e correzione dei danni causati all’ambiente, mette in luce l’esigenza di un favor per l’azione preventiva rispetto all’attività di correzione, che rappresenta una misura di extrema  ratio, volta a fronteggiare le alterazioni ambientali già verificatesi.

I documenti internazionali e quelli comunitari dedicano la loro attenzione agli strumenti di natura preventiva. I principi dell’azione preventiva e della precauzione si collocano in una posizione di assoluta priorità nell’attuazione delle politiche europee. In particolare, l’art. 174, 2° comma del Trattato dell’Unione europea si ispira a tali principi, impegnando l’Unione nell’elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la qualità dell’ecosistema e la gestione oculata delle risorse naturali del pianeta.

Il principio di prevenzione assume una portata di carattere generale e si prefigge la predisposizione di misure protettive per evitare che il danno all’ambiente si produca, il concetto di precauzione costituisce una sua declinazione applicativa, una sua modalità di attuazione. Tuttavia, tra i due principi sussiste una differenza fondamentale poiché il meccanismo della precauzione – al contrario di quel che avviene per la prevenzione – si aziona anche quando è assente la certezza scientifica che un comportamento provochi nocumento per l’ambiente. In ogni caso azione preventiva e principio precauzionale rappresentano regole che contribuiscono in maniera significativa a prevenire i pericoli, anche meramente potenziali, alla salute umana, alla sicurezza, all’ambiente. Qualora “le informazioni scientifiche siano insufficienti, non conclusive o incerte e vi siano indicazioni che i possibili effetti sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possano essere potenzialmente pericolosi e incompatibili con il livello di protezione prescelto” l’ordinamento comunitario predispone una serie di strumenti capaci di scongiurare il verificarsi dell’evento dannoso (Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione, Bruxelles, 2 febbraio 2000).

La valutazione delle informazioni disponibili è uno degli aspetti di maggior interesse per quanto riguarda l’applicazione del principio di precauzione. Secondo il legislatore comunitario, soltanto se dopo un’accorta analisi dei dati conoscibili continua a permanere una situazione di incertezza sul piano scientifico e venga individuata la possibilità di effetti dannosi sulla salute possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio.

In altre parole, il principio di precauzione richiede un approccio anticipatorio  dei fenomeni legati all’ambiente e al patrimonio naturale tutte le volte in cui i danni che possono derivare all’ecosistema devono considerarsi irreversibili. Nella consapevolezza che il processo di modernizzazione ha “dato vita a quella che, emblematicamente, è stata denominata società del rischio[3], la ricerca di un punto di equilibrio tra il progresso tecnologico e industriale e i rischi che ne derivano assume un ruolo centrale.

 Sicché, al fine di prevenire il verificarsi di tali eventi pregiudizievoli bisogna porre in essere misure di contrasto in una fase antecedente a quella in cui il danno si è prodotto, addirittura quando non esiste ancora la certezza di una prova scientifica.

 

  1. La Convenzione di Aarhus: diritto alla trasparenza e partecipazione del pubblico ai processi decisionali sulle tematiche ambientali.

La Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale,  sottoscritto  ad  Aarhus, in Danimarca il 25 giugno 1998   costituisce il documento normativo che probabilmente più di altri getta le basi per la costruzione di una nuova organizzazione ambientale i cui tratti qualificanti sono la trasparenza e l’accesso alle informazioni ambientali, la diffusa e consapevole partecipazione dei singoli alle decisioni in materia ambientale, l’accesso del pubblico a meccanismi giudiziari efficaci. Siamo di fronte ad un vero cambio di passo in cui  l’aspetto innovativo per l’evoluzione dei modelli di tutela dell’ambiente consiste nell’incoraggiare la libera circolazione delle informazioni scientifiche, il libero accesso da parte dei cittadini alle informazioni ambientali.

Comincia, così, ad acquistare spessore giuridico il decimo principio contenuto nella Dichiarazione di Rjo del giugno del 1992, laddove si affermava che per affrontare le questioni legate all’ambiente il modo migliore restava il coinvolgimento consapevole della società.

La Convenzione di Aarhur riconosce che ogni persona ha il diritto di vivere in un ambiente atto ad assicurare la sua salute e il suo benessere e il dovere di tutelare l’ambiente, nell’interesse delle generazioni presenti e future ma per affermare tale diritto e adempiere a tale dovere il presupposto è che i cittadini devono avere accesso alle informazioni, essere ammessi a  partecipare ai processi decisionali e avere accesso alla giustizia in materia ambientale[4].

Infatti, con un più ampio accesso alle informazioni e una maggiore partecipazione ai processi decisionali è possibile migliorare la qualità delle decisioni e realizzare una sensibilizzazione del pubblico alle tematiche ambientali.  L’innalzamento dei livelli di trasparenza migliora la qualità delle informazioni in possesso del decisore pubblico che devono essere precise, complete e aggiornate[5].

La trasparenza dunque assume un ruolo centrale nella politica dell’ambiente sia comunitaria che nazionale sia quando si tratta di agire con strumenti di carattere preventivo capaci di operare ex ante e dunque preordinati ad evitare il verificarsi di eventi dannosi, sia laddove la tutela si fonda su un intervento ex post, parametrato su criteri economicistici del c.d. risarcimento per equivalente, secondo il principio del  “chi inquina paga”.

Ed invero, per perseguire un elevato livello di tutela dell’ambiente sia di carattere anticipatorio che di tipo riparatorio la base irrinunciabile è il rafforzamento dell’accesso e della diffusione del patrimonio informativo in materia ambientale. La Convenzione di Aarhus chiede agli Stati di attuare il principio di massima trasparenza come diritto di accesso non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti ed aventi ad oggetto tutti i dati, i documenti e le informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni in materia ambientale.

 

  1. Il diritto all’informazione ambientale nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003 n. 4.

 Così la direttiva 2003/4/Ce pone come primario l’obiettivo di garantire il diritto di accesso alle informazioni ambientali detenute dalle autorità pubbliche, la messa a disposizione dei richiedenti al più presto possibile e in tempi ragionevoli tenendo conto di un eventuale termine specificato dal richiedente[6].

Il diritto all’informazione implica che la divulgazione dell’informazione sia ritenuta un principio generale e che alle autorità pubbliche sia consentito respingere una richiesta di informazione ambientale in casi specifici e chiaramente definiti. La direttiva chiarisce che le ragioni del rifiuto vanno interpretate in maniera restrittiva, operando un bilanciamento tra l’interesse pubblico tutelato dalla divulgazione delle informazioni con l’interesse tutelato dal rifiuto di divulgarle. Le ragioni del rifiuto dovranno essere comunicate al richiedente entro un periodo di tempo prestabilito, in ogni caso contro il rifiuto delle informazioni deve essere sempre consentito ricorrere in sede giurisdizionale o amministrativa.

E’ fondamentale in tema di accesso delle informazione ambientali sia l’aspetto quantitativo che qualitativo: da tale ultimo punto di vista il dato reso disponibile deve essere comprensibile, preciso e reso comparabile. Gli Stati membri provvedono a rendere disponibile l’informazione ambientale da essi detenuta a chiunque ne faccia richiesta, senza che il richiedente debba dichiarare il proprio interesse. Le uniche ragioni che consentono alle autorità pubbliche di respingere la richiesta di informazione ambientale sono elencate tassativamente e riguardano casi di pregiudizio arrecato alla riservatezza delle deliberazioni interne delle autorità pubbliche, alle relazioni internazionali, alla sicurezza pubblica o alla difesa nazionale; allo svolgimento di procedimenti giudiziari, alla possibilità di ogni persona di avere un processo equo o alla possibilità per l’autorità pubblica di svolgere indagini di carattere penale o disciplinare; alla riservatezza delle informazioni commerciali o industriali qualora la riservatezza sia prevista dal diritto nazionale o comunitario per tutelare un legittimo interesse economico, compreso l’interesse pubblico di mantenere la riservatezza statistica ed il segreto fiscale; ai diritti di proprietà intellettuale; alla riservatezza dei dati personali; alla tutela dell’ambiente cui si riferisce l’informazione, come nel caso dell’ubicazione di specie rare.  

 

  1. Il freedom of information act in materia ambientale secondo il d.lgs. n. 195 del 2005.

Il decreto legislativo n. 195 del 2005 rappresenta la prima disciplina di accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni in materia ambientale. Al fine di garantire la più ampia trasparenza dell’informazione ambientale il decreto stabilisce un sistema volto a diffonderla, anche attraverso i mezzi di telecomunicazione e gli strumenti informatici, in forme facilmente consultabili, promuovendo l’uso delle tecnologie e della comunicazione.

Per la prima volta nell’ordinamento italiano viene introdotto il diritto di chiunque di conoscere dati e informazioni in possesso di pubblici uffici, senza che il richiedente debba dichiarare il proprio interesse.  Detto in altri termini, si tratta di un diritto di accesso generalizzato non condizionato dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti. L’istante – a differenza di quanto avviene con riferimento alla disciplina dell’accesso previsto dalla legge n. 241/ 1990 – non deve dimostrare di essere titolare “di un interesse concreto diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.  L’intento del legislatore che ha costruito un diritto di accesso, superando il criterio della legittimazione soggettiva, va ricercato proprio nella realizzazione dell’interesse pubblico e della collettività alla tutela dell’ambiente e della salute, secondo quanto emerge dalle previsioni costituzionali contenute negli artt. 9 e 32.

Così, si realizza un sistema binario modellato, per un verso, sull’obbligo di pubblicazione imposto dalle disposizioni contenute negli artt. 4 e 8 del d.lgs. 195 ad ogni singola  amministrazione  chiamata ad istituire ed aggiornare appositi cataloghi pubblici contenenti l’elenco delle tipologie dell’informazione ambientali detenute, per altro verso, sul diritto  riconosciuto a “chiunque”, e a titolarità diffusa, che incontra quali unici limiti il rispetto degli interessi pubblici e privati indicati nell’art. 5.

Precisamente, l’obbligo di pubblicazione si realizza mettendo a disposizione l’informazione ambientale detenuta dalle amministrazioni pubbliche attraverso le tecnologie di telecomunicazione informatica e le banche dati da aggiornare annualmente che devono contenere i testi dei trattati e delle convenzioni internazionali e atti comunitari, nazionali e regionali in materia ambientale; le politiche, i piani e i programmi per l’ambiente; le relazioni sullo stato dell’ambiente; le valutazioni di impatto ambientale e gli accordi in materia ambientale.

Il decreto legislativo n. 195 prevede l’ulteriore  possibilità che l’informazione ambientale possa essere resa disponibile creando collegamenti a sistemi informativi e a banche dati elettroniche, anche gestiti da altre autorità pubbliche,  da rendere facilmente accessibili agli utenti.

La ratio della disciplina, che risente delle positive contaminazioni provenienti dal diritto comunitario[7],  è quella di favorire, proprio attraverso il principio di massima trasparenza, forme penetranti di controllo sulla qualità ambientale, rimovendo ogni impedimento che possa costituire un ostacolo alla corretta informazione sullo stato dell’ambiente.

Il decreto legislativo n. 195 del 2005 prevede una procedura molto puntuale che regolamenta le richieste d’accesso generalizzato. La pubblica amministrazione è tenuta a fornire il dato entro il termine di trenta giorni; nei casi in cui la domanda contenga aspetti di particolare complessità il termine è prorogato fino a sessanta giorni. In caso  di rifiuto l’amministrazione deve motivare per iscritto le ragioni del diniego.

Sia in caso di mancata risposta entro i termini previsti, che nell’ipotesi in cui l’amministrazione si esprima con un provvedimento di rigetto della domanda di accesso, il richiedente può presentare ricorso in sede giurisdizionale, ovvero chiedere il riesame al difensore civico competente per territorio, nel caso di atti di Comuni, Province o Regioni.

Si tratta di una disciplina all’avanguardia  che apre la strada nell’ordinamento italiano alla trasparenza costruita sul modello anglosassone e che consente ai cittadini di conoscere lo stato di  salubrità dei luoghi, di raccogliere i documenti e le informazioni sulle zone contaminate e il tipo di inquinamento, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di intervento di bonifica e ripristino ambientale e che consente di monitorare lo stato di avanzamento dell’attività di bonifica dei siti contaminati.

 Proprio nell’intento di allargare il perimetro dell’accesso il d.lgs. 195/2005 vi fa rientrare qualsiasi informazione ambientale “disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale” che concerne lo stato degli elementi dell’ambiente, quali l’aria, l’atmosfera, l’acqua, il suolo, il territorio, i siti naturali, le interazioni tra questi elementi; i fattori quali le sostanze, le energie, i rumori, le radiazioni, i rifiuti; le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali;  le relazioni sull’attuazione della legislazione ambientale; le analisi costi e benefici;  lo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la contaminazione della catena alimentare, le condizioni della vita umana, il paesaggio, i siti e gli edifici d’interesse culturale.

 Il controllo sociale è reso possibile dalla circostanza che il decreto legislativo n. 195 del 2005 individua  casi di esclusioni del diritto di accesso di carattere puntuale che  operano, non come eccezioni assolute, ma attraverso il compimento di una attività valutativa che deve essere effettuata  caso per caso, con la tecnica del bilanciamento, tra l’interesse alla conoscibilità diffusa e i differenti diritti ritenuti dall’ordinamento altrettanto meritevoli di tutela.

In particolare, l’art. 5 del d. l.g.sl. n. 195 precisa che l’accesso all’informazione ambientale è negato quando l’informazione richiesta non è detenuta dalla pubblica amministrazione alla quale è rivolta la richiesta di accesso, ciò in quanto l’amministrazione non è tenuta a raccogliere informazioni che non sono in suo possesso, ma è obbligata a rispondere sulla base dei documenti e delle informazioni che possiede; inoltre i pubblici uffici non sono tenuti a rielaborare informazioni in loro possesso, per rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato, ma deve consentire l’accesso ai documenti e ai dati  così come sono già detenuti e organizzati.

La richiesta è manifestamente irragionevole, ad esempio nel caso un numero cospicuo di documenti e informazioni sia tale da pregiudicare in modo serio ed immediato il buon funzionamento dell’amministrazione; tale circostanza va adeguatamente motivata nel provvedimento di rifiuto.

La richiesta è espressa in termini eccessivamente generici, tale, cioè da non consentire l’individuazione del dato, del documento o dell’informazione, con riferimento almeno, alla loro natura e al loro oggetto.

Inoltre l’accesso all’informazione è negato quando la divulgazione del dato reca pregiudizio ad interessi pubblici inerenti a relazioni internazionali, all’ ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, alla difesa nazionale; allo svolgimento di procedimenti giudiziari o alla possibilità per l’autorità pubblica di svolgere indagini per l’accertamento di illeciti; alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, cui si riferisce l’informazione, come nel caso dell’ubicazione di specie rare.

Ovvero se l’informazione reca pregiudizio ad interessi privati inerenti alla riservatezza dei dati personali, alla riservatezza delle informazioni commerciali o industriali, ai diritti di proprietà intellettuale.

La disposizione obbliga l’amministrazione a verificare se il pregiudizio agli interessi  considerati nella previsione contenuta nell’art. 5 sia concreto e se esso dipenda direttamente dalla disclosure dell’informazione ambientale richiesta.  Ciò emerge chiaramente dal tenore letterale del 3° comma dell’art. 5 in cui si afferma che  “l’autorità pubblica applica le disposizioni dei commi 1 ° e 2° in modo restrittivo, effettuando, in relazione a ciascuna richiesta di accesso, una valutazione ponderata fra l’interesse pubblico all’informazione ambientale e l’interesse tutelato dall’esclusione dall’accesso”.

Detto in altri termini, affinché l’accesso possa essere rifiutato, il pregiudizio agli interessi con cui operare, di volta in volta, un bilanciamento, deve essere concreto e deve sussistere un nesso di causalità tra l’accesso e il pregiudizio.

  1. Pubblicazione e accesso alle informazioni ambientali secondo il nuovo paradigma del d.lgs. n.33 del 2013: le nuove prospettive del diritto di conoscere l’ambiente.

Nell’ottica di un radicale mutamento di prospettiva delle relazioni tra istituzioni e cittadini, necessaria conseguenza dell’innovazione digitale e della progressiva transizione del sistema amministrativo verso modelli di democrazia partecipata, il d.lgs. n.33 del 2013 modificato dal decreto legislativo n. 97/2016 conferisce al principio della trasparenza una portata di carattere generale e non più limitata soltanto alle informazioni di carattere ambientale.

Le nuove discipline si pongono inoltre due obiettivi fondamentali collegati entrambi al valore della massima visibilità degli atti e delle informazioni pubbliche e in questa parte riprendono la previsione contenuta nell’art. 10 del d. lgs. n. 195  laddove si sottolinea  l’importanza della qualità dell’informazione ambientale e si chiede al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio di garantire che i dati detenuti dalle amministrazioni siano aggiornati, precisi e confrontabili.  Infatti, la trasparenza deve essere intesa come semplificazione e va realizzata attraverso la redazione di norme procedimentali più snelle con l’uso di un linguaggio comprensibile da parte del cittadino comune 2.

La semplificazione, anche linguistica, è il tratto qualificante della trasparenza, riempiendo di effettività il principio di eguaglianza sostanziale sancito nell’art. 3, 2° comma della Cost., laddove alla Repubblica viene affidato il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Poiché la capacità di coinvolgimento nei procedimenti amministrativi varia a seconda delle specifiche competenze e del diverso grado di istruzione delle persone, la trasparenza deve essere finalizzata, segnatamente, al fine di rendere accessibile a tutti il contenuto dei provvedimenti amministrativi, per una reale partecipazione.

Anzi, sotto questo profilo, la partecipazione dei cittadini acquisisce lo spessore di diritto fondamentale ai sensi dell’art. 2 Cost. ed essenza stessa del principio di trasparenza Non solo. L’esigenza di rendere comprensibili le scelte amministrative si pone come parte integrante del concetto di certezza del diritto, atteso che un’azione amministrativa equivoca e non intellegibile può facilmente trascendere in una lesione del principio di prevedibilità delle conseguenze giuridiche dell’agire individuale e, in buona sostanza, del principio di autoresponsabilità della persona.

Con particolare riferimento alle tematiche ambientali, l’art. 40 del decreto legislativo n. 33 del 2013 modificato dal d.lgs. n.97 del 2016 prevede che in materia di informazioni ambientali restano ferme le disposizioni di maggior tutela già previste dell’art. 3 – sexies del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152 che richiamando la Convenzione di Aarhus dispone che chiunque, senza essere tenuto a dimostrare la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante, può accedere alle informazioni relative  dell’ambiente e del paesaggio nel territorio nazionale.

Nel 2° comma, l’art. 40 richiama il decreto legislativo n. 195 del 2005 nella parte in cui prevede la pubblicazione da parte delle amministrazioni delle informazioni ambientali di cui all’art. 2, comma 1°, lettera a) del decreto legislativo 19 agosto 2005 n. 195 che detengono ai fini delle proprie attività istituzionali; medesimo obbligo di pubblicazione è previsto per la relazione sullo stato dell’ambiente elaborata dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio. Di tali informazioni deve essere dato specifico rilievo all’interno di una apposita sezione detta “informazioni ambientali”.

Il 3° comma si preoccupa di ribadire i casi di esclusione del diritto di accesso alle informazioni ambientali di cui all’art.5 del decreto legislativo 19 agosto 2005, n.195.

I casi di esclusione del diritto alla conoscibilità generalizzata elencati nell’art. 5 sopra richiamato costituiscono ipotesi residuali, al cospetto di un quadro ordinamentale edificato sui pilastri della trasparenza universale.  Il diniego di accesso agli atti e ai documenti in materia ambientale deve trovare giustificazione, in termini di pregiudizio concreto degli interessi in gioco. In particolare, il legislatore del 2005 con i casi di esclusione previsti nell’art. 5 non pone delle eccezioni assolute al diritto di accesso, ma rinvia ad una attività valutativa che deve essere effettuata caso per caso, attraverso la tecnica del bilanciamento, tra l’interesse pubblico all’accesso generalizzato e  altre esigenze di carattere pubblico o privato.

Nel caso in cui l’amministrazione propenda per il diniego connesso all’esistenza di effetti pregiudizievoli per altri interessi coinvolti nella richiesta di accesso, l’amministrazione è tenuta a motivare in maniera congrua e completa il provvedimento, al fine di consentire al cittadino di conoscere le ragioni del rifiuto ed eventualmente   ricorrere dinanzi al giudice amministrativo.

Si è avuto già modo di chiarire che gli interessi pubblici e privati indicati nell’art. 5 del decreto legislativo n. 195 e richiamati nel d.lgls.n.33 costituiscono esclusioni relative al diritto di accesso generalizzato, nel senso che solo dinanzi all’esistenza di un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi considerati è possibile rigettare l’istanza.

Le amministrazioni che detengono informazioni ambientali potranno trarre utili indicazioni  ai fini della identificazione degli interessi pubblici e privati considerati nell’art. 5 del decreto n. 195 del 2005 nelle linee guida approvate dall’Autorità Nazionale Anticorruzione, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali[8].  

[1] In proposito, si rinvia a I. Nicotra, Relazione Introduttiva, in Il danno ambientale tra prevenzione e riparazione, a cura di I. Nicotra – U. Salanitro, Torino 2010,  16 ss.

[2] Cfr., sul punto, M. Meli, Il principio “chi inquina paga” nel codice dell’ambiente, in Il danno ambientale, cit., 69 ss.; ID., Il principio chi inquina paga e il costo delle bonifiche, in Principi europei e illecito ambientale, a cura di A. D’Adda, I.A. Nicotra, U. Salanitro, Torino 2013, 59 ss.

[3] Così T. Fortuna, Inquinamento elettromagnetico vs diritto alla salute: il rimedio nell’approccio precauzionale, in Principi europei e illecito ambientale, cit.

[4] Cfr.E. Croci, Trasparenza dell’azione pubblica in materia ambientale: l’evoluzione normativa, in Diritto dell’Ambiente, www.dirittoambiente.com

[5] In proposito, sia consentito rinviare a I.A. Nicotra, La trasparenza e la tensione verso i nuovi diritti di democrazia partecipativa, in L’Autorità Nazionale Anticorruzione tra prevenzione e attività regolatoria, a cura di I. A. Nicotra, Torino 2016, 143 ss.

[6] Al riguardo, F. Albanese, Il diritto di accesso agli atti e alle informazioni ambientali, in www.lexambiente.

[7] Sull’influenza del diritto dell’Unione europea sulla legislazione ambientale italiana, I.A. Nicotra,  Influenza del diritto dell’Unione Europea sulla legislazione penale ambientale tra “contro limiti” e principi costituzionali, in  Principi europei, cit. e cfr. inoltre I principi contenuti  nella direttiva comunitaria 2003/4/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003.

[8] Cfr. Linee Guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.l.gs.33/2013, Art. 5 bis, comma 6, del d.lgs. n. 33 del 14/03/2013 recante “Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”,  approvato con Delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016.