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Relazioni

Relazione del prof. avv. Aldo Travi – Milano – 7/10/2011

Alla ricerca dell’azione di adempimento

1. Da alcuni decenni è stata prospettata da più parti l’introduzione di un’azione di adempimento anche nel processo amministrativo italiano. Queste proposte sembravano destinate ad essere recepite nel codice del processo amministrativo ed in effetti, in coerenza anche con una specifica previsione della legge di delega, il testo elaborato dall’apposita Commissione costituita dal Consiglio di Stato contemplava espressamente un’azione di adempimento: si trattava di un’azione accessoria a quella di annullamento e richiedeva perciò come condizione ordinaria l’annullamento del provvedimento di diniego. Nel testo finale del codice l’articolo che prevedeva l’azione di adempimento fu cassato, per ragioni non ancora del tutto chiarite, e nella Relazione al codice si conclude che tale azione è rimasta esclusa dal nostro processo amministrativo . Tuttavia il dibattito non è esaurito; sulla base di vari elementi testuali e sistematici una parte della dottrina ha sostenuto che l’azione di adempimento dovrebbe comunque ammettersi e di recente questa lettura è stata accolta, sul piano delle affermazioni di principio, in due sentenze dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (le sentenze n. 3 e n. 15 del 2011) e, soprattutto, ha trovato applicazione in una sentenza del Tar Lombardia (sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428).
La discussione è dunque aperta . In questa sede non esaminerò gli argomenti dell’una e dell’altra parte, ricavati dalle disposizioni del codice del processo amministrativo: il tema è già stato ampiamente illustrato in altre occasioni ed è inutile ripetere argomenti ormai noti. Personalmente ho espresso i dubbi sulla esperibilità, in via generale, di un’azione del genere, sulla base del testo del codice oggi vigente, e non ho ragione di mutare posizione. Tuttavia l’intensità della discussione nulla toglie alla convinzione comune che l’azione di adempimento segnerebbe un progresso importante nella nostra giustizia amministrativa. Proprio per questo motivo, dopo le sentenze dell’adunanza plenaria e quella del Tar Lombardia, si deve acquisire consapevolezza delle ragioni e delle condizioni per un’azione di adempimento che sia veramente utile per la tutela del cittadino: l’azione di adempimento sollecita oggi un’analisi giuridica, e non puramente di politica legislativa. Fra l’altro, come cercherò di spiegare, questa analisi può contribuire anche alla discussione in corso, perché consente di apprezzare meglio le opzioni di fondo che ne sono all’origine.
La presenza di illustri ospiti stranieri mi induce a dare atto innanzi tutto della situazione del processo amministrativo italiano e del suo progressivo avvicinamento ad un’azione di adempimento. Successivamente accennerò ad alcuni problemi di fondo, che a mio parere richiedono una soluzione meditata se si voglia perseguire in modo costruttivo la prospettiva di un’azione di adempimento.

2. E’ opinione diffusa che il nuovo assetto del processo amministrativo nell’Europa continentale sia caratterizzato dal superamento di una tutela incentrata sull’azione di annullamento . Anche nel processo amministrativo italiano questo superamento è in atto; tuttavia gli istituti che in passato, già prima del codice del 2010, lo hanno segnato e che in passato erano sembrati la punta avanzata del modello italiano, oggi, se inquadrati in una prospettiva più generale, dimostrano elementi sempre più evidenti di inadeguatezza, se non addirittura margini di contraddizione. Il codice li ha recepiti in termini pressoché immutati e così ha perpetuato anche i limiti precedenti.
a) Primo punto: l’effetto rinnovatorio della sentenza di annullamento.
In Italia l’azione per l’annullamento del provvedimento amministrativo si caratterizza pacificamente per effetti ulteriori rispetto alla eliminazione dell’atto: si ritiene infatti che la sentenza di annullamento condizioni anche l’attività amministrativa dell’amministrazione successiva alla sentenza. E’ il c.d. vincolo conformativo della sentenza: esso comporta che all’amministrazione sia preclusa, nel caso di rinnovazione del procedimento, la ripetizione del vizio accertato nella sentenza stessa. Se l’amministrazione riproduce comunque tale vizio, non si verifica soltanto una duplicazione del vizio precedente, ma si verifica una violazione della sentenza; per il caso di violazione della sentenza amministrativa in Italia è ammesso, da quasi tre quarti di secolo, un giudizio di esecuzione, il giudizio di ottemperanza, nel quale il giudice amministrativo esercita direttamente o attraverso un commissario poteri sostitutivi rispetto all’amministrazione. L’esecuzione tipica del processo amministrativo italiano è una esecuzione di ordine sostitutivo (non è un’esecuzione ‘indiretta’, perseguìta attraverso la comminatoria di sanzioni nei confronti dell’autorità inadempiente ); questo carattere non subisce deroghe neppure in presenza di un’attività discrezionale dell’amministrazione e ciò rappresenta indubbiamente un punto di forza.
La sentenza di annullamento determina quindi un vincolo preciso sull’attività amministrativa successiva. Nello stesso tempo, però, deve essere chiaro che non produce un esito corrispondente a quello di un’azione di adempimento: l’effetto rinnovatorio stabilisce che cosa l’amministrazione non debba fare, ed ha perciò una portata tipicamente negativa, mentre l’azione di adempimento dovrebbe imporre all’amministrazione che cosa fare, operando cioè in positivo e trasformando il successivo potere amministrativo in una mera attività esecutiva. La distinzione è fondamentale: altro è il risultato di una sentenza che annulli il diniego di un permesso di costruire, magari anche per vizi sostanziali, altro è il risultato di una sentenza che ordini all’amministrazione di rilasciare il permesso di costruire. Nel primo caso l’amministrazione può esercitare ancora il potere, negando nuovamente il permesso di costruire, seppur per ragioni diverse da quelle del primo diniego; nel secondo caso l’amministrazione può solo rilasciare il permesso richiesto dal cittadino.
La differenza sostanziale fra i due modelli non è superata neppure se si considerano unitariamente il processo di cognizione e il giudizio di ottemperanza, così come nel processo civile vale per la sentenza di condanna e l’esecuzione forzata. Infatti la giurisprudenza italiana ha respinto la tesi, pur sostenuta in passato da autorevole dottrina, secondo cui ogni questione insorta successivamente alla sentenza di annullamento avrebbe dovuto essere demandata al giudizio di ottemperanza: la giurisprudenza ha ancorato l’esperibilità del giudizio di ottemperanza alla violazione della sentenza . In altre parole, il ricorso per l’ottemperanza nel diritto italiano è assimilabile a un’azione di adempimento, ma l’esperibilità di tale azione è subordinata a condizioni molto strette, quasi in una logica di eccezionalità. Di conseguenza anche la sommatoria dell’azione di annullamento e del ricorso per ottemperanza non comporta oggi risultati equivalenti a quelli dell’azione di adempimento; anzi non evita neppure il rischio di una serie indefinita di sentenze di annullamento e di successivi provvedimenti negativi dell’amministrazione.
Una situazione del genere appare di dubbia compatibilità con i principi costituzionali sulla garanzia della tutela giurisdizionale. Il tema delle condizioni di esperibilità del giudizio di ottemperanza identifica oggi un elemento critico per la tutela del cittadino anche nella prospettiva che qui interessa. E questo profilo è rimasto irrisolto, purtroppo, anche nel recente codice del processo amministrativo.
b) Secondo punto: la tutela cautelare nei confronti di provvedimenti negativi.
In Italia la tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi dell’amministrazione ha assunto negli ultimi trent’anni contenuti più ampi di quelli propri dell’azione di annullamento. Si ammette infatti che nei confronti di provvedimenti negativi il giudice amministrativo, in sede cautelare, possa adottare qualsiasi misura necessaria per tutelare l’interesse del cittadino alla sentenza: può anche consentire interinalmente l’attività preclusa dal provvedimento negativo, o può ordinare all’amministrazione di ammetterla in attesa della sentenza. Non interessa qui la discussione sulla compatibilità di questa soluzione con il criterio fondamentale della strumentalità della tutela cautelare rispetto alla pronuncia di merito: è sufficiente ricordare che la linea più avanzata è stata recepita anche dal legislatore, già con la riforma del processo amministrativo dell’anno 2000.
Una tutela cautelare così estesa garantisce più efficacemente dal rischio che la durata del processo possa sacrificare l’interesse del ricorrente alla sentenza. Tuttavia si delinea, a questa stregua, anche una contraddizione di fondo, perché in concreto il cittadino può ottenere in sede cautelare utilità maggiori di quelle che può conseguire dalla sentenza che accolga l’impugnazione del provvedimento. Si confronti l’ammissione con riserva, disposta in sede cautelare alla classe successiva di un ciclo scolastico, con l’annullamento del giudizio di non ammissione alla classe successiva, che è compatibile con un nuovo giudizio negativo. Con la sentenza cadono gli effetti della misura cautelare; ciò può comportare però (e comporta in molti casi) la perdita dei benefici acquisiti interinalmente in sede cautelare.
A questa contraddizione si è cercato di ovviare istituendo il confronto fra misura cautelare ed esito del giudizio di ottemperanza: il giudizio di ottemperanza può anche comportare, come si è appena visto, una sostituzione del giudice o di un suo commissario all’amministrazione nell’emanazione di un provvedimento. Abbiano rilevato, però, come la prospettiva di un giudizio amministrativo bifasico, costituito insieme dalla fase di cognizione e dall’ottemperanza, non sia realistica, alla stregua della giurisprudenza prevalente. L’ordinanza cautelare nel giudizio di cognizione va dunque confrontata inevitabilmente con la sentenza che conclude tale giudizio.
In questo modo, però, in un sistema che ammetta in via generale solo l’azione di annullamento, la contraddizione appare insuperabile.
c) Terzo punto: l’azione nei confronti del silenzio dell’amministrazione.
E’ pacifico che il processo amministrativo italiano ammetta già oggi, in ipotesi particolari, un’azione di adempimento. Queste ipotesi corrispondono ad alcuni casi in cui è controverso se si tratti di azione di adempimento a tutela di interessi legittimi, o invece di azione di condanna a tutela di diritti soggettivi (si pensi al giudizio sull’accesso – art. 116 c.p.a.), e a un caso più importante e coinvolgente, che è quello del giudizio sul silenzio (art.31 c.p.a.). In quest’ultimo caso, se lo chiede la parte ricorrente, il giudice amministrativo può imporre all’amministrazione un comportamento determinato, in particolare quando accerti che la domanda del cittadino, su cui l’amministrazione non ha provveduto, avrebbe dovuto essere accolta.
E’ evidente la contraddizione fra ammettere un’azione di adempimento nel caso del silenzio e non consentirla invece nel caso di un provvedimento negativo. Paradossalmente il cittadino finisce col trovarsi in una situazione processuale più favorevole se l’amministrazione non abbia risposto alla sua istanza; se poi, in pendenza del giudizio, l’amministrazione adotta un provvedimento negativo, il cittadino perde comunque la possibilità di un’azione di adempimento (cfr. art. 117, comma 5, c.p.a.).
Nello stesso tempo il giudizio sul silenzio testimonia come l’ambito dell’accertamento nel processo amministrativo non sia determinato necessariamente o rigidamente dal provvedimento impugnato. L’estensione dell’accertamento alla fondatezza della pretesa sostanziale del cittadino non viola nessun principio istituzionale.
d) Le contraddizioni che emergono alla luce dei tre elementi che ho appena illustrato verrebbero invece superate se si ammettesse in via generale l’azione di adempimento. Per questa ragione, l’introduzione di un’azione di adempimento non costituisce una mera opzione di politica legislativa, opportuna magari anche per diminuire il ‘gap’ rispetto a sistemi stranieri, ma appare necessaria anche per recuperare coerenza nel nostro processo amministrativo.

3. L’azione di adempimento nella dottrina italiana è stata considerata soprattutto nella logica della estensione dei poteri decisori del giudice: come cercherò di spiegare nel mio intervento, in realtà in questo modo si finisce col confinare il suo rilievo e non si colgono le implicazioni più importanti. Ad ogni modo, dato che la tematica dell’azione di adempimento viene risolta in genere nella tipologia delle sentenze nel processo amministrativo, ritengo utile soffermarmi un attimo anche su questo profilo.
Il diritto processuale italiano, soprattutto quello civile (quello amministrativo segue a ruota, ma con qualche ritardo), si ispira da quasi un secolo all’insegnamento di Giovanni Chiovenda e alla sua fondamentale teorizzazione dei caratteri dell’azione giurisdizionale. In base a questo insegnamento l’azione è strumento a tutela della situazione soggettiva; ciò che spetta a un cittadino secondo il diritto sostanziale, se non viene conseguito spontaneamente, deve poter essere assegnato a quel cittadino dal giudice. La garanzia giurisdizionale non è a sé stante, e non rappresenta neppure il punto d’origine per la creazione del diritto sostanziale (come invece era, per esempio, nel processo formulare romano), ma va modellata sulla situazione soggettiva. Questa prospettiva ha determinato, nel processo civile, un progressivo superamento della rigidità nell’assetto delle azioni e delle sentenze: l’azione è fondamentalmente l’attuazione del diritto soggettivo attraverso lo strumento del processo e in un contesto del genere la distinzione fra le azioni svolge un’utilità principalmente descrittiva.
A questa conclusione, nel processo amministrativo italiano è stata opposta la specificità dell’interesse legittimo, intesa come categoria soggettiva diversa e inconfondibile rispetto al diritto soggettivo. Nelle sistematiche più comuni, l’interesse legittimo si caratterizza, a differenza del diritto soggettivo, per il fatto di esprimere la relazione giuridica di un cittadino con il c.d. potere amministrativo: rispetto al potere dell’amministrazione il cittadino non è titolare di un diritto, ma è titolare di un interesse legittimo. In questo modo il cittadino che aspira a conseguire un’utilità dall’amministrazione (si pensi al cittadino che chiede un’autorizzazione commerciale, un permesso di costruire, o che partecipa a un concorso o a una gara per un appalto pubblico) deve sempre transitare attraverso la mediazione necessaria del provvedimento amministrativo; solo nel caso estremo rappresentato dal giudizio di ottemperanza, e cioè quando l’amministrazione si ostini a violare la sentenza amministrativa, questa regola generale ammette una deroga.
Su questo tema, quello del livello di ‘necessarietà’ del potere amministrativo, l’azione di adempimento introduce prospettive nuove. Come si è già ricordato, nel caso dell’azione di annullamento, il provvedimento illegittimo è annullato, ma il potere amministrativo sopravvive, fatto salvo soltanto il divieto per l’amministrazione di ripetere l’illegittimità già accertata nella sentenza. Invece l’azione di adempimento può comportare un superamento del potere amministrativo, perché il giudice, ove ne sussistano le condizioni di diritto sostanziale, può accertare che al cittadino spetta il rilascio di un provvedimento positivo. L’attività successiva dell’amministrazione, di esecuzione della sentenza, non può essere considerata esercizio di potere, perché la sentenza assorbe i profili più caratteristici del potere amministrativo, rappresentati dalla sua capacità di decidere come, quando e a favore di chi distribuire utilità e risorse. In questo senso, chi sostiene che già oggi sia possibile in via generale un’azione di adempimento nel nostro processo amministrativo dà rilievo alla circostanza che il codice del processo amministrativo, nel trattare della sentenza, non contempla più la clausola di salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione, contenuta in precedenza nell’art. 45 del regolamento di procedura del 1907 e nell’art. 26 della legge istitutiva dei Tar (cfr. art. 34 c.p.a.).
Una dottrina processualcivilista afferma che proprio per questa ragione l’azione di adempimento è un’azione di condanna (e questo viene ritenuto un argomento ulteriore per ammetterla già oggi, sulla base dell’art.30 cod.proc.amm.) e coerentemente dall’esperibilità di un’azione di condanna deduce che la distinzione generale fra interesse legittimo e diritto soggettivo non avrebbe più un carattere decisivo. Infatti, almeno in molti casi, la pretesa giudica del cittadino è pretesa a un particolare provvedimento amministrativo, in forza direttamente della legge o anche del concreto svolgimento del procedimento. Pertanto in questi casi il cittadino sarebbe titolare nei confronti dell’amministrazione di una pretesa riconosciuta dal diritto sostanziale, qualificata per un risultato specifico, e in base ai principi illustrati da Chiovenda non si dovrebbe escludere la possibilità di una tutela adeguata. Una tutela adeguata, ovviamente, non potrebbe essere di tipo annullatorio, perché non sarebbe garantita altrimenti una componente importante della pretesa giuridica.
Questa lettura aiuta a cogliere alcuni profili significativi per l’azione di adempimento: la sua coerenza con il quadro sostanziale, l’irriducibilità nell’azione di annullamento, le implicazioni rispetto alla tematica delle situazioni soggettive. Nello stesso tempo, sottolinea ulteriormente il profilo rappresentato dall’esaurimento del potere amministrativo: infatti a una condanna, per definizione, non sopravvive alcuna posizione di potere giuridico. Inoltre esprime la consapevolezza che l’azione di adempimento presupponga un’attività di accertamento del giudice, proprio come si verifica normalmente nella condanna civile, ed è questo il punto sul quale a mio parere è necessaria la riflessione più attenta.
Infatti un problema di fondo del processo amministrativo italiano è rappresentato dall’accertamento del giudice amministrativo e questo problema, che è generale, risulta ancora più importante rispetto a un’azione di adempimento. Infatti, nel caso dell’azione di adempimento, l’accertamento, se non si può esaurire nella verifica di un profilo di illegittimità dell’atto e deve spingersi fino alla verifica della fondatezza della pretesa del cittadino alla stregua dell’ordinamento, a maggior ragione richiede una cognizione piena della pretesa.
Il giudizio amministrativo ha come oggetto una pretesa giuridica del cittadino. A questi fini, il giudice amministrativo deve poter accertare tutti gli elementi della pretesa che siano di rilevanza giuridica. Rispetto a una sentenza di annullamento, la cui utilità è innanzi tutto cassatoria, questi aspetti sono già di per sé importanti; essi però diventano decisivi rispetto alla pronuncia di adempimento, perché essa definisce in modo puntuale e definitivo il rapporto fra il cittadino e l’amministrazione. Altrimenti l’azione di adempimento rischia di produrre un esito inutile o addirittura ingiusto, perché sarebbe determinata da un accertamento e da una valutazione dei fatti operati dall’amministrazione in modo insoddisfacente o addirittura parziale . In questo modo l’esigenza di fondo, di assicurare un rapporto più corretto fra il cittadino e l’amministrazione, rimarrebbe inattuata.
Oggi nel dibattito sull’azione di adempimento questo aspetto sembra complessivamente trascurato. Al centro appare soprattutto la preoccupazione di estendere i poteri decisori del giudice. In realtà una prospettiva incentrata sui poteri decisori risulta inadeguata. Preliminare è invece un assetto più ampio dei poteri di cognizione del giudice.

4. Una ‘civilizzazione’ dell’azione di adempimento richiede quindi che la cognizione del giudice abbia tutta l’ampiezza necessaria per consentire, sul piano istituzionale, che la sentenza possa essere ‘giusta’. Pertanto il giudice amministrativo deve poter conoscere ed accertare tutti i profili dell’azione amministrativa che siano rilevanti da un punto di vista giuridico.
Da questo punto di vista, mi pare che vadano riconosciuti innanzi tutto tre corollari.
In primo luogo l’accertamento deve poter riguardare tutti i fatti, storici o materiali, rilevanti per l’azione amministrativa. L’accertamento dei fatti, nel nostro ordinamento, non è mai oggetto di riserva all’amministrazione: di conseguenza, il giudice, quando un fatto sia controverso, deve poterlo conoscere. Riservare all’amministrazione la ricostruzione dei fatti equivale ad amputare di una componente fondamentale il sindacato di legittimità, dato che la legge ancora sempre il potere amministrativo a condizioni specifiche di fatto. D’altra parte la terzietà del giudice, oggi richiesta anche dall’art.111 Cost., è incompatibile con l’assegnazione di un peso preferenziale all’accertamento dei fatti compiuto dall’amministrazione.
Ciò comporta anche che al giudice amministrativa deve disporre di mezzi di prova adeguati per la conoscenza dei fatti. Purtroppo da questo punto di vista il codice del processo amministrativo non ha rappresentato sempre un avanzamento: infatti alcune disposizioni, come quella sulla limitazione della testimonianza (art.63, comma 3, c.p.a.), sono irragionevolmente limitative.
In secondo luogo la valutazione dei fatti, per quanto concerne la loro qualificazione per profili di ordine tecnico, di norma non è riservata all’amministrazione: quindi, se sia controversa la valutazione del fatto compiuta dall’amministrazione, il giudice deve poter procedere a una valutazione autonoma (si pensi agli indici di anomalia dell’offerta in una gara d’appalto, alla gravità dell’infrazione ai fini della esclusione dei requisiti generali per i contratti pubblici, ma anche alla ragionevolezza del termine ai fini dell’annullamento d’ufficio, alla gravità di un’infermità ai fini della dispensa dal servizio, ecc.). Questa conclusione si riallaccia all’osservazione più generale che di fronte ai c.d. concetti giuridici indeterminati, o alle c.d. clausole generali, non vige alcuna riserva istituzionale di potere a favore dell’amministrazione: la loro applicazione non è esercizio di discrezionalità amministrativa. Fra l’altro proprio in questi ultimi anni un indirizzo meditato della Cassazione ha ammesso che la contestazione dell’applicazione di clausole generali costituisca questione deducibile con ricorso per cassazione . A maggior ragione, pertanto, deve escludersi una ragione istituzionale che impedisca la cognizione del giudice amministrativo.
Purtroppo anche per questo profilo il codice del processo amministrativo risulta insoddisfacente. Mi riferisco particolarmente alla disposizione (che, peraltro, lo stesso Consiglio di Stato sta interpretando con molta larghezza) che ha limitato la consulenza tecnica a casi eccezionali ed ha invece enfatizzato il ricorso del giudice alla verificazione amministrativa (art.63, comma 5, c.p.a.). Si tratta di una delle previsioni più deludenti della recente riforma.
In terzo luogo ritengo che, più in generale, sia necessaria una maggiore prudenza a riconoscere spazi di discrezionalità amministrativa. L’assimilazione dei concetti giuridici indeterminati alla discrezionalità amministrativa, che ha condizionato parte della dottrina e ampia parte della giurisprudenza, ha prodotto come esito anche l’individuazione di spazi esorbitanti per la discrezionalità. La discrezionalità amministrativa richiede invece che la legge dia rilievo, in modo inequivocabile, a concezioni soggettive dell’interesse pubblico, come si verifica tipicamente per gli atti che ammettano una componente di apprezzamento politico. Invece, là dove la legge demanda all’amministrazione valutazioni riconducibili a clausole generali, analoghe a quelle che si riscontrano anche per l’attività privata (come quelle che richiamano l’esigenza di una corretta gestione delle risorse, nella logica del buon padre di famiglia), non si configura alcuna discrezionalità e non vi è ragione per introdurre limiti particolari quanto alla cognizione del giudice.
L’azione di adempimento, per essere efficace, richiede la pienezza della cognizione del giudice amministrativo in merito alla ricostruzione dei fatti, alla loro valutazione per i profili latamente tecnici e all’applicazione dei concetti giuridici indeterminati. Altrimenti il progresso rispetto al vincolo rinnovatorio della sentenza di annullamento sarà molto labile, in termini concreti. Si ripeterebbe, insomma, la situazione che oggi già riscontriamo nella giurisprudenza sul silenzio, che tende quasi sistematicamente a negare la possibilità di sentenze che ordinino all’amministrazione di emanare provvedimenti specifici, perché in definitiva sarebbero quasi sempre identificabili spazi di discrezionalità amministrativa o margini di valutazioni complesse (è esemplare, in proposito, la giurisprudenza sul silenzio rispetto a domande di permesso di costruire).

5. Con particolare riferimento all’azione di adempimento, l’accesso del giudice ai fatti sollecita un’ultima riflessione.
A questi fini è opportuno precisare innanzi tutto quali fatti identifichino la pretesa del ricorrente, nel caso dell’azione di adempimento, anche per definire i contenuti essenziali della domanda. Nell’azione di annullamento assumono rilievo i fatti che attengono alla posizione giuridica del ricorrente, alla luce dei vizi del provvedimento dedotti nel ricorso, nell’articolazione dei tre vizi tipici di legittimità (cfr. art. 29 c.p.a.). Nel caso dell’azione di adempimento non sono rilevanti i tre vizi tipici di legittimità, perché si controverte invece sulla pretesa al rilascio di un certo provvedimento. Assumono rilievo fondamentalmente la presentazione della domanda di provvedimento (se il procedimento è a iniziativa di parte), la legittimazione del ricorrente in base alla norma sostanziale, la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per il rilascio di quel provvedimento. Il ricorrente è pertanto gravato dall’onere di ‘allegare’ questi fatti.
Questi stessi fatti, se siano tutti o in parte contestati, possono essere oggetto di un’indagine istruttoria. Altrimenti, sulla base della disciplina generale, dovrebbe valere il principio di non contestazione (art. 64, comma 2, c.p.a.), in base al quale il giudice pone a fondamento della decisione “i fatti non specificamente contestati dalla parte convenuta”. Ciò significa, per esempio, che se il ricorrente richieda il rilascio di un permesso di costruire, allegando tutti i fatti che identificano il suo titolo a conseguirlo, e il Comune si limiti a una difesa formale, il giudice è comunque tenuto ad accogliere la domanda e ad ordinare all’amministrazione il rilascio del provvedimento.
E’ evidente che una difesa poco curata dell’amministrazione può compromettere interessi di rilievo più generale. Ma vi è di più: si profila anche il rischio che l’amministrazione riesca così ad eludere le proprie responsabilità, perché di fronte a una sentenza che le ordini di rilasciare il permesso di costruire non può configurarsi alcuna responsabilità a carico del Comune che la esegua; l’azione di adempimento finisce col rappresentare così una soluzione fin troppo comoda. Si può obiettare che un rischio del genere si presenta anche nell’azione di annullamento, ma indubbiamente le conseguenze appaiono più gravi nell’azione di adempimento. Infatti proprio in questo caso la sentenza di accoglimento ha un carattere proprio di definitività, dato che non lascia spazio ad ulteriori esercizi del potere amministrativo.
Il problema non si risolve invocando la necessità della notifica del ricorso ai terzi controinteressati e perciò una dialettica più ampia nel processo. La garanzia della legalità non può essere rimessa ai controinteressati. Fra l’altro, anche la loro stessa identificazione, nel caso di azione di adempimento, può essere problematica: si pensi al giudizio sulla pretesa ad un permesso di costruire, se si segue con coerenza il criterio della ‘vicinitas’.
Viene quindi naturale prospettare modelli alternativi all’attuale, per esempio modelli che riconoscano un’ampia iniziativa istruttoria al giudice, anche in presenza di fatti non contestati. In questo modo, però, risulterebbe disatteso una delle componenti del c.d. metodo acquisitivo, sul quale si basa tradizionalmente il processo amministrativo in base all’insegnamento di Benvenuti e che è sostanzialmente confermato anche nel codice (artt. 63 ss. c.p.a.) e si introdurrebbero motivi di ordine inquisitorio.
Il metodo acquisitivo attua fedelmente la concezione del processo amministrativo come processo di parti, perché consente che alla condotta processuale delle parti sia ricondotta la determinazione, nell’ambito dei fatti rilevanti, di quelli che richiedano una prova. Si tratta allora di capire se, nella prospettiva dell’azione di adempimento, siamo comunque disposti ad accettare tutti i costi che comporta un processo di parti, anche nel caso in cui si possa produrre un esito concretamente contrastante con la legge.

Aldo Travi

Relazione tedesca del dott. Jürgen Weißmann – Menaggio – 14/9/2012

Verwaltungsgerichtliche Überprüfung von technisch geprägten Behördenentscheidungen im Umweltrecht
Jürgen Weißmann, Richter am Verwaltungsgericht Potsdam

Wird jemand durch die öffentliche Gewalt in seinen Rechten verletzt, so steht ihm der Rechtsweg offen. So klar steht es in der deutschen Verfassung(1). Gleichwohl unterliegt die verwaltungsgerichtliche Überprüfung von technisch geprägten Behördenentscheidungen gewissen Einschränkungen in tatsächlicher und rechtlicher Hinsicht.

Ein Einfallstor für Einschränkungen können unbestimmte Rechtsbegriffe wie die sogenannten Technikklauseln sein, von denen der Gesetzgeber im Umweltrecht häufig Gebrauch macht. Bei den Technikklauseln handelt es sich um drei verschiedene Formulierungen des Gesetzgebers: 1. den Regeln der Technik, 2. dem Stand der Technik und 3. dem Stand der Wissenschaft. Nach einer sogenannten Dreistufentheorie(2) sind die drei Technikklauseln nicht inhaltsgleich. Zur Einhaltung der Regeln der Technik sind geringere Anforderungen zu erfüllen, als zur Einhaltung des Standes der Technik, welcher selbst hinter den höchsten Ansprüchen des Standes der Wissenschaft zurückbleibt. Der Gesetzgeber trägt mit den unterschiedlichen Klauseln unterschiedlich hohen Gefahrenpotentialen Rechnung. Im Gesetz zur Ordnung des Wasserhaushalts(3) spricht der Gesetzgeber deshalb nur von den allgemein anerkannten Regeln der Technik, im Gesetz zum Schutz vor schädlichen Umwelteinwirkungen durch Luftverunreinigungen, Geräusche, Erschütterungen und ähnliche Vorgänge(4) , dem Bundesimmissionsschutzgesetz, bereits von dem Stand der Technik und im Gesetz über die friedliche Verwendung der Kernenergie und den Schutz gegen ihre Gefahren(5) , dem Atomgesetz, schließlich von dem Stand von Wissenschaft und Technik und normiert damit die höchsten Anforderungen. Trotz dieser Einordnung der Technikklauseln in eine formale Hierarchie bleiben die Technikklauseln schwer oder gar nicht bestimmbar. Es sind sogenannte unbestimmte Rechtsbegriffe, deren Besonderheit darin besteht, daß sie stillschweigend auf außerrechtliche sogenannte technische Normen, technische Empfehlungen und technische Anleitungen verweisen(6).

Soweit es sich dabei um solche Regelwerke handelt, die von privaten Vereinen oder anderen Stellen, die keinen öffentlich-rechtlichen Status besitzen, verfasst sind, findet durch diese Regelwerke keine Einschränkung der gerichtlichen Überprüfung statt. Unter solche privaten Regelwerke, an die das Gericht nicht gebunden ist, fallen rund zweihundert(6) als Normen, Empfehlungen, Anleitungen und Richtlinien bezeichnete Werke, die beispielsweise das Deutsche Institut für Normung (DIN), der Verein Deutscher Ingenieure (VDI), der Verband Deutscher Elektrotechniker (VDE), der Technische Überwachungsverein (TÜV) oder die Deutsche Naturstein Akademie (DENAK)(7) erlassen haben. Das Oberverwaltungsgericht Lüneburg(8) hat 1998 zu einer Richtlinie, die der Verein Deutscher Ingenieure zum Zwecke der Emissionsminderung bei der Haltung von Hühner aufgestellt hat, ausgeführt, dass die Richtlinie zwar nicht schon Kraft ihrer Existenz die Qualität von anerkannten Regeln der Technik besitze und auch keine Bindungskraft für die Verwaltung oder die Gerichte entfalte, jedoch eine brauchbare Entscheidungshilfe für die Beurteilung luftverunreinigender Stoffe aus der Hühnerhaltung darstelle. Im Jahre 2007 hat das Bundesverwaltungsgericht(9) ausgeführt, dass eine Richtlinie des gleichen Vereins zum Zwecke der Emissionsminderung bei der Haltung von Schweinen ein bloßes Regelwerk sei und keine Rechtsquelle darstelle. Vielmehr enthalte die Richtlinie technische Normen, die auf den Erkenntnissen und Erfahrungen von Sachverständigen beruhten und insoweit die Bedeutung von allgemeinen Erfahrungssätzen und antizipierten generellen Sachverständigengutachten hätten. Ihre Auslegung sei als solche keine Rechtsanwendung, sondern Tatsachenfeststellung. Nach dieser Rechtsprechung bleibt die Letztentscheidungsmacht in der Hand des Gerichts, weil das jeweils einschlägige technische Regelwerk des Privaten widerlegt werden kann, beispielsweise durch ein von dem Gericht eingeholtes Gutachten. Da zudem Beweisanträge substantiiert(10) sein müssen, verpflichtet die schlichte Behauptung, ein bestimmtes privates Regelwerk sei falsch, das Gericht nicht, ein Gutachten hierüber einzuholen. Somit dient das private Regelwerk dem Richter insoweit als Hilfe, als es ihn in einer Vielzahl von Fällen von der Einholung eines Gutachtens eines Sachverständigen entbinden kann.

Ebenfalls ohne Bindungswirkung für den Verwaltungsrichter sind lediglich beratende oder empfehlende Entscheidungen von Gremien, beispielsweise die Empfehlungen, die die bei dem Bundesumweltministerium gebildeten Kommissionen für Reaktorsicherheit und für Strahlenschutz geben. Die Satzungen der Strahlenschutz- und der Reaktor-Sicherheitskommissionen verdeutlichen dies. Dort(11) heißt es jeweils, dass die Kommission als Ergebnis ihrer Beratungen naturwissenschaftliche und technische Empfehlungen oder Stellungnahmen an das Bundesministerium beschließt und keine rechtlichen Bewertungen trifft.

Neben den technischen Regelwerken Privater und bloß beratenden bzw. empfehlenden Entscheidungen bei der Verwaltung angesiedelter Gremien gibt es Regelwerke der Behörden selbst, sogenannte Verwaltungsvorschriften. Das sind abstrakt-generelle Regelungen, die von übergeordneten Instanzen oder Vorgesetzten an nachgeordnete Behörden oder Bedienstete innerhalb der Verwaltung erlassen worden sind, um einen gleichmäßigen Gesetzesvollzug in eine bestimmte Richtung sicherzustellen. Man kann drei Arten von Verwaltungsvorschriften unterscheiden: 1. ermessenslenkende Verwaltungsvorschriften, 2. norminterpretierende einfache Verwaltungsvorschriften und 3. normkonkretisierende Verwaltungsvorschriften.

Ermessenslenkende Verwaltungsvorschriften sind behördeninterne Anweisungen von übergeordneten Personen oder Stellen über die Fragen, ob und wie ein Entscheidungsspielraum eines Gesetzes in bestimmten Fällen auszuüben ist. Norminterpretierende Verwaltungsvorschriften sind solche, die – ebenfalls behördenintern – dem Sachbearbeiter vorgeben, wie ein bestimmter Gesetzestext auszulegen ist. Während sich also ermessenslenkende Verwaltungsvorschriften auf die Rechtsfolgen von solchen Gesetzen beziehen, die den Behörden Ermessen eröffnen, beziehen sich die norminterpretierende und normkonkretisierende Verwaltungsvorschriften auf Tatbestandsmerkmale, also die Voraussetzungen der Gesetze. Normkonkretisierende Verwaltungsvorschriften unterscheiden sich von nominterpretierenden Verwaltungsvorschriften dadurch, dass normkonkretisierende Verwaltungsvorschriften ein besonderes Aufstellungsverfahren mit vielen Beteiligten aus unterschiedlichen Lagern durchlaufen, von dem noch die Rede sein wird.

Die Verwaltungsvorschriften der ersten beiden Kategorien, also ermessenslenkende und norminterpretierende Verwaltungsvorschriften, entfalten grundsätzlich nur Bindungswirkung innerhalb der Verwaltung, während die normkonkretisierenden Verwaltungsvorschriften unter bestimmten Voraussetzungen anders als private Regelwerke grundsätzlich nicht durch Gerichtsgutachten widerlegt werden können und für das Gericht verbindlich sind. Hauptbeispiele im Umweltrecht sind die als Verwaltungsvorschriften auf Bundesebene erlassenen Technischen Anleitungen Luft und Lärm, kurz TA Luft und TA Lärm genannt.

Kritiker halten normkonkretisierende Verwaltungsvorschriften mit derartiger Wirkung unter einem verfassungsrechtlichen Blickwinkel für problematisch, weil das Rechtsstaatsprinzip und das Demokratieprinzip verlangten, dass der demokratisch legitimierte Gesetzgeber die wesentlichen Entscheidungen selbst (in Gesetzesform) treffe. Die Verwaltung habe nur eine abgeleitete, schwache demokratische Legitimation und dürfe deswegen nicht mit zu viel Entscheidungsgewalt ausgestattet sein.(12) Dennoch werden heute die als Verwaltungsvorschriften ergangenen Technischen Anleitungen, in denen gesetzliche Standards im Bereich des Umweltrechts konkretisiert werden, faktisch ähnlich wie Gesetze angewendet. Als ich mit dem Studium der Rechte begonnen hatte, das war vor fast 30 Jahren, hatte man die Dinge noch etwas anders gesehen. Damals war das Bundesverwaltungsgericht(13) noch davon ausgegangen, dass es sich bei den als Verwaltungsvorschriften erlassenen Technischen Anleitungen lediglich um sogenannte antizipierte Sachverständigengutachten handeln würde, welche – durch Einholung eines Sachverständigengutachtens durch das Gericht – widerlegbar seien. Das Bundesverwaltungsgericht hat diese Auffassung zunächst für das Atomrecht(14) und später im Bereich des Immissionsschutzrechts(15) aufgegeben. Die Technischen Anleitungen seien nicht nur norminterpretierende Verwaltungsvorschriften, die auf einen gleichmäßigen Gesetzesvollzug gerichtet seien, sondern enthielten darüber hinaus generalisierende tatsächliche Feststellungen und Wertungen. Die Grenzwerte in den Technischen Anleitungen drückten nicht nur technisches Fachwissen aus, sondern zugleich einen politischen Kompromiss zwischen Staat, Wissenschaft und Wirtschaft. Dieser Kompromiss wird unter Mitwirkung der beteiligten Kreise gefunden. Diese sind im Immissionsschutzrecht beispielsweise Vertreter der Wissenschaft, der Betroffenen, der beteiligten Wirtschaft, des beteiligten Verkehrswesens und der für den Immissionsschutz zuständigen obersten Landesbehörden.(16) Durch dieses besondere Aufstellungsverfahren soll eine gewisse Gewähr dafür entstehen, daß ihr Inhalt richtig ist.

In einem Urteil des Verwaltungsgerichtshofs Baden-Württemberg(18) aus dem Jahre 2011 liest sich die Heranziehung einer normkonkretisierenden Technischen Anleitung so:

“Als Verwaltungsvorschrift, die zur Durchführung des Bundesimmissionsschutzgesetzes …(17) nach Anhörung der beteiligten Kreise erlassen wurde, enthält die TA Luft nicht nur grundsätzlich verbindliche Regelungen, Festlegungen und Vorgaben für die mit Genehmigungen befassten Verwaltungsbehörden (vgl. Nr. 1 Satz 3 TA Luft), sondern konkretisiert auch unbestimmte Rechtsbegriffe des Gesetzes durch generelle, dem gleichmäßigen und berechenbaren Gesetzesvollzug dienende Standards, die entsprechend der Art ihres Zustandekommens in hohem Maße wissenschaftlich-technischen Sachverstand und allgemeine Folgenbewertungen verkörpern. Die TA Luft ist mit dieser Funktion auch im gerichtlichen Verfahren beachtlich.”

Bevor eine normkonkretisierende Verwaltungsvorschrift im gerichtlichen Verfahren beachtlich ist, muß sie sechs Voraussetzungen(19, 20) erfüllen:

1. Es muß eine gesetzliche Ermächtigung für die Verwaltungsvorschrift vorliegen.

2. Die Verwaltung selbst muß in eigener Verantwortung die sachverständigen Aussagen kompetenter Experten bestätigen oder gegebenenfalls modifizieren.

3. Die festgelegten Standards müssen willkürfrei ermittelt worden sein und dabei alle wissenschaftlich und technisch vertretbaren Erkenntnisse berücksichtigen.

4. Ihr Inhalt darf weder veraltet, widerlegt noch wissenschaftlich erschüttert sein.

5. Es muß eine verfahrensmäßige Richtigkeitsgewähr aufgrund einer vorausgegangenen pluralistischen Anhörung der beteiligten Kreise gegeben sein.

6. Die Verwaltungsvorschrift muß – einem Gesetz ähnlich – veröffentlicht werden.

Eine derartige gerichtliche Prüfung einer Behördenentscheidung auf der Grundlage der TA Luft nach dem soeben erwähnten Punkt 4 hinsichtlich der Frage der Sinkgeschwindigkeit von gasförmigem Quecksilber liest sich in dem bereits erwähnten Urteil des Verwaltungsgerichtshofs(18) so:

“Da normkonkretisierende Verwaltungsvorschriften an die bei ihrem Erlass bestehenden Erkenntnisse in Wissenschaft und Technik anknüpfen, verlieren sie ihre rechtliche Außenwirkung, soweit die ihnen zugrundeliegenden Annahmen durch weitere gesicherte Erkenntnisfortschritte in Wissenschaft und Technik überholt sind und sie damit den gesetzlichen Anforderungen nicht mehr gerecht werden. Dies gehört zu den von den Gerichten zu prüfenden Rechtmäßigkeitsvoraussetzungen. Nach diesem Maßstab ist eine Abweichung von den Vorgaben der TA Luft nur zulässig, wenn gesicherte Erkenntnisse vorliegen, dass die in der novellierten TA Luft 2002 nach wie vor zugrundegelegte Sinkgeschwindigkeit von gasförmigem Quecksilber nach dem Stand der Wissenschaft überholt ist. Dies ist vorliegend nicht ausreichend dargelegt und auch sonst nicht ersichtlich.”

Eine weitere interessante Frage im Zusammenhang mit normkonkretisierenden Verwaltungsvorschriften, die prinzipiell wie Gesetze binden, stellt sich bei ihrer Auslegung. Nach dem Bundesverwaltungsgericht mögen sie zwar prinzipiell wie Gesetze binden, exakt wie Gesetze auszulegen seien sie indes nicht. Hierzu hat das Bundesverwaltungsgericht(22) ausgeführt, daß die Entstehungsgeschichte einer normkonkretisierenden Verwaltungsvorschrift eine besondere Bedeutung habe. Zeitnahe, im Verfahren hervorgetretene Willensbekundungen des Vorschriftengebers haben danach bei der Auslegung im Zweifel mehr Gewicht als dies bei Rechtsnormen der Fall ist.

Anders als gegen die Regelwerke Privater und die bloßen Empfehlungen bei Behörden angesiedelter Gremien, die nicht als Verwaltungsakte oder Gesetze anzusehen sind, ist gegen eine normkonkretisierende Verwaltungsvorschrift prinzipiell unmittelbar Rechtsschutz gegeben, ohne daß erst eine Behördenentscheidung abgewartet werden müßte, die sich auf die Verwaltungsvorschrift stützt. Im Jahr 2004 hat das Bundesverwaltungsgericht(20) über eine normkonkretisierende, namentliche eine anspruchskonkretisierende Verwaltungsvorschrift im Sozialrecht entschieden und ausgeführt, daß zu den im Rang unter dem Landesrecht stehenden Rechtsvorschriften nicht nur Satzungen und Rechtsverordnungen sondern auch solche Regelungen der Exekutive gehörten, die rechtliche Außenwirkung gegenüber dem Bürger entfalteten und auf diese Weise dessen subjektiv-öffentlichen Rechte unmittelbar berührten. Danach handelt es sich bei normkonkretisierenden Verwaltungsvorschriften grundsätzlich um statthafte Gegenstände eines Normenkontrollverfahrens(21). Allerdings sind die wichtigsten normkonkretisierenden Verwaltungsvorschriften des Umweltrechts, die TA Luft und die TA Lärm, als untergesetzliches Bundesrecht zu qualifizieren, welches der Normenkontrolle prinzipiell nicht unterliegt. Soweit eine normkonkretisierende Verwaltungsvorschrift auf Landesebene erlassen wurde, ist zu beachten, daß nicht alle Bundesländer eine prinzipale Normenkontrolle eingerichtet haben.

Wie sich die normkonkretisierende Verwaltungsvorschrift TA Lärm in meiner gerichtlichen Praxis bei Windenergieanlagen ausgewirkt hat, will ich an einem Fall verdeutlichen.

Bauherr B erhält eine Genehmigung für die Errichtung und den Betrieb einer Windenergieanlage. Dagegen klagt der Nachbar, weil die Anlage Nachts zu laut sei. Bei der Erteilung der Genehmigung ist die Behörde davon ausgegangen, daß der Nachbar in einem sogenannten Dorfgebiet wohnt. Wir Richter hatten bei dieser Klage unter anderem zu prüfen, ob die Immissionen der Windenergieanlage geeignet sind, für den Nachbarn, Gefahren, erhebliche Nachteile oder erhebliche Belästigungen im Sinne einer bestimmten Vorschrift des Bundesimmissionsschutzgesetzes(23) herbeizuführen. Die in dieser Vorschrift genannten Tatbestandsmerkmale sind allesamt unbestimmte Rechtsbegriffe, die grundsätzlich vollständig gerichtlich überprüfbar sind. Allerdings gibt es die hier einschlägigen Technischen Anleitungen Lärm, welche die Normen des Bundesimmissionsschutzgesetzes(23) konkretisieren. Bei welchem Lärmpegel die zumutbare Lärmgrenze überschritten ist und die Anlage also Gefahren, erhebliche Nachteile oder erhebliche Belästigungen hervorzurufen geeignet ist, beantwortet allein ein Rückgriff auf die TA Lärm. Die in dieser Verwaltungsvorschrift getroffene Festlegung zur Schutzbedürftigkeit einzelner Gebietstypen – hier Dorfgebiet – zu bestimmten Tageszeiten sind abschließend, so daß für eine Betrachtung des Einzelfalls in dem in der TA Lärm geregelten Bereich kein Raum mehr ist. Für uns Richter bedeutete dies, daß wir ein Gutachten zu der Frage, welcher Lärm dem Nachbarn zumutbar ist, nicht anfertigen lassen konnten, sondern diesen Wert aus der TA Lärm entnehmen mußten.(24) Uns verblieben neben den oben genannten sechs Prüfungspunkten zu den Voraussetzungen der Verbindlichkeit der normkonkretisierenden Verwaltungsvorschriften lediglich Beweiserhebungsmöglichkeiten zu den Vorfragen, ob das Gebiet beispielsweise den von der Behörde angenommenen Gebietscharakter eines Dorfgebiets hat oder ob ein anderes Gebiet mit einer für den Nachbarn günstigeren Lärmgrenze, z. B. ein reines Wohngebiet, vorliegt durch Anberaumung eines Ortstermins sowie die Möglichkeit der Beweiserhebung zu der Frage, ob die Anlage den sich aus der TA Lärm ergebenden Wert am Immissionsort einhalten kann, durch die Einholung eines Sachverständigengutachtens.

Soweit die Bindung eines Regelwerks auch geht, stets muß von der Bindungswirkung unterschieden und beachtet werden, daß Regelwerke keine – und das gilt auch für die normkonkretisierende Verwaltungsvorschriften – abschließenden Maßstäbe über die Vertretbarkeit eines Risikos enthalten und derartige Risikomaßstäbe auch gar nicht enthalten können. Sie können allenfalls genaue Erkenntnisse über die Eintrittswahrscheinlichkeit und das Ausmaß möglicher Schäden liefern. Die Regelwerke stellen zwar – wie bereits dargestellt – wichtige Hilfsmittel zur Erlangung judikativer Erkenntnisse mit unterschiedlicher Bindungswirkung für den Richter dar, die wertende Entscheidung über die Risikogrenze können sie indes weder ersetzen noch festlegen. Diese Entscheidung kann nur anlagebezogen und situationsbedingt ergehen und der zuständigen Behörde nicht abgenommen werden.(25) Im Atomrecht gilt deshalb zu Gunsten der Genehmigungsbehörde ein sogenannter Funktionsvorbehalt, mit dem zum Ausdruck gebracht wird, daß die Genehmigungsbehörde für die Risikoermittlung und die Risikobewertung allein verantwortlich ist. Dies betrifft vor allem den Inhalt der Risikoabschätzung, der letztlich nur politisch verantwortet werden kann.(26) Der Funktionsvorbehalt diene ferner einem dynamischen Grundrechtsschutz und rechtfertige sich auch daraus, dass im Atomrecht die erforderliche Schadensvorsorge aus dem in die Zukunft hinein offenen Maßstab des Standes von Wissenschaft und Technik zu messen sei. Die Gerichte sind(27) darauf beschränkt, zu überprüfen, ob die von der Behörde ihren Bewertungen zugrundegelegten Ermittlungen nach dem Stand von Wissenschaft und Technik ausreichend und ob die Bewertungen hinreichend vorsichtig sind, wobei dem Gericht hinsichtlich des letzten Prüfungspunktes lediglich eine Willkürkontrolle möglich sei. Gegenstand der Aufklärungsbemühungen der Verwaltungsgerichte hat demnach in erster Linie die Frage zu sein, ob die Behörde die Datenbasis, auf deren Grundlage sie entschieden hat, als ausreichend ansehen durfte. Eine Beweiserhebung ist veranlasst, wenn sich aus dem Vorbringen eines Verfahrensbeteiligten herleiten läßt, dass die der angefochtenen Genehmigung zugrundeliegenden Annahmen und Bewertungen im Hinblick auf den Stand von Wissenschaft und Technik widerlegbar erscheinen. Der Funktionsvorbehalt hat dabei keine Beweislastumkehr in dem Sinne zur Folge, daß die Kläger nachweisen müßten, die behördlichen Annahmen entsprächen nicht dem Stand von Wissenschaft und Technik. Die den Gerichten verbleibende Kontrolle muß vielmehr für einen wirkungsvollen Schutz von Leben, Gesundheit und Sachgütern geeignet sein.(26)

Die bisher von mir geschilderten Einschränkungen ergaben sich nicht ausdrücklich aus dem Gesetz sondern wurden von der Rechtsprechung im Laufe der Jahre entwickelt. Anders liegt die Sache bei dem Gesetz über die Umweltverträglichkeitsprüfung (UVPG). In § 3 a Satz 4 dieses Gesetzes wird der Verwaltung nämlich eine Einschätzungsprärogative eingeräumt, indem dem Gericht ausdrücklich eine umfassende Prüfung untersagt wird. Der Fall betrifft das Fehlen einer möglicherweise erforderlichen Umweltverträglichkeitsprüfung. Die Regelung des Gesetzes lautet: Beruht die Feststellung, dass eine Umweltverträglichkeitsprüfung unterbleiben soll, auf einer Vorprüfung des Einzelfalls nach § 3c (das sind die Fälle der Erforderlichkeit einer Umweltverträglichkeitsprüfung, weil die Anlage erhebliche nachteilige Umweltauswirkungen haben kann bzw. solche zu erwarten sind), ist die Einschätzung der zuständigen Behörde in einem gerichtlichen Verfahren betreffend die Entscheidung über die Zulässigkeit des Vorhabens nur darauf zu überprüfen, ob die Vorprüfung entsprechend den Vorgaben von § 3c durchgeführt worden ist und ob das Ergebnis nachvollziehbar ist. Diese Vorschrift verdeutlicht, daß der Gesetzgeber offensichtlich davon ausgeht, daß eine Prognoseentscheidung ohne einen Einschätzungsspielraum in sich widersprüchlich wäre(28) und daher der Planfeststellungsbehörde für ihre prognostische Beurteilung möglicher Umweltauswirkungen des Vorhabens ein Einschätzungsspielraum zusteht und folglich dem Gericht nur eine Art Plausibilitätskontrolle verbleibt, bei der nachträglich gewonnene Erkenntnisse nicht maßgeblich sind. Es bleiben dem Richter bei der Plausibilitätskontrolle typischerweise folgende Fragen: Reichte der Erkenntnisstand der Behörde aus, um erhebliche nachteilige Umweltauswirkungen auszuschließen? War aufgrund besonderer Umstände besondere Vorsicht angebracht, so daß auch entfernte Risiken ernst genommen werden mußten?(29)

Mit der soeben besprochenen Vorschrift des Gesetzes über die Umweltverträglichkeitsprüfung endet meine Darstellung der umweltspezifischen Einschränkungen(30) der gerichtlichen Überprüfung des Handelns der Behörden aus rechtlichen Gründen. In einigen Sonderfällen kann es daneben zu einer faktischen Einschränkung der Überprüfung kommen. Wartet ein Kläger einen Akt der Verwaltung mit Außenwirkung ab und erhebt er dann Klage, ist die Behörde grundsätzlich verpflichtet, sämtliche Verwaltungsvorgänge, die einen gerichtlichen Fall betreffen, im Original dem erkennenden Gericht zur Überprüfung vorzulegen.(33) Alle Verfahrensbeteiligten dürfen dann ohne Einschränkung in die vorgelegten Akten der Behörde Einsicht nehmen. Während allerdings der Vorsitzende in einem Verfahren vor den Sozialgerichten aus besonderen Gründen die Einsicht in Akten oder in Aktenteile versagen oder beschränken kann(31), darf das Verwaltungsgericht grundsätzlich keine Behördenakte zurückhalten(32). Jeder Verfahrensbeteiligte darf vielmehr grundsätzlich in alle Akten sehen. Dabei stellt sich im Umweltrecht, insbesondere bei atomaren oder chemischen Anlagen nicht selten die Frage, ob es – etwa vor dem Hintergrund der Gefahr eines Terroranschlags auf die Anlage – hingenommen werden kann, daß die Verwaltungsvorgänge, etwa über Sicherheitsvorkehrungen der Anlagen, von den Verfahrensbeteiligten eingesehen werden und so an die Öffentlichkeit gelangen können. Nach der Verwaltungsgerichtsordnung, der Prozeßordnung der allgemeinen Verwaltungsgerichte, ist es ausnahmsweise zulässig, daß eine verklagte Behörde die Vorlage der Verwaltungsvorgänge an das Gericht verweigert, wenn das Bekanntwerden des Inhalts dem Wohl des Bundes oder eines Landes Nachteile bereiten würde oder wenn die Vorgänge geheim gehalten werden müssen.(34) In einem solchen Fall und wenn das erkennende Gericht davon ausgeht, daß der Inhalt der nicht vorgelegten Verwaltungsvorgänge entscheidungserheblich sei, kommt es zu einem sog. in-camera-Verfahren(34). Dabei handelt es sich um ein Zwischenverfahren, in dem es nur um die Frage geht, ob die Behörde dem Hauptsachengericht zu Recht die Akten nicht vorlegt. Die Verwaltungsvorgänge werden sodann nicht dem in der Hauptsache erkennenden Gericht sondern dem für dieses Zwischenverfahren zuständigen Gericht vorgelegt, welches ausschließlich prüft, ob die Behörde zu Recht die Akten dem erkennenden Gericht nicht vorgelegt hat. Das Ergebnis dieses in-camera-Verfahrens kann nun sein, daß die Verwaltungsvorgänge dem erkennenden Gericht nicht vorgelegt werden, so daß das mit der Sache selbst befasste Gericht ohne die vorenthaltenen Verwaltungsvorgänge nach sogenannten materiellen Beweislastregeln entscheiden muß. Das ist ein sehr starker Eingriff in den Umfang der Überprüfungsmasse des dem Amtsermittlungsgrundsatz(35) verpflichteten Verwaltungsrichters. Amtsermittlung bedeutet nämlich, daß das Gericht nicht an den Vortrag der Verfahrensbeteiligten gebunden ist, sondern den Sachverhalt von Amts wegen ermittelt, wobei primär die Verwaltungsvorgänge der Behörde herangezogen werden. Da bei Anfechtungsklagen gegen Anlagengenehmigungen regelmäßig der Kläger die materielle Beweislast trägt, sinken durch die Zurückhaltung der Verwaltungsvorgänge möglicherweise dessen Erfolgschancen.

Ein Beispiel: In einer Klage eines sich vor einem Terroranschlag auf ein bestimmtes Atomkraftwerk ängstigenden Bürgers auf Widerruf der dem Atomkraftwerk zugrundeliegenden Betriebsgenehmigungen, hilfsweise auf Erteilung nachträglicher Auflagen zum Schutz gegen Terroranschläge, verweigerte die beklagte Behörde dem Gericht die Vorlage der die Schutzkonzepte und Schutzmaßnahmen enthaltenden Akten, mithin die Prüfungsgrundlage. Das Bundesverwaltungsgericht (36) hat in einem daraufhin angestrengten in-camera-Verfahren ausgeführt, daß die Vorlage an das erkennende Gericht von der Behörde zu Recht verweigert worden sei. Seine Entscheidung hat es im wesentlichen damit begründet, daß die weitreichenden Folgen für Leben, Gesundheit und Sachgüter, die aus einem durch einen Anschlag auf ein Kernkraftwerk herbeigeführten Störfall angesichts der Gefahren der Kernenergie ein gewichtiges öffentliches Geheimhaltungsinteresse begründeten, das die Zurückhaltung von Informationen über Schutzkonzepte und Schutzmaßnahmen von atomrechtlichen Anlagen zu rechtfertigen vermöge. Die Frage, wie das Gericht der Hauptsache ohne diese Akten entschieden hat, kann ich nicht beantworten. Ich habe dazu keine Veröffentlichung gefunden. Das könnte daran liegen, daß sich der Rechtsstreit in der Hauptsache wegen des deutschen Atom-Ausstiegs nach der Nuklearkatastrophe von Fukushima erledigt hat.

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1) Artikel 19 Abs. 4 Grundgesetz

2) Neues Verständnis der Technikklauseln und ihr Verhältnis zu technischen Normen, Oliver Völkel, Wien 2009, Randnummern 116 ff m. w. N.

3) § 60 Abs. 1 WHG

4) § 5 Abs. 1 Nr. 2 BImSchG

5) § 7 Abs. 2 Nr. 3 AtG

6) Michael Kloepfer, Umweltschutzrecht, 1. Auflage 2008, S. 47

7) Von diesem Verein stammt die Technische Anleitung zur Standsicherheit von Grabmalen.

8) OVG Lüneburg, Urteil vom 6. Juni 1998 – 7 L 4554/96,

7 L 4622/96 –

9) BVerwG, Beschluß vom 7. Mai 2007 – 4 B 5.07 –

10) Bamberger in: Wysk, Verwaltungsgerichtsordnung, 1. Auflage 2011, § 86 Rn. 34

11) § 11 Abs. 1 Sätze 1 und 2 der jeweiligen Satzung

12) Ladeur, DÖV 2000, S. 224 hält den Kritikern entgegen, daß selbst in England, wo die Parlamentssouveränität mangels geschriebener Verfassung eine zentralerer Stellung als in Deutschland einnehme, die Verwaltung implizit zur Entwicklung von “good administrative practices” ermächtigt und der rechtsgestaltende Charakter solcher Regeln unbestritten sei.

13) BVerwG, Urteil vom 17. Februar 1978 – 1 C 102.76 –

14) BVerwG, Urteil vom 19. Dezember 1985 – 7 C 65/82 –

15) BVerwG, Beschlüsse vom 10. Januar 1995 – 7 B 112.94 – und vom 21. März 1996 – 7 B 164/95 -, jeweils zur TA Luft

16) §§ 48, 51 BImSchG

17) (BImSchG) auf der Grundlage des § 48 BImSchG

18) VGH BW, Urteil vom 20. Juli 2011 – 10 S 2102/09 –

19) Sparwasser, Engel, Voßkuhle, Umweltrecht: Grundzüge des öffentlichen Umweltschutzrecht, 5. Auflage 2003, § 5 Rn. 45

20) BVerwG, Urteil vom 25. November 2004 – 5 CN 1/03 – worin u. a. ausgeführt wird, daß in dem Rechtsstaatsprinzip sowie der Garantie effektiven Rechtsschutzes eine Publikationspflicht für Verwaltungsvorschriften mit unmittelbarer Außenwirkung für Dritte begründet sei.

21) § 47 Abs. 1 Nr. 2 VwGO

22) BVerwG, Urteil vom 20. Dezember 1999 – 7 C 15/98 –

23) § 3 BImSchG

24) In diesem Zusammenhang spielt es außerdem eine Rolle, daß der N sich nicht auf die Grenzwerte der TA Lärm stützen kann, soweit diese nicht nur seinem Schutz sondern auch der Vorsorge dienen, weil es anerkannt ist, daß die Vorsorge keinen drittschützenden Charakter hat.

25) M. Schulte, R. Schröder, Handbuch des Technikrechts, 2. Auflage 2010, S. 253

26) BVerwG, Urteil vom 22. März 2012 – 7 C 1.11 –

27) z. B. bei einer Prüfung des § 6 Abs. 2 Nr. 4 AtG, des § 7 Abs. 2 Nr. 3 oder des § 7 Abs. 2 Nr. 5 AtG

28) Vgl. hierzu den allgemein anerkannten Satz, wonach eine Planungsentscheidung ohne einen Planungsspielraum ein Widerspruch in sich selbst sei.

29) BVerwG, Urteil vom 20. Dezember 2011 – 9 A 31.10 –

30) Beitrag in der anschließenden Diskussion: Neben den in meinem Vortrag dargestellten Einschränkungen der richterlichen Überprüfungsmacht, gibt es solche, die nicht spezifisch für technisch geprägte Behördenentscheidungen im Umweltrecht gelten, sondern ganz allgemein das deutsche Verwaltungsrecht prägen, und deshalb auch, aber nicht vornehmlich oder gar ausschließlich, im Umweltrecht zu berücksichtigen sind. Hier sind zunächst die sog. Drittanfechtungen zu nennen. Drittanfechtungen sind Klagen, die von einem Dritten, beispielsweise einem Nachbarn einer störenden Anlage, erhoben werden. Eine derartige Drittanfechtung liegt etwa vor, wenn ein Milchbauer gegen eine Betriebsgenehmigung für ein atomares Zwischenlager neben seiner Kuhweide klagt. Für eine derartige Drittanfechtung bestimmt die Verwaltungsgerichtsordnung, daß sie nur dann Erfolg hat, wenn die angefochtene Genehmigung rechtswidrig und der Kläger dadurch in seinen eigenen Rechten verletzt ist ( § 113 Abs. 1 Satz 1 VwGO). Das Gericht prüft deshalb in einem solchen Fall nicht die objektive Rechtmäßigkeit in vollem Umfange wie bei einer Verpflichtungsklage auf Erteilung der Genehmigung sondern nur, ob subjektive Rechte des Klägers verletzt werden. Vorschriften, die ausschließlich im öffentlichen Interesse, also im Interesse der Allgemeinheit, erlassen werden, vermitteln keine subjektiven Rechte eines einzelnen Bürgers. Dafür sind vielmehr sogenannte drittschützende Normen erforderlich. Die Fragen, ob eine Norm drittschützend ist und wer von ihrem Drittschutz erfasst ist, sind im Einzelfall nicht selten höchst streitig. Bemerkenswert ist in diesem Zusammenhang, daß der Umstand, daß ein Verstoß gegen eine maßgebliche Vorschrift erhebliche Nachteile für den Dritten hat, die nämliche Vorschrift in Deutschland nicht automatisch zu einer drittschützenden Vorschrift macht. Hierzu ist darüber hinaus erforderlich, daß die maßgebliche Vorschrift den klagenden Dritten gerade vor Nachteilen dieser Art schützen soll. Der auf diese Weise ausgestaltete Rechtsschutz hat zur Folge, daß es durchaus objektiv rechtswidrige Anlagen gibt, gegen die niemand erfolgreich klagen kann, weil die Anlage niemanden in seinem subjektiv-öffentlichen Recht verletzt. Im Bereich des Umweltrechts ist diese Rechtssituation dadurch abgemildert worden, daß die Gesetzgeber in jüngerer Zeit bestimmten Naturschutzverbänden in bestimmten Fällen Klagerechte eingeräumt haben, die keine Verletzung in eigenen Rechten voraussetzen. Eine weitere, ebenfalls nicht spezifisch dem technischen Umweltrecht zuzurechnende sondern allgemeine Einschränkung des Überprüfungsumfangs existiert bei Ermessensentscheidungen der Verwaltung. Ermessen ist – wie oben bereits dargestellt – ein Aspekt der Rechtsfolgenseite einer Vorschrift, betrifft also die Frage, ob eine Behörde bei Vorliegen aller gesetzlichen Voraussetzungen der Vorschrift eine bestimmte Entscheidung treffen muss oder kann. Ermessen hat eine Behörde dann, wenn ihr, trotz Vorliegens aller tatbestandlichen Voraussetzungen einer Rechtsnorm, Spielraum für eine eigene Entscheidung verbleibt. Ob eine Rechtsnorm eine gebundene Entscheidung vorsieht oder der Behörde einen Ermessensspielraum einräumt, lässt sich im Regelfall an der Formulierung des Gesetzes selbst festmachen. In einigen Fällen räumt das Gesetz ausdrücklich “Ermessen” ein. Üblicher sind dagegen Formulierungen wie „kann“, „darf“, „ist berechtigt“ oder „ist befugt“. Bei gebundenen Entscheidungen hingegen werden Formulierungen wie „ist“ oder „muss“ verwendet. Hat eine Behörde aufgrund einer Ermessensnorm eine Entscheidung getroffen, darf das Gericht nicht eigene Ermessenserwägungen an die Stelle der Behörde setzten. Es darf die Entscheidung der Behörde auf der Rechtsfolgenseite nach der Verwaltungsgerichtsordnung (§ 114 Satz 1 VwGO) nur auf sogenannte Ermessensfehler überprüfen. Typische Fragen des Richters bei seiner Prüfung lauten danach: Hat die Behörde überhaupt erkannt, daß sie Ermessen hat? Hat die Behörde die Grenzen des Ermessens eingehalten? Hat sie in richtiger Weise von dem ihr eingeräumten Ermessen Gebrauch gemacht? Vor einigen Jahren hat der Gesetzgeber folgenden zweiten Satz in § 114 VwGO hinzugefügt: Die Verwaltungsbehörde kann ihre Ermessenserwägungen hinsichtlich des Verwaltungsaktes auch noch im verwaltungsgerichtlichen Verfahren ergänzen. Bei der Beantwortung der gerade gestellten Fragen ist deshalb auch der Vortrag der Behörde im Klageverfahren zu berücksichtigen. Bei der Überprüfung auf Ermessensfehler binden den Richter grundsätzlich weder sogenannte ermessenslenkenden Verwaltungsvorschriften, noch die Verwaltungspraxis der Behörde, weil den selbst gegebenen Vorschriften der Verwaltung und der Praxis der Verwaltung grundsätzlich keine Außenwirkung zukommen. Eine solche Außenwirkung ist lediglich in Ausnahmefällen über den Gleichheitsgrundsatz der Verfassung, der eine gleichmäßige Anwendung gebietet, möglich. Allgemein einer gerichtlichen Überprüfung gänzlich entzogen sind des Weiteren bloß vorbereitende Entscheidungen der Verwaltung, denen noch keine unmittelbaren Außenwirkungen zukommen. In solchen Fällen liegen Rechtsverletzungen im Sinne der Verfassung nicht vor. Hier sind im Bereich des Umweltrechts etwa zu nennen die Entscheidung über die Trassenführung einer Fernstraße oder die bloße Meldung eines sogenannten FFH-Gebiets, also eines Schutzgebietes nach der europäischen Fauna-Flora-Habitat-Richtlinie. Der Kläger muß in derartigen Fällen die spätere Behördenentscheidung, die Außenwirkung entfaltet, abwarten. Bezüglich der Fernstraße muß der Kläger eine Entscheidung der Behörde, einen sogenannten Planfeststellungsbeschluß abwarten. In diesem wird unter Bürgerbeteiligung die Zulässigkeit des Vorhabens festgestellt. Bezüglich des FFH-Gebiets muß er dessen Ausweisung bzw. ein sich daraus ergebendes Gebot oder Verbot abwarten, bevor er Klage erheben kann.

Schließlich muß allgemein bei Einschränkungen der richterlichen Überprüfungsmacht die Umstellung auf die sogenannte elektronische Behördenakte erwähnt werden, weil mit der elektronischen Akte eine faktische Einschränkung einhergehen kann. Den Behörden wird bei der elektronischen Aktenführung nämlich nicht die Verwendung besonderer technischer Vorkehrungen vorgeschrieben, die die Vollständigkeit der elektronischen Akte sichern und Veränderungen der Akte – beispielsweise ab einem bestimmten Zeitpunkt – dokumentieren. Zur Zeit finden derartige Vorkehrungen auch freiwillig keine Verwendung. Dies hat zur Folge, daß bei der vollständigen Umstellung der analogen auf die digitale Aktenführung nicht sichergestellt werden kann, daß dem Verwaltungsgericht ein vollständiger Verwaltungsvorgang vorgelegt wird. So werden z. B. die Seiten des Verwaltungsvorgangs des Bundesamts für Migration und Flüchtlinge, welches ein Vorreiter bei der Umstellung auf die elektronische Akte ist, erst bei dem Ausdruck zum Zwecke der Versendung an das Verwaltungsgericht mit Blattzahlen versehen. Da die aktuell anzutreffende digitale Aktenführung zudem eine blitzschnelle Durchsuchung auch sehr umfangreicher Akten nach Stichwörtern erlaubt und Aktenveränderungen nicht sichtbar macht, ist zu befürchten, daß das Verwaltungsgericht – zumindest in Einzelfällen – auf der Grundlage unvollständiger und/oder nachträglich veränderter Verwaltungsvorgängen entscheidet.

31) § 120 Abs. 3 Satz 1 Sozialgerichtsgesetz (SGG)

32) § 100 Abs. 1 Verwaltungsgerichtsordnung (VwGO)

33) § 99 Abs. 1 Satz 2 VwGO

34) § 99 Abs. 2 VwGO: “Auf Antrag eines Beteiligten stellt das Oberverwaltungsgericht ohne mündliche Verhandlung durch Beschluss fest, ob die Verweigerung der Vorlage der Urkunden oder Akten, der Übermittlung der elektronischen Dokumente oder der Erteilung von Auskünften rechtmäßig ist. Verweigert eine oberste Bundesbehörde die Vorlage, Übermittlung oder Auskunft mit der Begründung, das Bekanntwerden des Inhalts der Urkunden, der Akten, der elektronischen Dokumente oder der Auskünfte würde dem Wohl des Bundes Nachteile bereiten, entscheidet das Bundesverwaltungsgericht; Gleiches gilt, wenn das Bundesverwaltungsgericht nach § 50 für die Hauptsache zuständig ist. Der Antrag ist bei dem für die Hauptsache zuständigen Gericht zu stellen. Dieses gibt den Antrag und die Hauptsacheakten an den nach § 189 zuständigen Spruchkörper ab. Die oberste Aufsichtsbehörde hat die nach Absatz 1 Satz 2 verweigerten Urkunden oder Akten auf Aufforderung dieses Spruchkörpers vorzulegen, die elektronischen Dokumente zu übermitteln oder die verweigerten Auskünfte zu erteilen. Sie ist zu diesem Verfahren beizuladen. Das Verfahren unterliegt den Vorschriften des materiellen Geheimschutzes. Können diese nicht eingehalten werden oder macht die zuständige Aufsichtsbehörde geltend, dass besondere Gründe der Geheimhaltung oder des Geheimschutzes der Übergabe der Urkunden oder Akten oder der Übermittlung der elektronischen Dokumente an das Gericht entgegenstehen, wird die Vorlage oder Übermittlung nach Satz 5 dadurch bewirkt, dass die Urkunden, Akten oder elektronischen Dokumente dem Gericht in von der obersten Aufsichtsbehörde bestimmten Räumlichkeiten zur Verfügung gestellt werden. Für die nach Satz 5 vorgelegten Akten, elektronischen Dokumente und für die gemäß Satz 8 geltend gemachten besonderen Gründe gilt § 100 nicht. Die Mitglieder des Gerichts sind zur Geheimhaltung verpflichtet; die Entscheidungsgründe dürfen Art und Inhalt der geheim gehaltenen Urkunden, Akten, elektronischen Dokumente und Auskünfte nicht erkennen lassen. Für das nichtrichterliche Personal gelten die Regelungen des personellen Geheimschutzes. Soweit nicht das Bundesverwaltungsgericht entschieden hat, kann der Beschluss selbständig mit der Beschwerde angefochten werden. Über die Beschwerde gegen den Beschluss eines Oberverwaltungsgerichts entscheidet das Bundesverwaltungsgericht. Für das Beschwerdeverfahren gelten die Sätze 4 bis 11 sinngemäß.”

Das in-camera-Verfahren kann in Verbindung mit den Akteneinsichtsgesetzen eine Rechtsschutzlücke aufreißen, weil es einen anderen Maßstab für die Prüfung der Akteneinsicht anlegt als die Akteneinsichtsgesetze. Dies kann faktisch dazu führen, daß Betriebs- und Geschäftsgeheimnisse sowie personenbezogene Daten über eine Akteneinsicht nach § 100 VwGO preisgegeben werden, wenn mit der Aktenvorlage die Geheimhaltungsgründe des in-camera-Verfahrens nicht greifen.

35) § 86 Abs. 1 VwGO

36) BVerwG, Beschluß vom 20. September 2010 – 20 F 7.10 –

Relazione francese – Tolone – 4/10/2013

« Le juge administratif français et la complexité des PLU»

par JMDV et AG

Consulta altresì Approfondimenti urbanistica in Francia

La complexité des documents d’urbanisme et, parmi eux, des plans locaux d’urbanisme, est unanimement reconnue et dénoncée. Elle se manifeste principalement par un foisonnement normatif parfois qualifié de « maelström » (JEGOUZO) « qui confine parfois à la frénésie » (NOGUELLOU), tout-à-fait propre à la matière de l’urbanisme – sous réserve, peut-être de la matière fiscale. Une véritable « maladie chronique » pour certains auteurs (JEGOUZO), sans perspective de traitement, au moins à court terme, selon d’autres et non des moindres (LABETOULLE).

Concrètement, cette complexité se manifeste sous 3 aspects majeurs à l’heure actuelle :

 

– « inflation des objectifs » et « conception maximaliste » (MARIE), résultant de l’évolution, au cours de la dernière décennie (et surtout avec les Lois  « Solidarité et renouvellement urbain – SRU » et « Grenelle). Le plan d’urbanisme, à l’origine simple document de planification urbaine, est devenu le « lieu de l’ensemble des politiques publiques ayant une traduction spatiale », notamment en ce qui concerne l’environnement (cf. L « Montage » et « Littoral », le développement durable, la gestion des transports, du logement, la répartition des activités économiques, etc.. Les auteurs des documents d’urbanisme doivent assurer « l’équilibre » de ces préoccupations (cf. art L 121-1 du code de l’urbanisme) ;

 

– densification des procédures, en dépit de tentatives accrues de simplification dans la période la plus récente (cf. notamment ordonnance du 5 janvier 2012 de clarification et simplification des procédures d’élaboration et évolution : suppression de la révision simplifiée, unification du régime des SCoT et des PLU, définition précise des modifications susceptibles d’être apportées au projet arrêté à l’issue de l’enquête publique et décret d’application du 14-2-13), sous l’influence essentiellement des grands principes constitutionnels et surtout, européens (cf. information et participation du public comme principes transversaux irriguant toute la matière : « porter à connaissance » ; concertation ; consultation et participation des personnes publiques associées ; enquête publique ; multiples interventions des assemblées délibérantes ; domaine très étendu de l’évaluation environnementale (cf. art L121-10 du code de l’urbanisme) ;

 

– autre aspect de la complexité : le renouvellement de la typologie des documents d’urbanisme, avec affirmation du SCHEMA DE COHERENCE TERRITORIALE (SCoT) comme « document pivot » (MARIE) entre les documents d’urbanisme destinés à une planification à une plus grande échelle (cf. les directives territoriales d’aménagement, les schémas directeurs territoriaux ou sectoriels : eau, écologie, mise en valeur de la mer, chartes des parcs nationaux et régionaux, plans climat-énergie) et ceux applicables au niveau local (PLU, plans de déplacements urbains, programmes locaux de l’habitat PLH, mais aussi plans de prévention des risques naturels PPRN et plans de prévention des risques technologiques PPRT…) et son « renforcement prescriptif » (NOGUELLOU), avec notamment une application automatique de certaines de ses dispositions et la mise à l’écart des éléments incompatibles des PLU au bout d’un certain temps (cf. art L122-1-5 du code de l’urbanisme).

 

A présent, cette complexité traduit une tension entre la volonté d’assurer une autonomie locale ancienne (cf. loi de décentralisation de 1983) ainsi que l’acceptation de la norme par les habitants (MARIE), d’une part et, d’autre part, la volonté d’efficacité des politiques nationales, d’ailleurs parfois délicates à concilier entre elles (cf. préoccupations de développement durable et recherche d’une réponse rapide à la crise du logement, avec une solution trouvée  dans la période récente dans la densification de l’urbanisation existante alors qu’il y a 20 ans, celle-ci était proscrite au profit de l’étalement urbain : o tempora, o mores !).

En fait, on assiste à un interventionnisme renouvelé de l’Etat – il est vrai chargé d’arbitrer des conflits de plus en plus fréquents entre les différentes collectivités (MARIE) – et le retour (cf. loi « Grenelle II ») de ce qui est très souvent perçu comme une tutelle des communes (cf. élaboration des documents environnementaux ; mise en compatibilité des documents d’urbanisme avec les grandes orientations nationales ou les projets considérées par l’Etat comme d’intérêt général ; annexion forcée des servitudes d’utilité publique SUP ; intercommunalité imposée ; droit de veto sur les SCoT et PLU non couverts par un SCoT).

Dans un tel contexte, la difficulté d’élaboration et de gestion d’un plan local d’urbanisme est croissante pour les communes en raison principalement de leur incroyable quantité en France (plus de 36 000 communes existantes !) Ce trop grand nombre des communes impose une rationalisation sous la forme du développement de l’intercommunalité (qui devient l’échelon territorial de principe depuis la loi « Grenelle II » et caractère obligatoire à brève échéance dans le projet de Loi « ALUR » – pour « accès au logement et urbanisme rénové », actuellement en discussion devant le Parlement), non sans risque de déficit démocratique (cf. promotion du rôle décisionnel des établissements publics de coopération intercommunale EPCI, disposant certes d’une compétence technique certainement bien plus importante, mais dont les organes sont désignés dans des conditions faisant peu appel, globalement, au suffrage universel, encore que la loi de réforme des collectivités locales du 16-12-2010 ait prévu l’élection au suffrage direct des conseillers communautaires et métropolitains). Il y a aussi des risques de « double emploi » du plan local d’urbanisme (BOUYSSOU) avec le schéma de cohérence territoriale (SCoT) : les SCoT ont tendance à devenir des « super-PLU » alors que leurs fonctions sont en principe distinctes.

Les critiques anciennes de cet étouffement normatif sont plus que jamais compréhensibles : elles émanent en particulier des nombreux acteurs qui participent à l’élaboration d’un plan local d’urbanisme, avec des interrogations sur le sens même de ces documents. L’idée générale qui émerge de ces critiques est celle d’inventer un « urbanisme de projet », qui s’est déjà traduit par des réformes récentes mais qui ont paradoxalement accru la complexité (cf. création de la « surface de plancher » en lieu et place des anciennes SHOB et SHON et majoration des droits à construire, abandonnée sitôt née).

Or, c’est au juge administratif, gardien de la légalité administrative comme de l’intérêt général, qu’il appartient, in fine, de résoudre la complexité, sans qu’il puisse se retrancher derrière l’ampleur et la difficulté de la tâche. Dans son travail et jusqu’à présent, le juge n’a pas beaucoup bénéficié de l’aide du législateur pour juguler le contentieux de l’urbanisme, comme cela s’est fait dans d’autres pays. Mais tout récemment, des mesures sont intervenues, sous la forme d’ordonnances, sortes de décrets législatifs (cf. rapport « Labetoulle » et ordonnance « Duflot » du 18-7-13), le contentieux des plans d’urbanisme apparaissant, toutefois, comme le grand perdant de ces réformes récentes dont il ne bénéficie pas directement – mais dont il s’inspire ou qu’il anticipe parfois.

Pourtant, le contentieux des documents d’urbanisme se caractérise à l’heure actuelle par un nombre croissant de requêtes, que les nombreuses annulations prononcées ne sont certainement pas de nature à réduire, puisqu’elles entrainent nécessairement la réadoption, souvent précipitée, des PLU annulés, amendés pour tenir compte des critiques retenues. De plus, dans ce contexte, il faut noter l’ouverture en France très large du prétoire aux recours dirigés contre ces actes (cf. absence de représentation obligatoire ; intérêt à agir largement reconnu, notamment pour les associations ; contrôle par voies d’action et d’exception ; intervention en fin de procédure et effet « boule de neige » des irrégularités qui pourrait être empêché par une intervention plus précoce, au fur et à mesure de l’avancée de la procédure…)

Pour comprendre comment le juge fait face à cette complexité, nous verrons, en première partie, quelles sont les grandes tendances de la jurisprudence s’agissant de l’étendue du contrôle de la légalité des plans locaux d’urbanisme et nous nous poserons la question de l’efficacité de ce contrôle, dans une seconde partie

– I –

 

L’étendue du contrôle de légalité des documents d’urbanisme

La préoccupation du Conseil d’Etat français est d’assurer le contrôle de légalité des documents d’urbanisme, alors même qu’il  s’agit d’actes très complexes, qui nécessitent des procédures qui peuvent se poursuivre pendant plusieurs années. Ce contrôle du juge constitue le relais du contrôle de légalité exercé par le préfet dans le département sur les acte des autorités déconcentrées, lequel est nécessairement fragmentaire et ciblé, compte tenu de moyens insuffisants face à l’ampleur de la tache (cf. politique dite de « révision générale des politiques publiques », menée depuis plusieurs années afin de réduire les déficits publics par une rationalisation des dépenses).

De grandes tendances peuvent s’observer au niveau du contrôle contentieux, tant au niveau de la légalité formelle (contrôle des procédures) que de la légalité matérielle (contrôle du contenu).

– A –

 

Le contrôle de la forme

  1. Le juge administratif exerce un contrôle strict du choix de la procédure mise en oeuvre pour l’élaboration du plan local d’urbanisme (ce peut être une procédure de révision, modification, modification simplifiée ou allégée, sans enquête publique). Lorsqu’une seule procédure peut être appliquée compte tenu de l’objectif poursuivi, il estime que l’administration ne saurait s’en affranchir, au motif qu’elle présente des garanties supérieures pour le public et au-delà, pour les différentes parties prenantes (notamment les services et autorités étatiques). Inversement, si plusieurs procédures peuvent être applicables, l’administration est libre de choisir celle qu’elle préfère, à supposer qu’elle puisse s’y retrouve, toutefois (LEBRETON).

Une telle approche devrait sans doute se renouveler avec l’essor des schémas de cohérence territoriale et PLU intercommunaux : il pourrait y avoir un contentieux croissant à l’initiative des communes elles-mêmes, mécontentes des PLU adoptés par les établissements publics intercommunaux.

  1. Le souci du juge est essentiellement la préservation des garanties essentielles – sous la forme d’une information et d’une participation suffisantes du public – par un contrôle très poussé du déroulement de la procédure sur ce point (cf. consultation des personnes publiques associées, concertation avec le public et surtout enquête publique) : rien d’étonnant à ce que les principaux motifs d’annulation totale de plans locaux d’urbanisme dans la jurisprudence concernent la méconnaissance des règles applicables sur ce terrain.

De plus, le juge contrôle l’adéquation des règles de procédure aux objectifs que leur assignent les normes constitutionnelles – telles que, par exemple, la charte de l’environnement ou européennes et internationales – telles les nombreuses directives de l’Union européenne et la convention d’Aarhus. Il assure ainsi l’application de ces normes, alors même que les lois ou règlements applicables en auraient limité l’effet (par exemple, le juge contrôle si la transposition des directives dans le droit national est suffisante et adéquate. Peu de requérants soulèvent le point de savoir s’il y a interprétation conforme des actes de transposition alors qu’un tel moyen peut être d’une efficacité redoutable.

  1. Lorsque le respect des règles de procédure est considéré, en dehors de ce domaine, comme une exigence relative, le juge fait preuve de souplesse : on peut parler de sanction « compréhensive » des règles de procédure. En effet, les règles de procédure se multiplient en raison de l’instabilité et de l’évolution constante des textes (alors que souvent et paradoxalement le souci du législateur est de les simplifier, mais sans que les mesures transitoires indispensables ne soit forcément prises ou alors de façon insuffisante). Ainsi la loi dite SRU, a été votée en 2000, puis modifiée en 2003, 2006, 2009, 2010 et 2012 pour ne citer que les principales modifications et pour les décrets d’application, on n’a pas fait mieux, (pour ne rien dire de la question de savoir s’ils ont été pris en temps utile…).

Depuis quelques années, le Conseil d’Etat a alors généralisé l’application de la théorie dite des « formalités substantielles » (cf. jurisprudence Danthony du 23 décembre 2011 et décisions récentes du CE) qui ne sanctionne la méconnaissance des règles de procédure que pour autant que les requérants établissent que celle-ci les a privés d’une garantie essentielle et / ou qu’elle a eu des conséquences déterminantes sur les décisions prises.

– B –

 

Le contrôle du fond

  1. Le juge administratif est vigilant à l’égard des objectifs poursuivis par les communes dans l’élaboration de leur plan local d’urbanisme : contrairement à d’autres domaines du contentieux, il sanctionne fréquemment, en cette matière, le détournement de pouvoir. Ainsi, la loi a prévu une procédure spéciale dite de « mise en compatibilité » des plans locaux d’urbanisme (cf. article L123-14 du code de l’urbanisme), utilisable lorsque des projets importants, publics ou privés sont d’intérêt général et si l’intérêt général du projet est douteux, le juge peut estimer qu’il y a détournement de pouvoir, ce qui entraîne l’annulation totale du plan local d’urbanisme.

Cette problématique sera sans doute amenée, en outre, à se renouveler en considération de l’utilisation facilitée de cette procédure à l’encontre des communes regardées comme rechignant à transcrire dans leurs documents d’urbanisme les grands objectifs sectoriels ou territoriaux fixés par l’Etat (cf. loi « Grenelle II » et ordonnance « simplification » du 5-1-12 + décret d’application du 14-2-13). En réaction à ce retour d’une forme à peine voilée de tutelle, nul doute que les collectivités locales chercheront à préserver leur liberté par des contestations du recours même à cette procédure…

  1. Une des garanties essentielles pour les citoyens est représentée par le contenu minimal précisément défini pour le plan local d’urbanisme (PLU) (cf. articles L123-1 et L123-1-2 et suivants du code de l’urbanisme) : le PLU doit comprendre un rapport de présentation, un plan d’aménagement et de développement durable (PADD), des orientations d’aménagement et de programmation (OAP), un règlement sous forme d’articles avec des dispositions obligatoires et d’autres facultatives et des annexes. Et le juge administratif sanctionne l’incohérence de ces éléments entre eux, afin de garantir leur compréhension par les destinataires du document d’urbanisme.

Le juge administratif est également amené à délimiter un contenu  maximal des plans locaux d’urbanisme, défini en quelque sorte « en creux. » Ainsi, consacre-t-il, en particulier, l’interdiction, pour un plan local d’urbanisme, de contenir des règles de forme et de procédure, qui relèvent de la seule compétence du pouvoir législatif ou réglementaire (cf. jurisprudence Hoffmann : 342908, A).

  1. Le juge administratif s’efforce, enfin, de respecter les choix effectués par les communes dans l’élaboration de leur plan local d’urbanisme en exerçant un contrôle de légalité minimum. Il se limite alors à un contrôle de l’erreur manifeste d’appréciation et ne contrôle pas l’opportunité des choix des auteurs des plans locaux d’urbanisme.

La tendance de la jurisprudence est, en outre, à la simplification dans l’application des normes supérieures au plan local d’urbanisme, telles le schéma de cohérence territoriale : il exerce dans ce cas un contrôle de compatibilité et non de légalité (à vrai dire, le contrôle de compatibilité est défini par le législateur lui-même avec l’article L111-1-1 du code de l’urbanisme) : s’il existe un schéma de cohérence territoriale, dont la fonction est – rappelons-le – d’assurer à un large échelon territorial, bien au-delà d’une seule commune, les grandes politiques nationales ou régionales et sous réserve que celui-ci assure lui-même correctement cette transcription (cf. exception d’illégalité du schéma de cohérence territorial (SCoT) invocable dans le cadre du contentieux du PLU), le plan local d’urbanisme (PLU) ne doit être compatible qu’avec lui et les moyens tirés de la méconnaissances règles « supérieures » sont inopérants (cf. jurisprudences du Conseil d’Etat société « Les Casuccie » : Sect, 313768, A et Mme Laporte et a : 278168, A et du Conseil constitutionnel Loi d’orientation pour l’aménagement et le développement du territoire : 94-358DC).

– II –

 

L’efficacité du contrôle de légalité des documents d’urbanisme

La problématique du contrôle contentieux peut survenir à la fois dans le cadre d’un contrôle par voie d’action des plans locaux d’urbanisme auquel on pense bien entendu en premier, mais aussi dans le contrôle de ces documents par la voie de l’exception d’illégalité, lorsque le juge contrôle les actes individuels, tels le permis de construire. A l’occasion de ce contrôle des actes individuels, le contrôle par la voie de l’exception d’illégalité est, en effet, ouvert à l’encontre des plans locaux d’urbanisme, comme pour tous les actes réglementaires.

L’efficacité de ce contrôle dépend alors des contraintes imposées par le législateur et de leur prise en compte par le juge administratif. Dans ce cadre, le juge s’efforce d’assouplir les contraintes, dans un but d’efficacité. Et le législateur peut intervenir lui-même pour assurer l’efficacité


– A –

 

Des contraintes lourdes imposées par le législateur.

  1. En vertu de la loi, le juge administratif français, lorsqu’il annule un acte d’urbanisme tel un plan local d’urbanisme, est tenu de se prononcer sur tous les moyens d’annulation (cf. article L600-4-1 du code de l’urbanisme). Cette obligation pour le juge repose sur l’idée qu’en matière d’urbanisme, il importe de préciser l’ensemble des vices affectant l’acte attaqué afin à la fois de prévenir de nouveaux contentieux fondés sur des motifs auxquels il n’aurait pas été répondu et de rendre la correction de ces vices par l’autorité administrative plus aisée.

Cette logique est aujourd’hui poussée à son maximum dans le contentieux des permis de construire avec les nouveaux articles L600-5 et L600-5-1 du code de l’urbanisme – issus de l’ordonnance du 18 juillet 2013 – qui permettent la régularisation en cours d’instance des autorisations entachées de vices non rédhibitoires – et devrait l’être également, dans le contentieux des PLU, avec le nouvel art L600-7 du même code issu du projet de loi « ALUR » actuellement en discussion au Parlement, lequel entend y transposer la même solution, que soient, d’ailleurs, en cause des vices de forme ou de fond, le PLU demeurant, qui plus est, applicable dans l’intervalle.

  1. Les difficultés pratiques de cette règle sont toutefois importantes, car en dépit d’un volontarisme certain et de conditions de travail favorables, un rapporteur dans un tribunal administratif ne peut, durant les quelques jours qui lui sont assignés pour la préparation d’une audience, traiter qu’un nombre limité de requêtes : or il est arrivé que le nombre de recours dirigé contre le plan local d’urbanisme d’une même commune, au tribunal administratif de Toulon, s’élève à plus d’une trentaine. Un recours contre le PLU d’une commune contenait plus de 100 moyens à analyser ! (sans parler de la difficulté accrue se présentant au rapporteur public – ex commissaire du gouvernement, compte tenu de ce qu’il doit conclure également sur les autres dossiers appelés) : le risque est grand de voir cette problématique devenir de plus en plus prégnante avec le développement souhaité et peut-être, imposé (cf. projet de loi « ALUR ») de l’intercommunalité dans l’élaboration des plans locaux d’urbanisme.

– B –

 

Des tentatives d’assouplissements à l’initiative du juge

  1. Le juge administratif en compte le stade de la procédure d’élaboration du plan local d’urbanisme auquel survient l’illégalité, dans le but de permettre une reprise rapide de la procédure et l’entrée en vigueur du plan : dans le cas où il annule un plan à un stade de la procédure, par exemple, lorsqu’il sanctionne une irrégularité de l’enquête publique ou une évaluation environnementale insuffisante, il valide en contrepartie les étapes antérieures et il en résulte une absence d’obligation de l’auteur du plan de reprendre la procédure d’élaboration du plan ab initio. La commune devra simplement soumettre le projet approuvé à une nouvelle enquête publique ou une évaluation environnementale suffisante puis l’approuver de nouveau. L’annulation peut aussi se limiter à la délibération finale.
  1. Au fond, le juge administratif a la possibilité de prononcer des annulations partielles, beaucoup moins contraignantes pour la commune concernée : par exemple, il peut déclarer l’illégalité de certaines dispositions du règlement du plan, ou l’illégalité d’un zonage, en disant par exemple que la commune ne pouvait transformer une zone naturelle en zone à urbaniser. Le document d’urbanisme devra alors être seulement amendé en fonction des critiques formulées et demeurera applicable, pour le reste.
  1. D’une façon plus générale, face à ces difficultés contentieuses, le juge administratif français recourt de façon croissante aux annulations différées dans le temps (en application d’une jurisprudence association AC !: 255886, A). Cette technique permet de concilier légalité, sécurité et efficacité, en évitant un retour momentané à des dispositions souvent obsolètes : en effet, le législateur français a prévu qu’en cas d’annulation par un tribunal d’un plan local d’urbanisme, c’est le document immédiatement antérieur qui est applicable (souvent, en pratique, le plan d’occupation des sols, c’est-à-dire le plan local d’urbanisme dans son ancienne appellation) ; ce peut être aussi, en son absence, ce que l’on appelle le règlement national d’urbanisme, dit RNU, (cf. article L121-8 du code de l’urbanisme).

– C –

 

Vers une attention renouvelée du législateur ?

Face à ces subtilités de la jurisprudence, c’est le législateur lui-même qui peut et doit intervenir pour assouplir les contraintes qui pèsent sur le juge dans le contrôle de légalité des plans locaux d’urbanisme. Il l’a déjà fait de façon limitée et on ne peut qu’espérer que les réformes en cours se traduisent par une prise en compte renouvelée des contraintes pesant sur le juge.

Ainsi, depuis l’intervention de la loi « solidarité et renouvellement urbain » en 2000, et en vertu de l’article L600-1 du code de l’urbanisme, un vice de forme ou de procédure d’un plan d’occupation des sols ou d’un plan local d’urbanisme ne peut être invoqué par la voie de l’exception d’illégalité, après l’expiration d’un délai de six mois à compter de sa prise d’effet. On a là un exemple d’intervention du législateur qui vient contrer un principe jurisprudentiel bien enraciné selon lequel l’exception d’illégalité est perpétuelle à l’encontre des règlements.

Mais, comme effrayé de son audace, le législateur a aussitôt introduit des exceptions à ce principe : par exemple, en cas de méconnaissance substantielle ou de violation des règles de l’enquête publique sur les plans locaux d’urbanisme, l’exception d’illégalité demeure invocable à tout moment.

On a donc un principe jurisprudentiel : l’exception d’illégalité est invocable à tout moment contre un acte réglementaire, mais en ce qui concerne les plans locaux d’urbanisme, l’exception d’illégalité pour vice de forme est enfermée dans un délai de six mois, cet aménagement étant lui-même soumis à des exceptions. Voilà une situation typique du droit de l’urbanisme et de sa complexité !

D’autres réformes plus radicales sont, toutefois, envisagées : ainsi qu’il a déjà été dit, le projet de loi « ALUR » (accès au logement pour un urbanisme rénové) souhaite étendre au contentieux des documents d’urbanisme le mécanisme contentieux de la régularisation en cours d’instance afin de prévenir des annulations jugées inadéquates au regard des illégalités concernées. Au-delà, il serait souhaitable, du point de vue du juge, que les réflexions menées, par ailleurs, sur la question de la cristallisation des moyens ou l’intérêt à agir le soient également sur le terrain du contentieux des PLU, ce qui n’est, hélas, pas le cas pour le moment.

Relazione tedesca dr. Andreas Middeke – Tolone – 4/10/2013

Dr. Andreas Middeke, Vorsitzender Richter am Verwaltungsgericht Münster,

Lehrbeauftragter an der Katholischen Hochschule Nordrhein-Westfalen – Abt. Münster –

Die gemeindliche Bauleitplanung in der Bundesrepublik Deutschland

(nach Dürr/Middeke/Schulte Beerbühl, BauR NRW, 4. Aufl., Baden-Baden, 2013, Rn. 6 ff.)

  1. Allgemeines

Die gemeindliche Bauleitplanung ist das Kernstück des modernen Städtebaurechts in Deutschland.[1] Sie soll eine nachhaltige städtebauliche Entwicklung und eine dem Wohl der Allgemeinheit entsprechende sozialgerechte Bodennutzung gewährleisten und dazu beitragen, eine menschenwürdige Umwelt zu sichern.

Die gemeindliche Bauleitplanung der Bundesrepublik Deutschland ist im Baugesetzbuch (BauGB) geregelt und obliegt den Gemeinden.[2] Das BauGB geht vom Grundsatz der Planmäßigkeit aus.[3] Dies bedeutet, dass eine bauliche Nutzung bisher unbebauter Grundstücke nicht dem Zufall oder dem Willen des jeweiligen Grundstückseigentümers überlassen bleiben soll, sondern von der Gemeinde eine für ihr Gebiet umfassende Überplanung vorzunehmen ist. Es handelt sich um eine Gesamtplanung, die die Nutzung des Gemeindegebiets unter allen in Betracht kommenden Gesichtspunkten regeln soll.

Diese Überplanung nehmen die Gemeinden in einem zweistufigen Verfahren vor.[4] Zunächst werden für das gesamte Gemeindegebiet ein vorbereitender Bauleitplan (Flächennutzungsplan) und anschließend zur näheren Ausgestaltung der vorbereiteten Nutzung verbindliche Bauleitpläne (Bebauungspläne) aufgestellt (§ 1 Abs. 2 BauGB). Diese Zweistufigkeit soll gewährleisten, dass die Gemeinde sich Gedanken über die grundsätzliche Nutzung des Gemeindegebiets und die räumliche Zuordnung der verschiedenen Nutzungsarten (z.B. Wohngebiete, Gewerbegebiete, Sportanlagen, Verkehrswege) machen muss. Hierbei handelt sich um eine weisungsfreie Pflichtaufgabe (§ 3 Abs. 1 GO NRW), also um eine Angelegenheit der Selbstverwaltung der Gemeinde i.S.d. Art. 28 Abs. 2 GG. Die Erforderlichkeit zur Bauleitplanung unterliegt als unbestimmter Rechtsbegriff voller gerichtlicher Kontrolle.[5]

Nicht erforderlich ist ein Bebauungsplan dann, wenn seine Festsetzungen sich aus tatsächlichen oder rechtlichen Gründen nicht verwirklichen lassen.[6] Hierzu können z. B. auch unüberwindbare finanzielle Hindernisse[7] oder sonstige langfristige Hindernisse[8] zählen, wenn beispielsweise Grundstückseigentümer nicht bereit sind, die für die geplante Nutzung benötigte Fläche zu verkaufen.[9]

  1. Gesetzliche Schranken der Bauleitplanung

 

Bei der Aufstellung von Bauleitplänen unterliegt die Gemeinde vielfältigen tatsächlichen und rechtlichen Bindungen.

Zu unterscheiden ist zwischen zwingenden gesetzlichen Anforderungen und sog. Optimierungsgeboten. Während die zwingenden gesetzlichen Schranken unbedingt zu berücksichtigen sind, sind Optimierungsgebote abwägungsflexibel.

  1. Gesetzliche Schranken bei der gemeindlichen Bauleitplanung sind:
  2. Ziele der Raumordnung und Landesplanung (§ 1 Abs. 4 BauGB)

 

Die Bauleitpläne sind nach § 1 Abs. 4 BauGB den Zielen der Raumordnung und Landesplanung, also den Planungsentscheidungen auf überörtlicher Ebene anzupassen.[10]

 

  1. Interkommunale Abstimmungsgebot (§ 2 Abs. 2 BauGB)

 

Die Gemeinden müssen bei der Aufstellung von Bauleitplänen auch die Planungen benachbarter Gemeinden sowie überörtlicher Planungsträger berücksichtigen.[11] Die Bauleitpläne benachbarter Gemeinden sind aufeinander abzustimmen (materielle Abstimmungspflicht). Die formelle Abstimmungspflicht beinhaltet die Anhörung der Nachbargemeinde bei der Aufstellung eines Bauleitplans.

Bsp.: Es verstößt gegen das Gebot interkommunaler Abstimmung, wenn die Gemeinde unmittelbar an der Gemeindegrenze in der Nachbarschaft eines Wohngebiets der Nachbargemeinde einen Schlachthof plant.[12]

  1. Fachplanerische Vorgaben

Neben der eigenen Bauleitplanung hat eine Gemeinde weitere Planungsentscheidungen durch sog. Fachplanungsgesetze wie z.B. für Straßenbau, Abfallentsorgung, Luftfahrt, Energieanlagen, Wasserwirtschaft zu beachten[13] und bei der Bauleitplanung einzubeziehen.

  1. Naturschutzrechtliche Eingriffsregelung (§ 1 a Abs. 3 BauGB)

 

Des weiteren hat die Gemeinde bei ihrer Bauleitplanung die Vermeidung zu erwartender Eingriffe in Natur und Landschaft sowie deren Ausgleich zu berücksichtigen.[14] Das Naturschutgesetz verlangt, dass eine vermeidbare Beeinträchtigung von Natur und Landschaft unterlassen wird, also Vermeidbarkeit der Beeinträchtigung, nicht etwa der Vermeidbarkeit der eingreifenden Maßnahme. Ist eine Beeinträchtigung der Natur in diesem Sinne unvermeidbar, ist ein Ausgleich oder eine Ersetzung durch Maßnahmen zugunsten der Natur vorzunehmen[15] z. B.: 50 m breite Wildbrücke über eine Autobahn[16] oder Ersetzung einer alten Feldhecke durch eine doppelt so große neue Feldhecke[17] oder Renaturierung einer Kiesgrube[18].

  1. Umweltprüfung (§ 2 Abs. 4, § 2 a BauGB)

 

Die bundesrechtlich umgesetzte Umweltprüfung der Plan-UP-Richtlinie erfolgt im Rahmen des Aufstellungsverfahrens. Die Plan-UP führt zu einer systematischen Erfassung aller Umweltauswirkungen. Ihr Ergebnis ist in einem Umweltbericht zusammen zu fassen, der Teil der Begründung des Flächennutzungsplans und des Bebauungsplans ist.

 

  1. Optimierungsgebote

 

Es handelt sich dabei um gesetzliche Vorrangsregelungen, die der Gemeinderat möglichst beachten soll; sie können aber im Einzelfall im Wege der Abwägung mit anderen – auch nicht zu optimierenden – öffentlichen oder privaten Belangen zurückgestellt werden.[19] Optimierungsgebote können also anders als gesetzliche Schranken im Wege der Abwägung überwunden werden, d.h. hinter anderen öffentlichen Belangen zurückgestellt werden[20] Das BVerwG[21] spricht insofern auch von Abwägungsdirektive[22].

 

  1. Planungsleitsätze

 

  1. Entwicklungsgebot (§ 8 Abs. 2 Satz 1 BauGB)

 

Nach § 1 Abs. 2 BauGB umfasst der Oberbegriff “Bauleitplan” den Flächennutzungsplan (vorbereitender Bauleitplan) und den Bebauungsplan (verbindlicher Bauleitplan).

 

  1. Flächennutzungsplan (Schaubild)

 

Der Flächennutzungsplan erstreckt sich nach § 5 Abs. 1 BauGB über das gesamte Gemeindegebiet. Er enthält nur eine grobmaschige Planung.[23] Im Flächennutzungsplan werden deshalb i.d.R. nur Bauflächen, nicht aber bereits einzelne Baugebiete dargestellt.[24] Die Einzelheiten zur Bebauung werden erst später in den Bebauungsplänen geregelt. Der Flächennutzungsplan ist das “grobe Raster”, aus dem nach dem Entwicklungsgebot die Bebauungspläne zu entwickeln sind.[25] Dieses schließt es freilich nicht aus, dass der Flächennutzungsplan im Einzelfall bereits sehr konkrete Darstellungen enthält. Seine Rechtsnatur wird überwiegend als hoheitliche Maßnahme eigener Art bezeichnet.[26]

 

  1. Der Bebauungsplan

 

Auf der Basis des grobmaschigen Flächennutzungsplans ist der Bebauungsplan für einzelne Teile des Gemeindegebietes zu entwickeln. Die im FNP getroffene Grundentscheidung zur baulichen Nutzung darf hierdurch allerdings nicht verändert werden.[27] Der Grundsatz, dass der Bebauungsplan aus dem Flächennutzungsplan zu entwickeln ist, hat zwei bedeutsame Ausnahmen erfahren.

 

  1. Selbständiger Bebauungsplan (§ 8 Abs. 2 Satz 2 BauGB)

 

Nach der sog. abstrakten Betrachtungsweise ist ein Flächennutzungsplan dann nicht erforderlich, wenn der Bebauungsplan wegen der geringen Bautätigkeit in der Gemeinde zur Gewährleistung der städtebaulichen Ordnung ausreicht; dieses wird allenfalls in kleinen Landgemeinden der Fall sein.[28] Nach der sog. konkreten Betrachtungsweise ist ein Flächennutzungsplan ferner dann entbehrlich, wenn die praktische Bedeutung des Bebauungsplans so unbedeutend ist, dass die Grundkonzeption der Planung von ihm nicht berührt wird.[29]

Bsp. Der Bebauungsplan umfasst nur ein 1,6 ha großes, bereits weitgehend bebautes Gebiet.[30]

 

  1. vorzeitiger Bebauungsplan (§ 8 Abs. 4 BauGB)

 

Hat die Gemeinde keinen wirksamen Flächennutzungsplan, kann sie gleichwohl einen Bebauungsplan aufstellen, wenn dringende Gründe dieses erfordern und der Bebauungsplan der beabsichtigten städtebaulichen Entwicklung nicht entgegensteht.[31] Dringende Gründe sind anzunehmen, wenn die sofortige Aufstellung des Bebauungsplans erheblich gewichtiger ist als das Festhalten an dem Entwicklungsgebot. In einem solchen Fall muss dann aber nachträglich ein Flächennutzungsplan aufgestellt werden, der die Festsetzungen des Bebauungsplans übernimmt.

 

Bsp. a) Zur Beseitigung der Wohnungsnot ist dringend die Schaffung weiterer Baugebiete er-   forderlich (BVerwG NVwZ 1985, 745).

  1. b) Eine ländliche Gemeinde stellt einen Bebauungsplan auf, um die Errichtung eines unerwünschten großen Appartementhauses zu verhindern (VGH Mannheim BRS 38 Nr. 108).
  2. c) Eine Stadt benötigt zur Altstadtsanierung dringend die Ansiedlung eines Kaufhauses (VGH Mannheim VBlBW 1982, 229).
  3. Allgemeingültige Planungsprinzipien

 

Die Gemeinde muss bei der Bauleitplanung schließlich die aus dem Rechtsstaatsprinzip abzuleitenden allgemein gültigen Planungs­leit­sätze beachten.[32] Die Nichtbeachtung dieser Prinzipien führt zur Nichtigkeit des Bebauungsplans.

 

  1. Gebot äußerer Planungseinheit

 

Für ein Gebiet darf nur ein Bebauungsplan existieren[33]; unschädlich ist allerdings, wenn ein späterer Plan einen früheren ergänzt.[34] Möglich ist es auch, dass das Gemeindegebiet je nach Bedarf und Erforderlichkeit in verschiedene Sektoren unterteilt wird, für die dann selbständig ein jeweils eigenständiger Bebauungsplan aufgestellt wird.

 

  1. Gebot positiver Planung

 

Der Bebauungsplan muss Festsetzungen enthalten, die positiv bestimmen, welche bauliche oder sonstige Nutzung zulässig ist. Eine bloße “Negativplanung” (Verhinderungsplanung) ist unzulässig, wenn Festsetzungen nicht dem planerischen Willen der Gemeinde entsprechen, sondern nur das vorgeschobene Mittel sind, eine andere Nutzung zu verhindern.

 

Bsp.: Wenn die Gemeinde in Wirklichkeit keine land- bzw. forstwirtschaftliche Nutzung will, ist die Festsetzung von Flächen für die Forst- und Landwirtschaft in einem Bebauungsplan wegen des Verstoßes gegen das Gebot der städtebaulichen Erforderlichkeit unzulässig, sofern diese nur dazu dienen soll, eine andere Nutzung (Bebauung oder zweckfremde Nutzung) zu verhindern.[35]

 

Die Verfolgung negativer Zielvorstellungen kann im Einzelfall der Hauptzweck einer Planung sein. Entscheidend ist, dass die planerische Ausweisung eine positive planerische Aussage über die zukünftige Funktion im städtebaulichen Gesamtkonzept der Gemeinde zum Inhalt hat und sich nicht auf die bloße Abwehr jeglicher Veränderung durch die Aufnahme bestimmter Nutzungen beschränkt.

 

Bsp.: Die Gemeinde weist eine Außenbereichsfläche als landwirtschaftliche Nutzfläche aus, um den Kiesabbau in einem landschaftlich reizvollen Bereich zu verhindern.[36]

 

3       Bestimmtheitsgebot

 

Der Bebauungsplan muss inhaltlich so bestimmt sein, dass die Betroffenen wissen, welchen Beschränkungen ihr Grundstück unterworfen bzw. welchen Belastungen es – beispielsweise durch Immissionen – ausgesetzt sein wird. Es muss aber nicht alles geregelt werden, was geregelt werden kann (Grundsatz der planerischen Zurückhaltung). Der Grundsatz der Bestimmtheit ist erst dann verletzt, wenn der Inhalt der Festsetzungen des Bebauungsplans sich auch nicht durch die Heranziehung der Begründung[37] konkretisieren lässt und die Ungewissheit über die zukünftige Bebauung gemäß den Festsetzungen des Bebauungsplans für die Planbetroffenen nicht mehr zumutbar ist.

  1. Das Verfahren bei der Aufstellung von Bauleitplänen (Formelle Seite)

 

Für die Aufstellung von Bauleitplänen hat der deutsche Gesetzgeber ein bestimmtes Verfahren vorgesehen.

  1. Aufstellungsbeschluss (§ 2 Abs. 1 BauGB)

 

Zunächst ist ein sog. Aufstellungsbeschluss des Rates der Gemeinde erforderlich, für ein bestimmtes Gebiet innerhalb der Gemeinde einen Bauleitplan aufzustellen (§ 2 Abs. 1 BauGB). In dringenden Fällen kann ein solcher Beschluss von dem Bürgermeister oder dem stellvertretenden Bürgermeiser zusammen mit dem Ausschussvorsitzenden und einem anderen dem Ausschuss angehörenden Ratsmitglied erlassen werden.[38] Der Beschluss ist ortsüblich bekannt zu machen.[39] Erst mit der Veröffentlichung erhält der Beschluss seine Rechtswirksamkeit.

  1. Planentwurf und Begründung

 

Die Gemeinde selbst oder ein von ihr beauftragtes Planungsbüro fertigen einen Planentwurf. Der Planentwurf muss eine Begründung enthalten; die Begründung muss den Umweltbericht der Plan-UP umfassen. Ein Verstoß gegen die Begründungspflicht ist allerdings nur dann beachtlich, wenn er innerhalb eines Jahres nach Bekanntmachung gerügt wird (§§ 214 Abs. 1 Nr. 3, 215 Abs. 1 BauGB). Eine lediglich unvollständige Begründung ist demgegenüber nach § 214 Abs. 1 Nr. 3 BauGB unschädlich.

III.    Anhörungsverfahren (§ 3 Abs. 1 BauGB)

 

Das Verfahren der Anhörung dient der möglichst frühzeitigen Erörterung des Planentwurfs mit der Öffentlichkeit, damit diese noch vor einer Festlegung des Gemeinderats Einfluss auf die Bauleitplanung nehmen kann. Die Anhörung verlangt Gelegenheit zur Äußerung und zur Erörterung, so dass auf eine mündliche Besprechung der Bauleitpläne mit den betroffenen Bürgern nicht verzichtet werden kann.[40]

  1. Beteiligung der Behörden und Träger öffentlicher Belange (§ 4 BauGB)

 

Nach § 4 BauGB sollen Behörden und sonstige Träger öffentlicher Belange frühzeitig unterrichtet und ihnen Gelegenheit zu einer Stellungnahme gegeben werden. Rechtliche Vorgaben, welche Behörden oder sonstige Stellen im Rahmen des Planungsverfahrens beteiligt werden müssen oder sollten, gibt es nicht. In Betracht kommen alle, deren öffentlicher Aufgabenbereich je nach Lage des Einzelfalls betroffen sein kann; insoweit vor allem: Gewerbeaufsicht, Umweltbehörden, Landschaftsbehörden, Energieversorgungsunternehmen, Telekommunikationseinrichtungen, anerkannte Naturschutzverbände sowie die benachbarten Gemeinden.

Die Behörden haben ihre Stellungnahme nach § 4 Abs. 2 BauGB grundsätzlich innerhalb eines Monats abzugeben. Die Frist kann sowohl verlängert (§ 4 Abs. 2 Satz 2 BauGB) als auch verkürzt (§ 4 a Abs. 3 BauGB) werden. Bei Fristüberschreitung können die Stellungnahmen der Träger öffentlicher Belange nach § 4 Abs. 6 BauGB unberücksichtigt bleiben.

  1. Öffentliche Auslegung (§ 3 Abs. 2, § 4 a BauGB)

 

Den wichtigsten Teil der Beteiligung der Öffentlichkeit an der Bauleitplanung stellt die öffentliche Auslegung dar.[41] Hierzu ist zunächst Ort und Dauer der Auslegung mindestens 1 Woche vorher ortsüblich bekannt zu machen. Dabei muss die Stelle, bei der die Pläne eingesehen werden können, genau bezeichnet werden.[42] Die bekannt gemachte Bezeichnung des Bebauungsplans muss so gewählt sein, dass sie die sog. Anstoßfunktion erfüllt, also der betroffene Grundstückseigentümer erkennt, dass sein Grundstück im Geltungsbereich des Bebauungsplans liegt. Die Bekanntmachung muss so erfolgen, dass sie dem an der Bauleitplanung interessierten Bürger sein Interesse an Information und Beteiligung durch Anregungen und Bedenken bewusst macht.[43] Hierfür reicht die schlagwortartige geographische Bezeichnung aus.[44] Die Auslegung dauert einen Monat.

 

Innerhalb der Monatsfrist kann jedermann Anregungen vorbringen; dieses muss schriftlich oder zur Niederschrift der Gemeinde geschehen.[45] Ein Versäumnis der Frist hat zur Folge, dass die Gemeinde die Anregungen nicht zu prüfen und die Entscheidung hierüber nicht mitzuteilen braucht. Der Gemeinderat muss allerdings bei der Abwägung inhaltlich nach § 4 a Abs. 6 BauGB auch verspätete Einwendungen berücksichtigen, soweit er die geltend gemachten Belange kannte oder hätte kennen müssen oder die Einwendungen für die Rechtmäßigkeit des Bebauungsplans von Bedeutung sind.

Die fristgerecht eingebrachten Bedenken müssen dem Gemeinderat bekannt gegeben und von diesem geprüft werden.[46] Über das Ergebnis ist der Einsprecher zu informieren. Bei mehr als 50 Einwendern können diese allerdings nach § 3 Abs. 2 Satz 5 BauGB auf die Einsichtnahme in den öffentlich ausgelegten Gemeinderatsbeschluss verwiesen werden.

Ein Verstoß gegen die Formvorschriften des § 3 Abs. 2 BauGB führt stets zur Nichtigkeit des Bebauungsplans, sofern der Fehler innerhalb der Jahresfrist des § 215 Abs. 1 BauGB gerügt wird. Da ein Bebauungsplan eine Satzung und damit eine Rechtsnorm ist, kommt es nicht darauf an, ob der Verfahrensfehler wesentlich ist; anders ist es nur, wenn der Verfahrensfehler sich denknotwendig nicht auf den Bebauungsplan ausgewirkt haben kann.

  1. Übertragung auf Private (§ 4 b BauGB)

 

Nach § 4 b BauGB kann die Gemeinde zur Beschleunigung des Verfahrens sowohl die Bürgerbeteiligung nach § 3 BauGB als auch die Beteiligung der Träger öffentlicher Belange nach § 4 BauGB einem Dritten übertragen.[47] In der Regel handelt es sich bei dem Dritten um einen Bauträger, der an der möglichst schnellen Ausweisung eines neuen Baugebiets interessiert ist. Diese “Privatisierung” ist problematisch. Der Projektträger darf nicht an Stelle der Gemeinde die Planungsentscheidung treffen. Es ist allein Aufgabe der Gemeinde, die Abwägungsentscheidung eigenverantwortlich zu treffen.

 

VII.   Satzungsbeschluss (§ 10 BauGB)

 

Nach Abschluss des Auslegungsverfahrens beschließt der Gemeinderat endgültig über die Bauleitplanung. Soweit es um die Aufstellung eines Bebauungsplans geht, ist dieser Beschluss nach § 10 BauGB in Form einer Satzung zu fassen. Es wird damit eine Rechtsnorm geschaffen, die vor den deutschen Obergerichten im Wege des sog. Normenkontrollverfahrens überprüft werden kann.

Der Bebauungsplan muss in seiner endgültigen Fassung ausgefertigt, d.h. vom Bürgermeister mit Namen und Amtsbezeichnung unterschrieben werden.[48] Die Ausfertigung ist zwar nicht gesetzlich vorgeschrieben, ergibt sich aber aus dem deutschen Rechtsstaatsprinzip.[49]

VIII.  Genehmigung (§§ 6, 10 Abs. 2 BauGB)

 

Der Flächennutzungsplan bedarf für seine Wirksamkeit der Genehmigung nach § 6 BauGB. Das Gleiche gilt nach § 10 Abs. 2 BauGB für Bebauungspläne, die ohne vorherigen Flächennutzungsplan aufgestellt worden sind.[50] Die (höhere) Genehmigungsbehörde hat die Genehmigung zu erteilen, wenn der Bauleitplan ordnungsgemäß zustande gekommen und auch inhaltlich rechtmäßig ist. Die Genehmigungsbehörde ist hinsichtlich der Kontrolle des Bauleitplans ebenso beschränkt wie das Verwaltungsgericht.[51]

Die Genehmigung ist innerhalb von 3 Monaten zu erteilen; wird diese Frist jedoch versäumt, gilt die Genehmigung als erteilt.

  1. Bekanntmachung (§ 10 Abs. 3 BauGB)

 

Die Genehmigung des Bebauungsplans bzw. der Satzungsbeschluss sind ortsüblich bekannt zu machen und zugleich der Bebauungsplan zur Einsicht bereitzuhalten.[52] Der Bebauungsplan selbst wird nicht bekannt gemacht. Das BVerfG hat entschieden, dass das Rechtsstaatsprinzip keine bestimmte Form der Bekanntmachung vorschreibt, sondern lediglich verlangt, dass sich jeder Betroffene Kenntnis vom Inhalt der Rechtsnorm verschaffen kann[53]. Eine unterbliebene Bekanntmachung führt jedoch zur Nichtigkeit des Bebauungsplans.[54]

  1. Vereinfachtes Verfahren (§§ 13, 13 a BauGB)

Die Änderung und Ergänzung eines Bebauungsplans kann nach § 13 BauGB in einem vereinfachten Verfahren durchgeführt werden[55], sofern die Grundzüge des Bebauungsplans nicht berührt werden oder im nichtbeplanten Innenbereich (§ 34 BauGB) bei der Aufstellung eines Bebauungsplans von der bestehenden baurechtlichen Situation nicht wesentlich abgewichen wird. Die Grundzüge der Planung werden nicht berührt, wenn die städtebauliche Situation, die sich aus dem bestehenden Bebauungsplan oder der vorhandenen Bebauung ergibt, im Grundsatz erhalten bleibt.[56] Anders ist es dann, wenn der Baugebietstypus geändert wird.[57]

  1. Die Abwägung der Belange nach § 1 Abs. 6, 7 BauGB (Materielle Seite)
  2. Allgemeines

 

Die Abwägung öffentlicher und privater Belange stellt das Zentralproblem der Bauleitplanung dar.[58] Sie ist das eigentliche Betätigungsfeld gemeindlicher Planungshoheit und entspringt dem Rechtsstaatsprinzip und des in ihm enthaltenen Grundsatzes der Verhältnismäßigkeit.

Bei der Abwägung steht der Gemeinde grundsätzlich ein planerischer Freiraum zu.[59] Die Gemeinde muss im Einzelfall entscheiden, welche Belange so gewichtig sind, dass andere Belange zurücktreten müssen.

Der Grundsatz der Gleichgewichtigkeit aller Belange erfährt allerdings eine Ausnahme durch die o.g. Optimierungsgebote. Auch dem privaten Eigentum (Art. 14 Abs. 1 GG) kommt im Rahmen der Abwägung eine besondere Bedeutung zu. Eine mit dem Entzug bestehender Baurechte verbundene „Wegplanung“ des Eigentums setzt daher eine besonders sorgfältige – und dokumentierte – Abwägung voraus.

Ferner muss die Gemeinde die o.g. Planungsleitsätze und die allgemein gültigen Abwägungsgrundsätze beachten. Es handelt sich dabei vor allem um folgende Prinzipien:[60]

  1. Abwägungsprinzipien
  2. Gebot der Abwägungsbereitschaft

Die Gemeinde muss bei der Planung für alle in Betracht kommenden Planungsvarianten offen sein, d.h. sie darf nicht von vornherein auf eine bestimmte Planung festgelegt sein. Das Gebot der Abwägungsbereitschaft wird z.B. verletzt, wenn die Gemeinde alternative Planungsmöglichkeiten nicht in ihre Erwägungen einbezieht, weil dieses zu einer zeitlichen Verzögerung des Verfahrens zur Aufstellung des Bebauungsplans führen könnte[61] oder die Planung von vornherein auf ein bestimmtes Ergebnis fixiert ist. Das Gebot der Abwägungsbereitschaft gerät allerdings in der kommunalen Praxis nicht selten in Widerstreit mit der Notwendigkeit, bereits bei der Bauleitplanung auf die Bedürfnisse und Wünsche derjenigen einzugehen, die im Bebauungsplangebiet Gebäude errichten oder gewerbliche Anlagen schaffen wollen. Deshalb ist die Vorstellung, die Bauleitplanung müsse frei von jeder Bindung erfolgen, lebensfremd; gerade bei größeren Objekten, etwa der Industrieansiedlung oder der Planung eines ganzen neuen Stadtteils, wird häufig mehr Bindung als planerische Freiheit vorhanden sein.[62] Der Grundsatz ist deshalb so zu verstehen, dass überflüssige Vor-Festlegung der Gemeinde nicht erfolgen soll – Stichwort: Ergebnisoffen.

  1. Zusammenstellen des Abwägungsmaterials

 

Die Gemeinde kann nur dann eine rechtsstaatliche Planungsentscheidung treffen, wenn sie alle von der Planung betroffenen öffentlichen und privaten Belange in die Abwägung einstellt.[63] In der Praxis bereitet gerade das Zusammenstellen des Abwägungsmaterials die meisten Schwierigkeiten und führt zu Abwägungsfehlern mit der Folge der Nichtigkeit des Bebauungsplans.

Grundsätzlich müssen alle Belange berücksichtigt werden, die “nach Lage der Dinge[64] betroffen sind. Dabei sind nicht nur die positiven Aspekte der Bauleitplanung zu berücksichtigen, sondern auch die mit der Planung verbundenen negativen Auswirkungen. Natürlich kann die Gemeinde bei ihrer Bauleitplanung “nicht alles sehen”.[65] Es ist gerade der Zweck der Beteiligung der Bürger und der Träger öffentlicher Belange, der Gemeinde die Kenntnis der Betroffenheit der verschiedenen öffentlichen und privaten Belange zu vermitteln. Zu der Berücksichtigung privater Belange gibt es eine umfangreiche Kasuistik des BVerwG, auf die hier aus Zeitgründen nicht näher eingegangen werden kann. Genannt seien nur: privates Eigentum, Beibehaltung des bisherigen Grundstückzustandes, Schutz vor heranrückender Wohnbebauung ebenso wie Schutz vor Immissionen (Lärm, Gerüche, Gase).

 

Bsp. a) Beeinträchtigung der Aussicht durch ein neues Baugebiet in der bisher freien Landschaft[66]

  1. b) Die Beeinträchtigung durch eine Steigerung des Verkehrslärms ist auch dann abwägungsrelevant, wenn die Zumutbarkeitsgrenze der VerkehrslärmschutzVO nicht überschritten wird.[67]

Nicht in die Abwägung einzustellen sind allerdings rein wirtschaftliche Belange, insbes. das Interesse an der Erhaltung einer günstigen Marktlage; das Bauplanungsrecht ist wettbewerbsrechtlich neutral. Bsp. Das Interesse eines vorhandenen Einzelhandelsgeschäfts an der Verhinderung der Ansiedlung eines Einkaufszentrums ist bei der Abwägung nicht zu berücksichtigen.[68] Umgekehrt sind bei der Aufstellung von Bauleitplänen vorhandene Einzelhandelskonzepte einzubeziehen, doch können diese im Rahmen der Abwägung überwunden werden.[69]

 

  1. Gebot der Rücksichtnahme

 

Das Gebot der Rücksichtnahme wurde vom BVerwG vor allem im Rahmen des Nachbarschutzes herangezogen. Es ist aber in seinem objektiv-rechtlichen Gehalt auch bei der Aufstellung der Bauleitpläne zu beachten.[70] Das Gebot der Rücksichtnahme bedeutet inhaltlich, dass jedes Bauvorhaben auf die Umgebung Rücksicht nehmen und Auswirkungen vermeiden muss, die zu einer unzumutbaren Beeinträchtigung anderer Grundstücke führen. So ist z.B. der vom BVerwG entwickelte Grundsatz, dass Wohnbebauung und immissionsträchtige gewerbliche Nutzung räumlich zu trennen sind,[71] auf das Gebot der Rücksichtnahme zurückzuführen;

ein Bebauungsplan, der in unmittelbarer Nachbarschaft eines Wohngebiets ein großes Industrieunternehmen vorsieht, verstößt deshalb gegen das Gebot der Rücksichtnahme und ist nichtig.[72] Ebenso wird das Gebot der Rücksichtnahme verletzt, wenn in unmittelbarer Nachbarschaft eines immissionsträchtigen Gewerbebetriebs ein Wohngebiet[73] geplant wird.

Der Verpflichtung zur Trennung von Wohngebieten und gewerblicher Nutzung kann zum einen dadurch entsprochen werden, dass zwischen einer reinen Wohnbebauung und einem Gewerbe- oder Industriegebiet ein hinreichend großer Abstand gewahrt wird oder aber eine Gliederung des Gewerbegebiets, dass in der Nachbarschaft des Wohngebiets nur emissionsarme Betriebe errichtet werden dürfen.[74] Zum andern kann der erforderliche Schutz des Wohngebiets vor Immissionen durch besondere Vorkehrungen (Lärmschutzwälle o. ä.) gewährleistet werden.[75]

  1. Gebot der Lastenverteilung

 

Wenn der Bebauungsplan, etwa für die Anlage von öffentlichen Verkehrsflächen oder die Schaffung öffentlicher Einrichtungen, die Inanspruchnahme oder  Beeinträchtigung von Privatgrundstücken verlangt, dann müssen die dadurch entstehenden Belastungen möglichst gleichmäßig auf alle Grundstückseigentümer verteilt werden.[76] Z.B. durch ein Umlegungsverfahren (§§ 45 ff. BauGB). Private Grundstücke dürfen für öffentliche Zwecke nur herangezogen werden, wenn keine geeignete Fläche im Eigentum der öffentlichen Hand zur Verfügung steht.[77] Die Privatnützigkeit des Eigentums an einem Grundstück soll möglichst erhalten bleiben.

  1. Gebot der Konfliktbewältigung

 

Der Bebauungsplan muss zumindest diejenigen Festsetzungen enthalten, die zur Bewältigung der vorhandenen oder durch die vorgesehene Bodennutzung neu entstehenden städtebaulichen Konflikte notwendig sind; hierfür hat sich die Bezeichnung “Gebot der Problembewältigung bzw. Konfliktbewältigung” eingebürgert.[78] Das BVerwG hat wiederholt klargestellt, dass bei der Bauleitplanung nicht bereits alle möglicherweise auftretenden Konflikte gelöst werden müssten, sondern die Konfliktbewältigung dem nachfolgenden Baugenehmigungsverfahren oder dem immissionsschutzrechtlichen Genehmigungsverfahren überlassen bleiben kann.[79] Der Grundsatz der Problembewältigung verlangt für die Bauleitplanung aber zumindest, dass die Frage geklärt wird, ob überhaupt im Rahmen des Genehmigungsverfahrens eine Konfliktbewältigung möglich ist.

Bsp. a) Für den Bau einer Auto-Teststrecke werden landwirtschaftlich genutzte Grundstücke benötigt. Der VGH hat es gebilligt, dass die Gemeinde bei der Aufstellung des Bebauungsplans nicht der Frage nachgegangen ist, ob Enteignungen zulässig sind, weil dieses im nachfolgenden Enteignungsverfahren geklärt werden könne und notfalls im Flurbereinigungsverfahren Ersatzgelände bereitgestellt werden könnte.[80]

  1. b) Ein Bebauungsplan, der eine Fläche für eine Schule vorsieht, braucht nicht bereits festzulegen, wo die für den Nachbarn besonders störenden Sportanlagen der Schule errichtet werden sollen.[81]

 

III.    Die gerichtliche Überprüfung der Abwägung

Das Problem der Überprüfung von Planungsentscheidungen durch die Aufsichtsbehörde und auch durch die Verwaltungsgerichte wird in Deutschland wie folgt beurteilt:

“Das Gebot gerechter Abwägung ist verletzt, wenn eine sachgerechte Abwägung überhaupt nicht stattfindet. Es ist verletzt, wenn in die Abwägung an Belangen nicht eingestellt wird, was nach Lage der Dinge in sie eingestellt werden muss. Es ist ferner verletzt, wenn die Bedeutung der betroffenen privaten Belange verkannt, oder wenn der Ausgleich zwischen den von der Planung berührten öffentlichen Belangen in einer Weise vorgenommen wird, die zur objektiven Gewichtung einzelner Belange außer Verhältnis steht. Innerhalb des so gezogenen Rahmens wird das Abwägungsgebot jedoch nicht verletzt, wenn sich die zur Planung berufene Gemeinde in der Kollision zwischen verschiedenen Belangen für die Bevorzugung des einen und damit notwendig für die Zurückstellung des anderen entscheidet.”[82]

Diese Grundsätze sind in der baurechtlichen Literatur als Abwägungsausfall, Abwägungsdefizit, Abwägungsfehleinschätzung und Abwägungsdisproportionalität schlagwortmäßig zusammengefasst worden.[83] Demgegenüber werden Fehler bei der Ermittlung oder Bewertung des Abwägungsmaterials (§ 2 Abs. 3 BauGB) nach dem Gesetz als Verfahrensfehler eingestuft,[84] im Übrigen betreffen die Mängel das Abwägungsergebnis.

 

Bsp. a) Abwägungsausfall

Die Stadt R. schließt mit einem großen Kaufhauskonzern einen Vertrag über die Schaffung einer Filiale in R. und verpflichtet sich, den hierfür erforderlichen Bebauungsplan aufzustellen. Der Gemeinderat hält sich bei der Abwägung der verschiedenen Belange für an diese – in Wirklichkeit nichtige – Vereinbarung gebunden.[85]

 

Bsp. b) Abwägungsdefizit

  1. Der Gemeinderat beschließt die Ausweisung eines Allgemeinen Wohngebiets in der Nachbarschaft einer Haut-Leimfabrik, ohne sich über die von dieser Fabrik ausgehenden Geruchsemissionen zu informieren.[86]
  2. Bei der Aufstellung eines Bebauungsplans wird einem Verdacht, der Boden enthalte Altlasten, nicht weiter nachgegangen. Nach Ansicht des Obergerichts muss die Gemeinde zwar nicht von sich aus Ermittlungen über Altlasten anstellen, aber einem auftauchenden Verdacht nachgehen.[87]

 

Bsp. c) Abwägungsfehleinschätzung

  1. Der Rat einer Gemeinde geht zu Unrecht davon aus, dass bei einem Abstand von 100 m zwischen einem großen Kuhstall und einer Wohnbebauung nicht mit Geruchsbelästigungen zu rechnen sei.[88]
  2. Der Rat einer Gemeinde “verharmlost” die Gesundheitsgefahr durch eine Schwermetall-Verunreinigung des Erdbodens.[89]

 

Bsp. d) Abwägungsdisproportionalität

  1. Der Gemeinderat beschließt einen Bebauungsplan, der unmittelbar neben einem großen Wohngebiet in einem unter Landschaftsschutz stehenden Gelände ein Industriegebiet (Flachglasfabrik) vorsieht, um neue Arbeitsplätze zu schaffen. Hierin liegt jedenfalls dann ein Verstoß gegen das Abwägungsgebot, wenn auch ein anderes, weniger schutzwürdiges Gelände für die Industrieansiedlung zur Verfügung steht.[90]
  2. Der Rat einer Gemeinde geht bei der Planung eines neuen Fußballstadions von einer zu niedrigen Zahl der erforderlichen Parkplätze aus.[91]

 

Die Bedeutung von Abwägungsfehlern[92] hat mit § 214 Abs. 1 Nr. 1 und Abs. 3 Satz 2 BauGB eine bedeutsame Einschränkung erfahren. Danach wird nunmehr nur noch zwischen Abwägungsvorgang und Abwägungsergebnis unterschieden. Ersteres bedeutet das Zusammenstellen des Abwägungsmaterials[93], d.h. die Gewinnung der notwendigen tatsächlichen und rechtlichen Erkenntnisse für die zu treffende Planungsentscheidung. Das Abwägungsergebnis bezieht sich demgegenüber auf die Gewichtung des Abwägungsmaterials und die darauf beruhende Entscheidung zugunsten bestimmter öffentlicher oder privater Belange. Mängel im Abwägungsvorgang sind nach der gesetzlichen Regelung nur noch erheblich, wenn sie offensichtlich sind und auf das Abwägungsergebnis von Einfluss gewesen sind; Mängel im Abwägungsergebnis führen demgegenüber stets zur Unwirksamkeit des Bebauungsplans.[94]

 

  1. Der Inhalt des Bebauungsplans (§ 9 BauGB)

 

Der Inhalt des Bebauungsplans ist gesetzlich vorgegeben und abschließend. Bedeutsam ist vor allem, dass Art und Maß der baulichen Nutzung sowie die Bauweise, die überbaubaren Grundstücksflächen und die Stellung der baulichen Anlagen im Bebauungsplan festgesetzt werden können. Zur Konkretisierung dieser Regelung hat der deutsche Gesetzgeber die Baunutzungsvervordnung (BauNVO) geschaffen, die weitere Einzelheiten zu den festzusetzenden Inhalten enthält.

 

  1. Art der baulichen Nutzung (§§ 1–15 BauNVO)

 

Diese Festsetzung im Bebauungsplan betrifft die Art des Baugebietes, für welche die BauNVO einen abschließenden Katalog bereithält. Dieser Katalog ist für die Gemeinde bindend; zusätzliche Baugebiete können von ihr nicht geschaffen werden.[95] In Deutschland sind folgende grundsätzliche Baugebiete möglich:

  • Kleinsiedlungsgebiete
  • reine und allgemeine Wohngebiete
  • besondere Wohngebiete
  • Dorfgebiete
  • Mischgebiete
  • Kerngebiete
  • Gewerbe- und Industriegebiete
  • Sondergebiete

Die Gemeinden können allerdings nach § 1 Abs. 4–6 BauNVO abweichende Regelungen treffen, indem sie bestimmte zulässige Nutzungen ausschließen oder das Regel-Ausnahme-Verhältnis anders gestalten. Eine solche abweichende Gestaltung darf jedoch nicht dazu führen, dass der Gebietscharakter als solcher verloren geht.[96]

Bsp. a) In einem Mischgebiet darf die gewerbliche Nutzung nicht so weit eingeschränkt werden, dass das Gebiet praktisch zu einem allgemeinen Wohngebiet wird[97]; ebenso darf aber in einem Mischgebiet auch nicht die Errichtung von Wohngebäuden ausgeschlossen werden, weil dadurch faktisch ein Gewerbegebiet geschaffen würde.[98]

  1. b) Im Dorfgebiet darf landwirtschaftliche Nutzung nicht ausgeschlossen werden.[99]
  2. c) Im allgemeinen Wohngebiet darf nicht jede andere Nutzung außer Wohnen ausgeschlossen werden, weil dadurch ein reines Wohngebiet entsteht.[100]

 

  1. Maß der baulichen Nutzung (§§ 16–21 BauNVO)

 

Der Gemeinderat kann ferner nach §§ 16 ff. BauNVO das Maß der baulichen Nutzung bestimmen, in dem er die Grundflächen- und Geschossflächenzahl, die Geschosszahl sowie die Gebäudehöhe festlegt.

 

III. Bauweise und überbaubare Grundstücksfläche (§§ 22, 23 BauNVO).

 

Der Bebauungsplan kann nach § 22 BauNVO die offene oder die geschlossene Bauweise festsetzen. Offene Bauweise bedeutet, dass die Gebäude einen Abstand (Bauwich) aufweisen müssen, während sie bei geschlossener Bauweise an das Nachbargebäude angebaut werden müssen (§ 22 Abs. 2, 3 BauNVO). Offene Bauweise bedeutet aber nicht, dass die Gebäude zur Grundstücksgrenze einen Abstand einhalten müssen. Wie § 22 Abs. 2 BauNVO zeigt, können auch Doppelhäuser und sogar Reihenhäuser bis zu 50 m Länge in offener Bauweise errichtet werden, auch wenn sich Doppelhäuser und insbesondere Reihenhäuser über mehrere Grundstücke erstrecken. Nach der neueren Rechtsprechung des BVerwG setzt ein Doppelhaus begrifflich voraus, dass die beiden Haushälften auf jeweils getrennten Grundstücken stehen, aber das Gebäude gleichwohl als bauliche Einheit in Erscheinung tritt.[101]

Während die bauliche Nutzung der Grundstücke im Geltungsbereich eines Bebauungsplans durch die Festsetzung von Grund- und Geschossflächenzahlen nur abstrakt, d.h. nicht auf das einzelne Grundstück bezogen, geregelt wird, kann die Gemeinde durch die Festsetzung von Baulinien und Baugrenzen (§ 23 BauNVO) auch bis ins Detail die Bebauung jedes einzelnen Grundstücks festlegen. Durch die Festsetzung eines sog. Baufensters, d.h. Baulinien auf allen 4 Seiten, kann die Gemeinde sogar genau den Grundriss und den Standort des Gebäudes festlegen.

 

  1. Sonstige Festsetzungen im Bebauungsplan

 

Neben diesen in beinahe allen Bebauungsplänen anzutreffenden Regelungen lässt § 9 Abs. 1 BauGB noch eine Vielzahl anderer Regelungen zu, die hier nicht im Einzelnen dargestellt werden können. Zu erwähnen sind vor allem Folgende mögliche Festsetzungen: Flächen für den Gemeinbedarf (Nr. 5), Verkehrsflächen (Nr. 11), Versorgungsflächen (Nr. 12), öffentliche und private Grünflächen (Nr. 15), Flächen für Gemeinschaftsanlagen (Nr. 22), Flächen für Lärmschutzwälle und ähnliche Einrichtungen zum Schutz gegen Immissionen (Nr. 24).

  1. Der fehlerhafte Bebauungsplan

 

Rechtsfolge von formellen und materiellen Fehlern beim Erlass einer Rechtsnorm ist nach allgemeinen Grundsätzen die Nichtigkeit der Norm. Hiervon machen §§ 214–216 BauGB in beträchtlichem Umfang eine Ausnahme.[102] Der Gesetzgeber hat im Interesse der Planerhaltung[103] die sonst allgemein gültigen Regeln über die Rechtsfolgen von Fehlern bei Rechtsnormen durchbrochen und ein recht kompliziertes System von unbeachtlichen, innerhalb einer bestimmten Frist (§ 215 Abs. 1 BauGB) beachtlichen und auch ohne Rüge stets beachtlichen Fehlern ersetzt. Der Gesetzgeber will durch §§ 214, 215 BauGB verhindern, dass Bebauungspläne, die sich inhaltlich im Rahmen der Planungshoheit der Gemeinde halten, im Wege des Normenkontrollverfahrens nach § 47 VwGO oder einer verwaltungsgerichtlichen Inzidentkontrolle bei baurechtlichen Streitigkeiten für nichtig befunden werden, weil dem Gemeinderat bei dem Abwägungsvorgang ein unwesentlicher formaler Fehler unterlaufen ist.

 

Verfahrensfehler sind nur beachtlich, wenn die von der Planung berührten Belange nicht zutreffend ermittelt oder bemerkt worden sind (§ 124 Abs. 1 Nr. 1 BauGB), die Vorschriften über die Bürgerbeteiligung oder die Beteiligung der Träger öffentlicher Belange sowie über einen Bebauungsplan im vereinfachten oder beschleunigten Verfahren nach §§ 13 Abs. 2,[104] 13 a BauGB (Nr. 2), die Begründung des Bebauungsplans (Nr. 3), den Satzungsbeschluss nach § 10 BauGB oder das Genehmigungsverfahren nach § 10 Abs. 2 BauGB sowie die Bekanntmachung (Nr. 4) nicht eingehalten worden sind. Die beachtlichen Form- und Verfahrensfehler müssen innerhalb von einem Jahr schriftlich gegenüber der Gemeinde gerügt worden sein.[105] Einen Verstoß gegen Vorschriften der Gemeindeordnung stellt insbesondere die Beteiligung von befangenen Gemeinderäten bei dem Satzungsbeschluss nach § 10 BauGB dar.[106] Die Mitwirkung eines befangenen Ratsmitgliedes führt zur Nichtigkeit des Bebauungsplans,[107] wobei es darauf ankommt, ob dieser befangene Gemeinderat Einfluss auf die Entscheidung über den Bebauungsplan genommen hat (§ 31 Abs. 6 GO NRW).

Rügeberechtigt ist jedermann. Eine ordnungsgemäß und fristgerecht geltend gemachte Rüge eines Abwägungsfehlers bewirkt, dass der gerügte Fehler in jedem Gerichtsverfahren grundsätzlich beachtlich ist und dort von dem jeweiligen Antragsteller beziehungsweise Kläger zeitlich unbeschränkt geltend gemacht werden kann.[108]

  • 214 Abs. 4 BauGB hat die nachteiligen Folgen der Fehlerhaftigkeit eines Bebauungsplans weiter eingeschränkt. Nach dieser Vorschrift kann der Fehler nämlich häufig durch ein Planergänzungsverfahren bereinigt werden. Mängel des Bebauungsplans können durch ein ergänzendes Verfahren behoben werden; der fehlerfreie Bebauungsplan kann auch rückwirkend in Kraft gesetzt werden.[109] Die Vorschrift findet sowohl für Verfahrensfehler als auch für materiell-rechtliche Fehler Anwendung.[110] Bei materiell-rechtlichen Fehlern ist eine Fehlerheilung durch ein ergänzendes Verfahren unproblematisch, soweit es sich lediglich um eine Planergänzung handelt. Die Behebung eines Abwägungsfehlers durch ein ergänzendes Verfahren ist allerdings nur zulässig, wenn dadurch die Grundzüge der Planung nicht berührt werden.[111] Es wäre z.B. nicht zulässig, im Wege eines ergänzenden Verfahrens den Baugebietscharakter grundlegend zu verändern, etwa aus einem Wohngebiet ein Mischgebiet zu machen. Die nachträgliche “Planreparatur”[112] ist nur möglich bei punktuellen Nachbesserungen im Rahmen einer ansonsten ordnungsgemäßen Gesamtplanung.[113]

Die Planerhaltungsvorschriften gelten sowohl in Normenkontrollverfahren als auch bei der Inzidentkontrolle eines Bebauungsplans.[114] Demgegenüber gelten die §§ 214, 215 BauGB nach § 216 BauGB nicht für das Genehmigungsverfahren; die Genehmigungsbehörde muss also die Genehmigung versagen, wenn bei der Aufstellung des Bebauungsplans gegen die Vorschriften des BauGB verstoßen worden ist. Bedient sich eine Gemeinde des Mittels der Rückwirkungsanordnung zur Heilung von Form- oder Verfahrensfehlern, so stellt sie die Weichen für die städtebauliche Ordnung nicht im Nachhinein anders, sondern sie ersetzt lediglich einen formell fehlerhaften durch einen inhaltsgleichen fehlerfreien Plan.

[1] so Schmidt-Aßmann  BauR 1978, 99; ähnlich auch Battis/Krautzberger/Löhr § 1 Rdnr. 1

[2] §§ 1 Abs. 3, 2 Abs. 1 BauGB

[3] BVerwG NVwZ 2004, 220

[4] nach § 1 Abs. 1 BauGB

[5] BVerwGE 34, 301

[6] BVerwG NVwZ 1999, 1338

[7] BVerwG NVwZ 2002, 1510

[8] BVerwGE 117, 351;

[9] BVerwG BRS 71 Nr. 3

[10] s. dazu BVerwG E 90, 329 = NVwZ 1993, 167; E 117,351 = NVwZ 2003, 742; NVwZ 2004, 220; Spannowsky DÖV 1997, 757; Nonnenmacher VBlBW 2008, 161 u. 201

[11] BVerwGE 117, 25 = NVwZ 2003, 86; Zierau DVBl. 2009, 693; Hoffmann NVwZ 2010, 738; vgl. § 2 Abs. 2 BauGB

[12] BVerwGE 84, 209 = NVwZ 1990, 464; das gleiche gilt für eine Windenergieanlage– OVG Lüneburg NVwZ 2001, 452.

[13] Stüer, Handbuch des Bau- und Fachplanungsrechts, 2. Aufl., 1998, Rn. 1638 ff.

[14] §§ 1 a Abs. 3 BauGB, 21 Abs. 1 BNatSchG; s. dazu Kratsch NuR 2009, 398; Hendler/Brockhoff NVwZ 2010, 733; Engel/Ketterer VBlBW 2010, 293

[15] Sparwasser/Wöckel UPR 2004, 246

[16] BVerwG NVwZ 2002, 1103

[17] OVG Schleswig NuR 2004, 56

[18] VGH Mannheim BRS 44 Nr. 227

[19] vgl. dazu Hoppe DVBl. 1992, 853; Sendler UPR 1995, 45; Brohm § 13 Rdnr. 6 ff.

[20] BVerwG E 71, 163 = NVwZ 2007, 831.

[21] BVerwG E 108, 248 = NVwZ 1999, 1222, E 128, 238 = NVwZ 2007, 831.

[22] vgl. Stüer Rdnr. 1315 ff.; Paetow NVwZ 2010, 1184.

[23] BVerwG E 26, 287 = NJW 1967, 385; E 48, 70 = NJW 1975, 1985; NVwZ-RR 2003, 406

[24] nach §§ 5 Abs. 2 BauGB, 1 Abs. 1 BauNVO

[25] BVerwGE 48, 70

[26] Battis/Krautzberger/Löhr § 5 Rdnr. 45; Spannowsky/Uechtritz § 5 Rdnr. 11

[27] BVerwGE 48, 70; 70, 171 = NVwZ 1985, 485; NVwZ 2000, 197; NVwZ 2006, 87

[28] VGH Mannheim BauR 1983, 222; VBlBW 1985, 21

[29] BVerwGE 48, 70

[30] VGH Mannheim VBlBW 1985, 21

[31] nach § 8 Abs. 4 BauGB; s. dazu BVerwG NVwZ 2000, 197

[32] vgl. hierzu Schmidt-Aßmann, Grundsätze der Bauleitplanung, BauR 1978, 99

[33] VGH Mannheim VBlBW 1983, 106

[34] nach BVerwGE 50, 114

[35] OVG Münster, B.v. 8.07.2010 – 7 A 1235/09 -, juris

[36] BVerwG BauR 1991, 165; eb. BVerwG NVwZ 1991, 62 – Verhinderung von Gipsabbau.

[37] BVerwG BauR 1988, 488; VGH Mannheim NVwZ-RR 1999, 625

[38] OVG Münster NWVBl 2011, 467; vgl. § 60 Abs. 2 GO NRW.

[39] § 2 Abs. 1 Satz 2 BauGB

[40] vgl. dazu Battis/Krautzberger/Löhr § 3 Rdnr. 7

[41] Ley BauR 2000, 653

[42] VGH Mannheim VBlBW 2008, 186). Unschädlich ist es, wenn das konkrete Dienstzimmer nicht angegeben wird (BVerwG NVwZ 2009, 1103; a. M. noch VGH Mannheim VBlBW 2008, 186

[43] BVerwGE 55, 369; 69, 344

[44] BVerwG NVwZ 2001, 203

[45] BVerwG NVwZ-RR 1997, 514

[46] hierzu im Einzelnen: BVerwG NVwZ 2000, 676; VGH Mannheim BWVBl 1968, 91

[47] s. dazu Stollmann NuR 1998, 578

[48] VGH Mannheim VBlBW 2009, 466 – s. auch Schenk VBlBW 1999, 161

[49] BVerwG NVwZ 1988, 916; NVwZ 2011, 61; vgl. auch Ziegler NVwZ 1990, 533

[50] nach § 8 Abs. 2 Satz 2, Abs. 3 Satz 2 und Abs. 4 BauGB

[51] BVerwGE 34, 301

[52] s. dazu BVerwGE 133, 98 = NVwZ 2009, 1103

[53] E 65, 283 = NVwZ 1984, 430

[54] BVerwG BauR 2004, 1129

[55] s. dazu Reidt NVwZ 2007, 1029

[56] BVerwG NVwZ-RR 2009, 729

[57] BVerwG NVwZ 2009, 1289

[58] s. dazu insbes. BVerwGE 34, 30; 45, 309; Hoppe NVwZ 2004, 903; Stüer DVBl. 2005, 806

[59] s. dazu Hoppe DVBl. 2003, 697; Stüer Rdnr. 792

[60] s. dazu im Einzelnen: Schmidt-Aßmann BauR 1977, 99; Bernhardt JA 2008, 166; Stüer DVBl. 2005, 806.

[61] VGH Mannheim VBlBW 1982, 135

[62] E 45, 309

[63] Dolde/Menke NJW 1999, 1070 ff.

[64] so BVerwGE 34, 301; 59, 87

[65] so BVerwGE 59, 87; NVwZ 2008, 899

[66] BVerwG NVwZ 1995, 895; VGH Mannheim VBlBW 1997, 426

[67] BVerwG NJW 1992, 2884; NVwZ 1994, 683; NVwZ-RR 1999, 278

[68] BVerwG NVwZ 1990, 555; 1991, 980; 1994, 683

[69] vgl. dazu BVerwG NVwZ 2009, 1103

[70] VGH München BRS 65 Nr. 15; OVG Koblenz BRS 40 Nr. 33; Schmidt-Aßmann BauR 1978, 99; Ernst/Zinkahn/Bielenberg § 1 Rdnr. 210

[71] vgl. auch § 50 BImSchG sowie BVerwG BauR 1992, 344; VGH München ZfBR 1986, 248; Stüer Rdnr. 859

[72] BVerwGE 45, 309

[73] VGH München NJW 1983, 297; VGH Mannheim VBlBW 1991, 18

[74] OVG Münster BRS 58 Nr. 30

[75] OVG Hamburg BauR 1987, 657

[76] BVerwG NVwZ-RR 2000, 533; NVwZ 2002, 1506; VGH Mannheim VBlBW 1997, 305

[77] BVerfG NVwZ 2003, 727; BVerwG NVwZ 2005, 324

[78] s. dazu insbes. Sendler WuV 1985, 211; Stüer BayVBl 2000, 257

[79] E 69,30 = NVwZ 1984, 235; NVwZ 2010, 1246

[80] VGH Mannheim VBlBW 1983, 106; s. dazu nunmehr BVerfG 74, 264 = NJW 1987, 1251.

[81] BVerwG BauR 1988, 448

[82] BVerwG 34, 301

[83] Hoppe/Bönker/Grotefels § 7 Rdnr. 94 ff.; Schmidt-Aßmann BauR 1978, 99; Heinze NVwZ 1986, 87; v.Komorowski/Kupfer VBlBW 2003, 1 ff., 49 ff., 100 ff.

[84] § 214 Abs. 1 Nr. 1 BauGB

[85] VGH Mannheim ESVGH 28, 152 = BRS 33 Nr. 6

[86] VGH Mannheim VBlBW 1980, 24

[87] OVG Koblenz NVwZ 1992, 190; eb. VGH Mannheim Urt. v. 5.5.1999 – 3 S 1265/99; s. dazu Koch/Schütte DVBl. 1997, 1415.

[88] OVG Koblenz BauR 1988, 179

[89] OVG Münster BauR 1993, 691

[90] BVerwGE 45, 309

[91] OVG Münster BauR 2006, 306

[92] s. dazu Quaas/Kukk BauR 2004, 1541; Uechtritz ZfBR 2005, 11; Erbguth DVBl 2004, 802; v.Komorowski/Kupfer VBlBW 2003, 100; Happ NVwZ 2007, 304

[93] BVerwGE 48, 56; NVwZ 2008, 899

[94] BVerwG NVwZ 2010, 1246

[95] BVerwG BauR 1991, 169; NVwZ 1999, 1341

[96] BVerwG NVwZ 2005, 324

[97] OVG Lüneburg BauR 1981, 454

[98] VGH Mannheim VBlBW 1997, 139

[99] VGH München BauR 1987, 285; VGH Mannheim VBlBW 1992, 303

[100] BVerwG NVwZ 1999, 1341

[101] BauR NVwZ 2000, 1055

[102] s. dazu Quaas/Kukk BauR 2004, 1541; Uechtritz ZfBR 2005, 11; Erbguth DVBl 2004, 802; v.Komorowski/ Kupfer VBlBW 2003, 1 ff., 49 ff., 100 ff.

[103] vgl. auch BVerwG NVwZ 2003, 171

[104] vgl. BVerwG BauR 2009, 1862

[105] BGH NJW 1980, 1751; BVerwG DVBl. 1982, 1095

[106] s. dazu Hager VBlBW 1994, 263

[107] OVG Münster NWVBl. 1995, 339

[108] OVG Münster, U.v. 22.03.2011 – 2 A 371/09 -, juris

[109] s. dazu BVerwG BauR 2010, 1894; BauR 2011, 1622

[110] Finkelnburg NVwZ 2004, 897; Rieger UPR 2003, 161; Dolde NVwZ 2001, 976

[111] BVerwGE 119, 54 = NVwZ 2004, 226; NVwZ 2003, 1385; NVwZ 2000, 1053

[112] so Stüer/Rude DVBl. 2000, 322

[113] VGH München GewArch 1999, 432

[114] OVG Münster – 2 A 371/09 -, a.a.O.

Relazione italiana dell’avv. Stefano Soncini – Tolone – 4/10/2013

LA PIANIFICAZIONE URBANISTICA IN ITALIA

1      La disciplina del governo del territorio nella costituzione italiana

In Italia la materia della pianificazione urbanistica, intesa come governo del territorio,  rientra tra quelle riservate alle Regioni dall’art. 117 della Costituzione che, al terzo comma, la prevede tra le materie di legislazione concorrente.

La potestà legislativa spetta alle Regioni salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato ([1]).

2      La disciplina del governo del territorio nella normativa nazionale

La prima normativa a carattere generale nazionale, che contiene detti principi fondamentali, risale alla legge urbanistica statale del 1942 ([2]) modificata e integrata, tra le altre, con successive leggi del 1967 ([3]), 1968 ([4]) e del 1977 ([5]).

Il sistema normativo nazionale si basa su una disciplina delle diverse destinazioni del territorio (definite da un decreto ministeriale del 1968 – [6]) mediante ripartizione in zone urbanistiche (cosiddetto zoning).

Tale ripartizione viene  stabilita attraverso gli strumenti urbanistici.

Questi  atti sono provvedimenti amministrativi aventi efficacia generale ed operanti a diverso livello su scala discendente.

Gli strumenti urbanistici previsti dalla normativa statale sono, in ordine discendente:

  1. I piani regolatori di coordinamento (PTC regionali – [7]);
  2. I piani regolatori generali (PRG – comunali o intercomunali – [8]);
  3. I piani attuativi (PP – piani particolareggiati – [9] e PdL – piani di lottizzazione – [10])

I piani territoriali di coordinamento (PTC) vengono formati dalle Regioni e obbligano le Amministrazioni locali (comuni e province) ad attenersi alle previsioni degli stessi.

I piani regolatori generali (PRG) sono di competenza dei comuni e determinano, nel rispetto dei piani sovraordinati, tra l’altro:

  • i vincoli di destinazione delle singole zone (residenziali, direzionali, industriali, commerciali, agricole etc);
  • gli obblighi di conservazione e trasformazione degli abitati;
  • le differenti intensità e modalità edilizie delle zone edificabili;
  • le infrastrutture di interesse pubblico (viabilità, verde pubblico etc – [11]).

I piani regolatori generali sono adottati dai comuni e approvati dalle regioni.

In sede di approvazione del piano le regioni possono introdurre modificazioni al piano o chiederne l’adeguamento ([12]).

Il procedimento di formazione del piano regolatore comunale prevede la pubblicazione del piano adottato con termini di 30 giorni per la presentazione delle osservazioni da parte degli interessati.

Tali osservazioni sono considerate contributi alla formazione del piano e l’amministrazione non è obbligata a tenerne conto ([13]).

Le modifiche al piano nel corso del processo  non devono però comportare il rifacimento del piano che altrimenti dovrebbe essere ripubblicato ([14]).

I piani particolareggiati (PP) predisposti dall’Amministrazione Pubblica, individuano le zone che devono essere obbligatoriamente trasformate sotto comminatoria dell’espropriazione e assegnazione delle aree ad altri soggetti interessati alla trasformazione.

I piani di lottizzazione (PdL), di pari livello dei piani particolareggiati, sono normalmente predisposti dai proprietari interessati.

Essi comportano la sottoscrizione di una convenzione, considerata come accordo sostitutivo del provvedimento ([15]), che rimanda al “contratto urbanistico” dell’esperienza legislativa tedesca ([16]).

La convenzione viene sottoscritta tra i proprietari ed il comune per l’utilizzazione delle aree da edificare, con destinazione privata, e la cessione delle aree alla parte pubblica dove realizzare le opere di interesse pubblico ([17]).

Il Giudice Amministrativo ha giurisdizione esclusiva su tali atti ([18]).

Nel tempo compreso tra l’adozione e l’approvazione del piano, ([19] ) non è ammesso il rilascio di concessioni edilizie in difformità  dal piano adottato ([20]), in applicazione delle cosiddette misure di salvaguardia delle destinazioni del nuovo Piano ([21]).

I vincoli espropriativi o comunque che impediscono l’utilizzo delle aree disciplinate dal piano regolatore hanno una durata di 5 anni ([22]).

La Corte Costituzionale ha dichiarato, già dal 1968, l’illegittimità della durata indeterminata dei vincoli di inedificabilità imposti dai piani regolatori ([23]).

Dopo la scadenza di tali termini le aree vincolate si considerano “zone bianche”.

Su di esse sono consentiti modesti interventi edilizi ([24]).

L’edificazione dei suoli viene consentita con una verifica di conformità tra il progetto e la norma astratta del piano urbanistico, salvi i vincoli estetici, ambientali e paesaggistici.

Ciò avviene con il rilascio di un nullaosta o licenza edilizia che, in presenza dei presupposti, costituisce atto dovuto  non soggetto a discrezionalità.

3      IL REGIME DELLA EDIFICABILITA’DEI SUOLI – L’INTERVENTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE

Questa impostazione, derivante dalla legge del 1942 trovava sviluppo nella legge del 1977 ([25]).

Tale legge è stata ispirata dall’intento di fare dello jus aedificandi non più un attributo inerente la proprietà, bensì un oggetto di possibile concessione amministrativa.

Essa ha introdotto l’obbligo di provvedimento autorizzativo concessorio (concessione edilizia).

Tale atto è subordinato al pagamento dell’incidenza del costo di realizzazione delle opere di urbanizzazione ([26]) da parte del Comune.

In sostanza il proprietario che intende edificare la propria area è tenuto al pagamento dei costi che l’amministrazione deve sostenere per realizzare le opere pubbliche necessarie a causa dell’incremento della popolazione residente ([27]).

L’impostazione della legge del 1977 fu stravolta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 1980.

Questa sentenza ha dichiarato illegittime quelle disposizioni che consentivano l’espropriazione delle aree necessarie alla realizzazione delle opere pubbliche, mediante pagamento di espropriazione a valore agricolo, senza tenere conto della possibilità edificatoria delle aree.

Il supporto logico dell’impostazione della legge urbanistica del 1977 veniva quindi riportato a quello originario nel quale la possibilità edificatoria era inerente alla proprietà del suolo ([28]).

Ancor più recentemente la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che la normativa italiana che ha consentito l’acquisizione di fatto di proprietà, anche tramite provvedimenti espropriativi annullati, era contraria all’art. 1 del protocollo addizionale della convenzione, mettendo in definitiva crisi il sistema per quanto riguarda l’acquisizione delle aree con destinazioni pubbliche ([29]).

4      I DISEGNI DI LEGGE NAZIONALI PER L’INTRODUZIONE DEI PRINCIPI FONDAMENTALI

Nel contesto sopra illustrato, sin dal 1988 ([30]) e successivamente sino al  2005 ([31]) sono stati presentati al Parlamento Italiano numerosi disegni di legge diretti a colmare il sostanziale vuoto normativo dei principi  fondamentali che devono essere contenuti nella legge nazionale.

Il principio fondamentale che si evince da tali progetti di legge, è quello dell’attribuzione di un plafond edificatorio alle aree e cioè il riconoscimento di una parziale inerenza dello jus aedificandi alla proprietà di tutti i suoli ([32]).

Tale meccanismo avrebbe consentito a tutti i proprietari di disporre di un valore inerente alla proprietà che avrebbe potuto essere commercializzato e trasferito su altre aree ai fini della cessione alla proprietà pubblica dell’area interessata alla destinazione di interesse generale, assoggettando tutti i proprietari agli oneri derivanti dalla trasformazione dei suoli.

Tale fenomeno è noto in Italia come “perequazione urbanistica” ([33]).

Tuttavia, per svariati motivi e probabilmente in ragione dei molteplici interessi, in primis economici, pubblici e privati derivanti da questo sistema, tali progetti di legge non sono mai stati portati al compimento di norma giuridica.

Si è però assistito a partire dalla fine degli  anni ’80 ad un proliferare di leggi regionali.

Pur nella situazione di mancanza dei predetti principi generali tali leggi regionali hanno introdotto discipline specifiche che, ancorché differenziate tra loro, riprendono i contenuti della “perequazione urbanistica”.

5      LE LEGGI REGIONALI IN MATERIA URBANISTICA – IL CASO DELLA REGIONE LOMBARDIA

Come ora detto le regioni italiane si sono dotate di una propria legge urbanistica ([34]).

Le normative regionali sono largamente differenziate tra loro e non è possibile affrontarle tutte dettagliatamente.

Prendendo in esame il caso della Regione Lombardia, tale normativa è caratterizzata nel modo seguente.

Molti degli elementi caratteristici della legge lombarda si riscontrano anche nelle altre leggi regionali.

La legge sul Governo del Territorio della Lombardia è stata approvata nel 2005 ([35]).

Il titolo secondo di tale legge è dedicato agli strumenti di Governo del Territorio.

È stabilito che il Governo del territorio si attui attraverso una pluralità di piani in ragione del diverso ambito territoriale,  del contenuto e della funzione svolta dagli stessi.

La pianificazione urbanistica è sottoposta anzitutto alla valutazione ambientale strategica dei piani (VAS) ai sensi della Direttiva 2001/42CEE.

I principi attuativi di tale previsione sono stati stabiliti dalla Regione ed il TAR Lombardia di Milano se ne è occupato in una sentenza ([36]) stabilendo che l’autorità competente nominata alla valutazione ambientale deve essere  completamente autonoma dall’autorità procedente alla pianificazione urbanistica.

Tale principio  è stato tuttavia riformato dal Consiglio di Stato  ([37]) che ha ritenuto che non vi fosse nessuna problematica nella valutazione ambientale dei piani effettuata da un soggetto dipendente e incardinato nella stessa Amministrazione procedente (quasi sempre l’ufficio tecnico comunale).

La decisione del TAR Lombardia aveva rilevato un’incompatibilità comunitaria della normativa nazionale.

Il Consiglio di Stato, pur essendo giudice di ultima istanza,  non ha ritenuto di rimettere la questione alla Corte di Giustizia ([38]).

Questa decisione, ha semplificato la procedura dei numerosissimi comuni della Lombardia ([39]), ma ha reso la valutazione ambientale dei piani un adempimento non particolarmente approfondito e che costituisce una sorta di documento espositivo allegato del piano ([40]).

Invece la tutela dell’ambiente, al livello europeo e non solo nazionale, costituisce un principio fondamentale della pianificazione, per il rispetto del patrimonio  degli abitanti degli stati e delle regioni, anche nei riguardi delle future generazioni.

La pianificazione nella regione Lombardia, a differenza di quanto previsto nella legge nazionale,  si articola in scala ascendente nel senso che i poteri di pianificazione sono attribuiti  a partire “dal basso”.

Infatti i comuni adottano ed approvano definitivamente i loro piani di governo del territorio (PGT).

Tali piani sono subordinati solo ad un parere della provincia per la valutazione di conformità con il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP – [41]).

Al di sopra di tali piani provinciali (PTCP) è previsto un Piano Territoriale Regionale (PTR – [42])

A differenza dei principi della normativa nazionale, è evidente nella pianificazione lombarda che i poteri spettano ormai principalmente ai comuni, numerosissimi ed anche di piccolissime dimensioni ([43]), i quali, quindi, possono essere condizionati dalla volontà di pochi abitanti.

La pianificazione comunale della Lombardia è fissata attraverso due strumenti:

  1. Il piano di governo del territorio (PGT);
  2. I piani attuativi (PP e PdL) nonché gli atti di programmazione negoziata (programmi integrati di intervento – PII – [44]) con valenza territoriale.

Il Piano di Governo del Territorio è articolato attraverso tre atti:

  • Il Documento di Piano (DdP – [45]);
  • Il Piano dei Servizi (PdS – [46]).
  • Il Piano delle Regole (PdR – [47]).

Il procedimento di approvazione del PGT prevede una prima fase di partecipazione ancora prima dell’adozione e ancor prima del conferimento dell’incarico di redazione degli atti.

Questa fase partecipativa che anticipa quella delle osservazioni al piano adottato,  è stata pensata per estendere la trasparenza delle scelte e acquisire il maggior numero di contributi da parte della popolazione.

Nei fatti tale partecipazione, come anche accade per le osservazioni al piano adottato, risulta essere, nella maggior parte dei casi, meramente formale e difficilmente le compagini politiche al governo dei comuni fanno patrimonio delle proposte presentate.

La scansione procedimentale delle fasi di adozione e approvazione degli strumenti urbanistici comunali è molto diversa rispetto a quella prevista in sede nazionale ed ha tempi molto più ristretti perché il procedimento sia portato a definitiva conclusione.

Sono infatti previsti solo 90 giorni tra la scadenza del termine di presentazione delle osservazioni e l’approvazione definitiva, a pena di inefficacia degli atti assunti.

Un altro elemento fondamentale introdotto dalla LR è quello della ripartizione, tra tutti i proprietari degli immobili interessati dagli interventi, dei diritti edificatori e degli oneri derivanti dalla dotazione di aree per opere di urbanizzazione.

Questo viene ottenuto mediante l’attribuzione di un identico indice di edificabilità territoriale.

La LR ha quindi introdotto il principio, inesistente nell’ordinamento nazionale, della perequazione urbanistica prevedendo anche che l’utilizzo di tali indici edificatori da realizzare possa essere commercializzato e ceduto per essere edificato in altri ambiti con la cessione del suolo alla proprietà pubblica, per la realizzazione delle opere di interesse generale e del verde pubblico.

Altra novità introdotta dalla legge regionale lombarda  sul governo del territorio è la c.d. compensazione urbanistica ([48]).

Terza importante novità del nuovo modello di pianificazione regionale è la previsione del c.d. credito edilizio ([49]).

6      IL CASO DEI PIANI URBANISTICI DI ROMA E DI MILANO

Entrando nello specifico della disciplina locale, sono emersi dalla situazione normativa sopra richiamata, numerosi casi giurisprudenziali e numerosi contenziosi molti dei quali ancora pendenti.

In ordine alla formazione del Piano Regolatore di Roma, il TAR Lazio nel 2010 ([50]) aveva annullato l’impostazione di tale piano per violazione dell’art. 42 della Costituzione ([51]) ritenendo che la perequazione urbanistica, così ipotizzata, si ponesse in contrasto con il principio di legalità, non essendo prevista nelle norme nazionali.

Tuttavia il CdS ha riformato tale sentenza ([52]) ritenendo che i principi della conformazione del territorio siano attribuiti all’amministrazione con la possibilità di ricorrere a modelli privatistici e consensuali per l’acquisizione dei suoli necessari alla costruzione delle opere di interesse generale.

Non sembrano peraltro essere stati valutati i possibili contrasti di tale affermazione con la più recente e dilagante giurisprudenza della CEDU ([53]).

In tal senso potrebbero essere considerati i limiti e vincoli di edificabilità impostati sull’obbligo di scambio di diritti edificatori destinati ad essere utilizzati in aree diverse da quelle del proprietario che deve cedere il proprio bene per sfruttarne l’edificabilità che gli è propria.

Il PGT di Milano è stato recentemente e definitivamente approvato dopo un iter piuttosto burrascoso.

Infatti l’adozione è avvenuta da parte di una giunta appartenente ad una parte politica e l’approvazione da parte della diversa compagine politica successivamente eletta, previa modifica delle risposte alle osservazioni già presentate.

I tempi per questa approvazione si sono dilatati ampiamente al di là di quelli ristrettissimi previsti dalla LR.

Inoltre nella fase di approvazione sono stati modificati sostanzialmente gli indici di edificazione attribuiti sulla generalità del territorio stralciando vasti territori dopo la scadenza della presentazione delle osservazioni.

Ne è nato un significativo contenzioso pendente al TAR Lombardia – Milano dove sono radicati circa un centinaio di ricorsi in attesa di essere decisi.

7      LE DECISIONI DEI TRIBUNALI AMMINISTRATIVI REGIONALI ITALIANI IN TEMA DI URBANISTICA – I POTERI DEL GIUDICE

Nell’esperienza giudiziaria italiana il contenzioso in materia urbanistica ha sempre avuto un notevole importanza in termini di numero di ricorsi e di interessi coinvolti.

Tuttavia a tale notevole contenzioso non corrisponde tradizionalmente un potere del Giudice che possa valutare nel merito e con pienezza di cognizione gli atti amministrativi che gli vengono sottoposti.

Si assiste in moltissimi casi a decisioni che si fermano alla soglia della cognizione di legittimità degli atti ([54]).

Il Giudice normalmente non valuta, dopo avere acquisito gli elementi di fatto con una esaustiva istruttoria basata anche su consulenze tecniche e verificazioni, l’oggetto della questione che gli viene sottoposto e cioè la correttezza o meno delle scelte effettuate in sede di pianificazione rispetto alle norme generali ([55]).

Tale estensione della cognizione non comporterebbe però un eccesso di ingerenza nella valutazione di scelte discrezionali, spettanti all’amministrazione pubblica, purché nei limiti della valutazione di circostanze di fatto che possano giustificare o meno l’attribuzione di una qualità giuridica ad un bene.

La pienezza del giudizio, conforme anche alle regole del giusto processo ai sensi degli artt. 6 e 13 CEDU, dovrebbe consentire questo genere di decisione.

La recente riforma del processo amministrativo pare consentire tale attività di accertamento ([56]).

                                                           Avv. Stefano Soncini

[1] La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (…)Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: (…) governo del territorio. (…) Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

[2] L. 17 agosto 1942 n. 1150 Legge urbanistica

[3] L. 6 agosto 1967, n. 765 Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150

[4] L. 19 novembre 1968, n. 1187 Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150 

[5] L. 28 gennaio 1977 n. 10 Norme per la edificabilità dei suoli

[6] DM 2 aprile 1968, n. 1444 Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765.

[7] Art. 5, L. 1150/1942

[8] Artt. 7 – 10 L. 1150/42

[9] Artt. 14-16 L. 1150/42

[10] Art. 28 L. 1150/42

[11] Secondo il DM 1444/68

[12] TAR Veneto, sez. III, 21 novembre 2005, n. 4044

[13] Art. 9 L. 1150/42 – CdS, sez. IV, 2 agosto 2011, n. 4574

[14] TAR Milano, Sez. II, n. 4671/2009

[15] Art. 11 L. 241/90

[16] § 11 del BauGB Codice Urbanistico Federale

[17] quali il verde pubblico, i parcheggi, la viabilità etc

[18] Cass. Sez. Un. 2 dicembre 2010, n. 24419; CdS, sez. IV, 4 maggio 2010, n. 2568

[19] ma soltanto per una durata non superiore a 5 anni,

[20] L. 9 novembre 1952, n. 1902

[21] TAR Lombardia – Milano, sez. II, n. 856/2012

[22] Quelli previsti dai piani particolareggiati hanno una durata di 10 anni, CdS, sez. IV, 10 giugno 2010, n. 3700

[23] Sent. 29 maggio 1965, n. 55

[24] Purché all’esterno dei perimetri stabiliti dai comuni come zone abitate, mentre all’interno sono consentiti solo interventi di recupero dell’esistente.

[25] L 10/77 cit.

[26] strade, verde pubblico, reti dei servizi elettrici, fognature etc

[27] su aree appositamente acquisite allo scopo

[28] Sent. 12 maggio 1982, n. 92 – Di pari passo, con successive sentenze, a partire dal 1982, la Corte Costituzionale  ha poi sistematicamente demolito la possibilità di procedere all’espropriazione delle proprietà private per la realizzazione delle opere pubbliche senza considerare l’inerenza alla proprietà del diritto di costruire, che deve essere indennizzato mediante un congruo ristoro considerato pari al valore di mercato delle aree edificabili.

[29] CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, Sez II, sentenza 30 maggio 2000; Pres. ROZAKIS – Soc. Belvedere Alberghiera s.r.l c. Governo Italiano -.

[30] Disegno di Legge n. 799 che riportò l’approvazione unanime in una delle due Camere (Senato)

[31] Progetto di Legge n. 153

[32] con l’esclusione di quelli vincolati sotto il profilo delle bellezze naturali e dei vincoli assoluti di inedificabilità per i profili geologici e di inedificabilità fisica

[33] Perequazione “significa attribuire un valore edificatorio uniforme a tutte le proprietà che possono concorrere alla trasformazione urbanistica di uno o più ambiti del territorio prescindendo dall’effettiva localizzazione della capacità edificatoria sulle singole proprietà e dalla imposizione di vincoli d’inedificabilità ai fini di dotazione di spazi da riservare alle opere collettive”.

[34] Schematicamente possiamo citare Abruzzo LR 18/83; Basilicata LR 23/99; Calabria LR 19/02; Campania LR 16/04; Emilia – Romagna LR 20/2000; Friuli Venezia Giulia LR 52/91; Lazio LR 38/99; Liguria LR 36/97; Lombardia LR 12/05; Marche LR 34/92; Piemonte LR 56/77; Puglia LR 20/01; Sardegna LR 45/89; Sicilia LR 71/78; Toscana LR 1/05; Umbria LR 11/05; Valle D’Aosta LR 11/98; Veneto LR 11/04; Provincia Autonoma di Bolzano LP 13/97; Provincia autonoma di Trento LP 273/94.

[35] LR 12 marzo 2005, n. 12

[36]  T.A.R. Milano, sezione II, 17 maggio 2010, n. 1526;

[37] Consiglio di Stato, sezione IV, 12 gennaio 2011, n. 133

[38] ma ha però chiarito la necessità che tra l’Ente procedente e l’Organo interno vi sia un sufficiente grado di autonomia operativa

[39] sono 1544 su un totale nazionale di 8092

[40] Tale atto dovrebbe invece costituire il presupposto di base della pianificazione.

[41] nella limitata parte  in cui tale piano è vincolante

[42] che contiene però solo indirizzi generali.

[43] I comuni con meno di 5.000 sono il 75%

[44] CdS, sez. IV, 19 giugno 2008, n. 3049

[45] che costituisce una relazione programmatica dello stato del territorio e degli obbiettivi di sviluppo e conservazione

[46] che individua la dotazione di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico senza dover necessariamente rispettare i limiti numerici fissati dalle normative nazionali sopra richiamate

[47] che definisce le regole per la trasformazione del territorio, le aree destinate all’agricoltura e le aree non assoggettate a trasformazione urbanistica.

[48] La compensazione urbanistica consiste nella possibilità di ricorrere all’espropriazione della proprietà privata in forma diversa rispetto a quella tradizionale della corresponsione di un indennizzo: il Comune, che spesso non dispone di mezzi finanziari per realizzare l’esproprio, può ora – anche su proposta del proprietario – prevedere un indennizzo in natura o “per equivalente”, mediante permuta con diritti edificatori che il soggetto espropriato potrà  utilizzare altrove, su aree private o anche su aree pubbliche destinate a riceverli.

[49] Il credito edilizio è concepito come strumento economico “un bonus di capacità edificatoria”, perlopiù generato da interventi di riqualificazione delle aree urbane degradate, spendibile non nella stessa area che l’ha generato ma in altre aree idonee (c.d. aree di atterraggio del credito).

[50] Sent. 4 febbraio 2010, n. 1524

[51] Art. 42 Cost. “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.

La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità”.

[52] CdS, sez. IV; 13 luglio 2010, n. 4545

[53] che ha ritenuto incompatibili con la convenzione europea quelle compressioni del diritto di proprietà poste in violazione del contenuto minimo del diritto anche sotto il profilo dell’espropriazione larvata

[54] TAR Milano, sez. II, n. 2379/12

[55] TAR Lombardia, sez. III 7 ottobre 2005, n. 3769

[56] Vedi atti del Convegno dell’Associazione tenutosi a Milano il 7 ottobre 2011 in Rivista Amministrativa della regione Lombardia 2011 n. 3-4 – vedi decreto cautelare presidenziale n. 1524/11 del 30 settembre 2011

Relazione tedesca dr. Joachim Becker – Venezia – 31/5/2014

I. Einleitung

Vor einigen Wochen lief in einem Kino in Münster ein italienischer Dokumentarfilm mit dem Titel “Das Venedig-Prinzip” an. Wer – wie ich – diesen Film gesehen hat, wird das Kino bedrückt verlassen haben. Gezeigt haben die italienischen Filmemacher nicht etwa in Hochglanz die Schönheit und die einzigartige Kultur dieser Stadt, sondern die Schatten, die über ihr schweben: Gigantische Kreuzfahrtschiffe, die in die Lagune einfahren und ihren Beitrag zu einer Verschlechterung der ohnehin schon brüchigen Bausubstanz leisten, eine ständig schrumpfende Bevölkerung, ein Absterben der Infrastruktur – wo sind die Einkaufsläden geblieben, in denen die Einwohner Venedigs noch zu vertretbaren Preisen ihre Lebensmittel erwerben können? – , Immobilienpreise, die für den normal Sterblichen unerschwinglich sind, und damit einhergehend der Erwerb von Immobilien durch Menschen, die als Statussymbol einen Palazzo in Venedig haben müssen, ohne diesen allerdings mehr als zwei Wochen im Jahr zu nutzen. Das erschütternde Fazit dieses Films: Venedig, die Serenissima, die uns, die wir hier heute zusammengekommen sind, immer noch begeistert, sei auf dem besten Wege, eine Art Disneyland zu werden, Teil eines touristischen Events, eine bloße Filmkulisse ähnlich einer ausgestorbenen Stadt im Wilden Westen. Nicht nur vor diesem Hintergrund habt Ihr, liebe italienischen Freunde, eine sehr treffende Wahl für die Durchführung eines Kongresses mit einem so brisanten Thema wie demjenigen getroffen, mit dem wir uns heute befassen wollen.

Ist die Entwicklung, die in jenem Film geschildert wurde, überhaupt noch aufzuhalten? Ist es überhaupt die gemeinsame Auffassung aller Beteiligten, diese Entwicklung zu stoppen? Wer diesen Fragen nachgeht, wird zunächst sehr schnell bemerken, dass wir es hier nicht allein mit nationalen, spezifisch italienischen, sondern vielmehr mit in ganz Europa auftretenden, ja mit globalen Problemen zu tun haben, die bei Licht besehen jede Nation zu Lösungen drängen müssen. Bleiben wir beim Beispiel der gigantischen Kreuzfahrtschiffe: Ein Teil von ihnen wird auf einer bekannten Werft in Norddeutschland gebaut. Diese Werft, die etwa 2.500 Menschen Arbeit bietet, etwa 300 Ausbildungsplätze für Jugendliche zur Verfügung stellt und damit ein bedeutender Faktor für das Wohlergehen der Bewohner dieser ansonsten strukturschwachen Region ist, liegt am Rande einer Kleinstadt an einem an dieser Stelle nicht allzu breiten und auch nicht allzu tiefen Fluss, der Ems, der erst einige Kilometer weiter in die Nordsee mündet. Um zu gewährleisten, dass die Schiffe nach ihrer Fertigstellung in der Werft überhaupt in die Nordsee gelangen können, wurde einige Kilometer flussabwärts von der genannten Kleinstadt, also in Richtung Meer, ein Sperrwerk (Kosten: etwa 250 Millionen Euro) angelegt, welches bei der Überführung der Schiffe das Wasser des Flusses aufstaut und auf diese Weise zu dem benötigten Tiefgang führt. Wie das Sperrwerk die bis dahin weitgehend unberührte Flusslandschaft verändert hat, mögen Sie im Video sehen, ebenso eines der Kreuzfahrtschiffe, das den grünen Teppich der norddeutschen Landschaft durchschneidet. Was Sie nicht sehen, sind die Eingriffe in das ökologische Gleichgewicht, in die Flora und Fauna eines jahrtausendealten Naturraumes. Der von bedeutenden Umweltorganisationen initiierte Rechtsstreit um das Emssperrwerk hat die niedersächsische Verwaltungsgerichtsbarkeit Ende der 1990er Jahre und auch noch Anfang des vergangenen Jahrzehnts intensiv beschäftigt und endete schließlich vor dem Bundesverwaltungsgericht mit einem Vergleich, der u. a. dazu führte, dass die niedersächsische Landesregierung zusätzliche Millionenbeträge für ökologische Verbesserungen an der Ems bereitzustellen hatte.

Gemeinsam sind all den in Norddeutschland gebauten Kreuzfahrtschiffen ihre unglaublichen Ausmaße. Sie erreichen eine Länge von über 300 Metern und bieten mehreren tausend Touristen Platz, die von ebenso mehreren tausend Besatzungsmitgliedern mit Speisen und Getränken versorgt und betreut werden. Golfplätze auf diesen Schiffen gehören bereits zum Standard, ebenso wie etwa große Swimmingpools und Wasserrutschen von beträchtlicher Länge. Bei einer Besichtigung der Werft im Herbst vergangenen Jahres vertraute mir ein Ingenieur an: Wenn soeben eine Reederei ein Schiff mit einer 300 m langen Wasserrutsche bestellt hat, wird eine Konkurrenzreederei das nächste Schiff mit einer Wasserrutsche nicht unter 400 m Länge in Auftrag geben. Welche Ansprüche an die Freizeit, welches Streben nach immer mehr Luxus, welches unstillbare Verlangen nach etwas, was in dieser Weise noch kein Mensch zuvor erlebt hat, verbergen sich hinter einer derartigen Tourismusindustrie? Und welche Gewinne lassen sich mit einer solchen Industrie erzielen, die offenbar noch lange nicht an ihre Grenzen gestoßen ist? Wer profitiert von diesen Gewinnen und auf wessen Kosten gehen sie?

Mit solchen Fragen begeben wir uns in einen Bereich, der uns weit über unseren juristischen Horizont hinaus zu drängenden gesellschaftspolitischen, ökologischen, moralisch-ethischen, auch zu philosophischen und religiösen Fragen führt, auf Fragen, die ich aber gewiss im Rahmen unserer heutigen Veranstaltung nicht umfassend beantworten kann. Meine ganz persönliche Meinung dazu werden Sie am Schluss meines Referats hören. Als deutscher Referent, der nur ein Jurist ist, ein deutscher Verwaltungsrichter, habe ich unser heutiges Thema als Auftrag verstanden, in einem Überblick die rechtlichen Rahmenbedingungen darzustellen, die bei der Aufarbeitung und bei der Bewältigung des Konflikts zwischen Umweltinteressen einerseits und regionalen oder gar nationalen wirtschaftlichen Interessen andererseits von Bedeutung sind.

II. Europarechtliche Vorgaben zur Bewältigung des Konflikts zwischen Ökologie und Ökonomie

Beginnen wir mit dem Europarecht, das heute nahezu alle Bereiche des Umweltrechts erfasst und unser nationales Umweltrecht in vielfältiger Weise beeinflusst. Der Vertrag über die Arbeitsweise der Europäischen Union (AEUV) enthält nicht etwa nur Regelungen über die Wirtschafts- und Währungspolitik und – diese Bestimmung muß ich im Kontext unseres heutigen Themas auch erwähnen – mit Art. 195 eine Bestimmung, die die Union verpflichtet, die Maßnahmen der Mitgliedstaaten im Tourismussektor, insbesondere durch die Förderung der Wettbewerbsfähigkeit der Unternehmen der Union in diesem Sektor, zu ergänzen, sondern er enthält mit seinem Titel XX (Art. 191 ff. AEUV) auch ein eigenes Umweltkapitel, welches durch die Einheitliche Europäische Akte 1987 in den Vertrag eingefügt und in der Folge mehrfach modifiziert wurde. Dabei hat der Maastrichter Vertrag Anfang der 1990er Jahre zugleich den Umweltschutz in Art. 3 Abs. 3 des Vertrags über die Europäische Union (EUV) verankert. Ich zitiere: “Die Union errichtet einen Binnenmarkt. Sie wirkt auf die nachhaltige Entwicklung Europas auf der Grundlage eines ausgewogenen Wirtschaftswachstums und von Preisstabilität, eine in hohem Maße wettbewerbsfähige soziale Marktwirtschaft, die auf Vollbeschäftigung und sozialen Fortschritt abzielt, sowie ein hohes Maß an Umweltschutz und Verbesserung der Umweltqualität hin.” Aus meiner Sicht liegt bereits in dieser Norm der Schlüssel auch für das Herangehen an unsere heutige Thematik, den Konflikt zwischen Ökonomie und Ökologie. Das europäische Primärrecht stellt Ökonomie und Ökologie als Zielbestimmungen in einer einzigen Bestimmung nebeneinander. Das bedeutet den vertraglich festgeschriebenen Abschied von einer ungehemmten, gleichsam grenzenlosen wirtschaftlichen Betätigung, anders ausgedrückt eine Einbettung aller Ökonomie in die gleichzeitige Forderung nach Ökologie, wobei uns zu denken geben mag, dass einerseits von einem bloß “ausgewogenen” Wirtschaftswachstum und andererseits von einem “hohen” Maß an Umweltschutz die Rede ist. Heute gehört die Umweltpolitik zu den fest etablierten und wichtigen Politiken der Union. Mit der letztlich auf den Amsterdamer Vertrag zurückgehenden sogenannten “Querschnittsklausel” des Art. 11 AEUV, wonach die Erfordernisse des Umweltschutzes bei der Festlegung und Durchführung der Unionspolitiken und Unionsmaßnahmen insbesondere zur Förderung einer nachhaltigen Entwicklung einbezogen werden müssen, wird deutlich: Den Umweltanliegen kann in angemessener Weise nur dann Rechnung getragen werden, wenn sie nicht nur im Rahmen der Umweltpolitik im engeren Sinne, sondern auch im Rahmen anderer Politiken verfolgt werden; mit anderen Worten: Jede Umweltpolitik wird solange nur ungenügende Erfolge vorweisen können, wie z. B. die Verkehrs-, die Landwirtschafts- oder die Energiepolitik ihre Anliegen ausklammern. Nach herrschender Auffassung sind die genannten umweltpolitischen Grundsätze rechtlich verbindlich, wobei dem Unionsgesetzgeber bei ihrer Verwirklichung ein weiter Gestaltungsspielraum zugebilligt wird. Die Mitgliedstaaten sind an die genannten Handlungsgrundsätze insoweit gebunden, als sie Unionsrecht anwenden oder durchführen. Zudem sind die Handlungsgrundsätze Auslegungsmaßstab für sonstige primär- oder sekundärrechtliche Vorschriften. Sie sind auch bei der Bestimmung der Reichweite mitgliedstaatlicher Handlungsspielräume zu beachten. Einzelne können jedoch aus den genannten Prinzipien grundsätzlich keine Rechte ableiten. Das ändert aber nichts daran, dass sich insbesondere aus Grundrechten subjektive Rechte des Einzelnen ergeben mögen, deren Tragweite dann auch unter Beachtung der unionsrechtlichen umweltpolitischen Handlungsgrundsätze zu bestimmen ist.

Die Durchführung und auch die Finanzierung des EU-Umweltrechts obliegen, dies ist in Art. 192 Abs. 4 AEUV ausdrücklich klargestellt, grundsätzlich den Mitgliedstaaten. Dabei gilt, dass Richtlinien, auch wenn Art.288 Abs. 3 AEUV die Wahl der Form und der Mittel ihrer Umsetzung den innerstaatlichen Stellen überlässt, im Prinzip durch nach außen wirksame Rechtsakte, also letztlich durch Gesetze im formellen oder materiellen Sinn, umzusetzen sind. Bezüglich des administrativen und judikativen Vollzugs von Unionsrecht gilt grundsätzlich das Prinzip der Anwendung nationaler Verfahrens- und Prozessordnungen. Uns allen ist bewusst, dass die tatsächliche Anwendung der unionsrechtlichen Bestimmungen und auch der nationalen Vorschriften, die auf unionsrechtlichen Vorgaben beruhen, teilweise erhebliche Defizite aufweist. Das mag zum einen auf einem nicht immer sehr ausgeprägten ökologischen Bewusstsein der Bevölkerung in den Mitgliedstaaten beruhen, zum anderen aber auch auf fehlenden Kapazitäten und Kompetenzen der zuständigen Verwaltungen und, auch dies ist zu beklagen, der Gerichte.

Es würde den Rahmen unserer heutigen Veranstaltung bei weitem sprengen, wenn ich den Versuch unternehmen würde, auch nur annähernd den Inhalt des Sekundärrechts im Rahmen der europäischen Umweltpolitik zu skizzieren, das mittlerweile mehrere hundert Rechtsakte umfaßt. Von den allgemeinen oder bereichsübergreifenden Rechtsakten seien insoweit nur schlagwortartig genannt: Die Umweltinformationsrichtlinie, die den Einzelnen grundsätzlich das Recht auf Zugang zu bei mitgliedstaatlichen Behörden vorhandenen Informationen gewährt, die Richtlinie über die Beteiligung der Öffentlichkeit bei der Ausarbeitung bestimmter umweltbezogener Pläne und Programme, die im Zuge der Umsetzung der Anforderungen der Aarhus-Konvention eine frühzeitige und effektive Beteiligung der Öffentlichkeit sicherstellen soll, die Richtlinien zur Umweltverträglichkeitsprüfung, die gewährleissten sollen, daß ausgehend von einem integrierten, über den Schutz nur einzelner Umweltmedien wie Wasser und Luft hinausgehenden Ansatz die Auswirkungen auf die Umwelt insgesamt zu berücksichtigen sind, und auch die Richtlinie über den strafrechtlichen Schutz der Umwelt, die die Mitgliedstaaten verpflichtet, bestimmte umweltschädliche Verhaltensweisen unter Strafe zu stellen. Aus dem Bereich des Gewässerschutzes sind besonders zu nennen die Wasserrahmenrichtlinie zur Schaffung eines Ordnungsrahmens für Maßnahmen der Union im Bereich der Wasserpolitik, die Richtlinie über Umweltqualitätsnormen im Bereich der Wasserpolitik, die das Ziel hat, einen guten chemischen Zustand der Oberflächengewässer zu erreichen, die Richtlinien über die Qualität der Badegewässer, des Wassers für den menschlichen Gebrauch, zum Schutz des Grundwassers, die Behandlung von kommunalem Abwasser oder die Verwendung von Klärschlamm in der Landwirtschaft, nicht zuletzt die Hochwasserschutzrichtlinie zur Bewertung und für das Management von Hochwasserrisiken. Der Luftverschmutzung sollen entgegenwirken die Richtlinie über Luftqualität und saubere Luft für Europa, die Richtlinie über nationale Emissionshöchstmengen für bestimmte Luftschadstoffe; vor Lärm sollen schützen die Richtlinien über umweltbelastende Geräuschimmissionen von zur Verwendung im Freien vorgesehenen Geräten oder auch die Richtlinie über die Bewertung und Bekämpfung von Umgebungslärm. Ferner ist zu erwähnen das Sekundärrecht in den Bereichen Bewirtschaftung und Umweltressourcen, etwa zum Schutz der Ozonschicht oder betreffend ein System für den Handel mit Treibhausgasemissionszertifikaten in der Union und zudem in den Bereichen der Förderung erneuerbarer Energiequellen. Mehrere Rechtsakte zielen in diesem Zusammenhang auf den Schutz der natürlichen Umwelt als solchen ab, wie etwa die Vogelschutz- und die Habitatrichtlinien.
Schließlich ist hinzuweisen auf dasjenige Sekundärrecht, das dem Schutz vor bestimmten gefährlichen Stoffen oder Tätigkeiten dient. Hinsichtlich der gefährlichen Stoffe ist insbesondere das Chemikalienrecht von Bedeutung, dessen Kernstück die sogenannte REACH-Verordnung bildet. “REACH” steht dabei für “Registration, Evaluation and Authorisation of Chemicals”, ein integriertes System für die Registrierung, Anmeldung, Risikobewertung und Zulassung chemischer Stoffe. Wirtschaftsunternehmen, die Chemikalien herstellen oder importieren, werden dadurch verpflichtet, die mit den Chemikalien verbundenen Risiken zu bewerten und Maßnahmen zur Beherrschung der von ihnen erkannten Risiken zu treffen. Ich erinnere an Art. 3 Abs. 3 EUV: Ökonomie, auch risikoträchtige Wirtschaft ja, dabei aber gleichzeitig hohen umweltrechtlichen Standards unterworfen. Ganz ähnlichen Charakter weist die Richtlinie 96/82 zur Beherrschung der Gefahren bei schweren Unfällen mit gefährlichen Stoffen auf, die die nach der Dioxin-Katastrophe von Seveso und weiteren benachbarten Gemeinden nördlich von Mailand im Juli 1976 erlassene Richtlinie 82/501 ersetzt hat und deshalb auch Seveso II – Richtlinie genannt wird: Sie soll, um ein möglichst hohes Schutzniveau zu gewährleisten – schwere Unfälle mit gefährlichen Stoffen verhindern oder zumindest die Unfallfolgen für Mensch und Umwelt begrenzen. Wer von den Älteren unter uns die verheerenden Folgen für Menschen, Tiere und Pflanzen jener Katastrophe noch heute vor Augen hat – und ich glaube, man kann die damaligen Bilder niemals vergessen – , dem wird auf eindrucksvolle Weise der Konflikt zwischen Ökonomie und Ökologie bewußt, mit dem wir uns hier heute beschäftigen.

III. Bewältigung des Konflikts durch das deutsche Umweltschutzrecht

Wir müssen nun das für unser Thema schier unerschöpfliche Europarecht verlassen und tauchen in das deutsche Recht ein. Ich beginne hier mit Art. 20 a des Grundgesetzes, also der deutschen Verfassung. Diese Norm, 1994 in das Grundgesetz eingefügt und später um das Schutzziel “Tierschutz” ergänzt, hat folgenden Wortlaut: “Der Staat schützt auch in Verantwortung für die künftigen Generationen die natürlichen Lebensgrundlagen und die Tiere im Rahmen der verfassungsmäßigen Ordnung durch die Gesetzgebung und nach Maßgabe von Gesetz und Recht durch die vollziehende Gewalt und die Rechtsprechung.” Ähnlich dem schon erwähnten Art. 11 AEUV ist auch Art. 20 a GG eine Querschnittsklausel, die hier in allen Regelungsbereichen der Verfassung zur Anwendung gelangt. Die Bestimmung ist nach herrschender Ansicht nicht nur ein politischer Programmsatz, sondern vielmehr als eine Staatszielbestimmung formuliertes zwingendes Recht, das als Ausdruck des ökologischen Nachhaltigkeitsprinzips auf eine intergenerationelle Gerechtigkeit abzielt, auf Ressourcenschonung, auf eine vorausschauende, zukunftsgerichtete Umweltpolitik. In erster Linie ist Adressat dieser Verfassungsnorm die parlamentarische Gesetzgebung, da, wie wir gehört haben, Umweltschutz durch die Exekutive und Judikative lediglich “nach Maßgabe von Gesetz und Recht” erfolgt. Mit anderen Worten geschieht eine rechtliche Maßstabsbildung, die die Exekutive und auch die Judikative zur selbständigen Durchsetzung ökologischer Ziele berechtigt, grundsätzlich erst durch Gesetz. Eine Pflicht des Gesetzgebers zur prozessualen Optimierung durch Einführung eines Verbandsklagerechts ist dieser Norm nicht zu entnehmen, ebenso wenig ein allgemeines Grundrecht auf Umweltschutz im Sinne eines selbständigen Individualrechts auf Schaffung oder Erhaltung einer sauberen Umwelt. Wohl aber wird in Deutschland diskutiert, aus dem verfassungsgerichtlich anerkannten Anspruch auf ein menschenwürdiges Existenzminimum auch einen Anspruch auf die Einhaltung ökologischer Mindeststandards abzuleiten, der dann, wenn Umweltbelastungen über die ubiquitären Beeinträchtigungen hinaus die physische oder psychische Integrität des Menschen in entwürdigender Weise beeinträchtigen, zu einem staatlich zu gewährenden Schutz vor entwürdigenden Umweltbedingungen führen soll.

Was in Deutschland die Gesetzgebungskompetenzen und deren gesetzgeberische Wahrnehmung anlangt, mangelt es an zunächst einer einheitlichen Kompetenzgrundlage für den Umweltschutz. Ein allgemeiner Kompetenztitel “Recht des Umweltschutzes” fehlt; stattdessen finden sich eher mosaikartige Kompetenzzuweisungen an den Bundesgesetzgeber etwa in der ausschließlichen Gesetzgebungskompetenz für das Atom- und Strahlenschutzrecht oder – dies ist eine Besonderheit unseres deutschen föderalen Systems – in der zwischen Bund und Ländern konkurrierenden, um es schlagwortartig zu sagen: dem Bund den Vorrang einräumenden Gesetzgebung auf dem Gebiet des Rechts der Wirtschaft, das mit den ausdrücklich aufgeführten Teilkompetenzen für “Bergbau, Industrie, Energiewirtschaft” qualifiziert umweltrelevante Kompetenztitel umfasst.

Von der ferner bestehende konkurrierenden Gesetzgebungskompetenz auf dem Gebiet der Luftreinhaltung und Lärmbekämpfung sowie weiterer Kompetenzzuweisungen hat der Bund durch den Erlass des Bundesimmissionsschutzgesetzes Gebrauch gemacht, das Menschen, Tiere und Pflanzen, den Boden, das Wasser, die Atmosphäre sowie Kultur- und sonstige Sachgüter vor schädlichen Umwelteinwirkungen schützen und dem Entstehen schädlicher Umwelteinwirkungen vorbeugen soll. Dazu werden u. a. bestimmte gewerblichen Zwecken dienende oder im Rahmen wirtschaftlicher Unternehmungen Verwendung findende Anlagen mit besonderem Beeinträchtigungspotenzial einer Genehmigungspflicht unterworfen und die Erteilung der notwendigen Genehmigung von der Erfüllung strenger Voraussetzungen abhängig gemacht. Die komplexe Interessenlage, die in unserem heutigen Thema angesprochen wird, ja sogar ein wirkliches Dilemma bei der Errichtung und dem Betrieb wirtschaftlich genutzter industrieller Anlagen tritt hier offen zutage: Das Gesetz soll einerseits einen gerechten Ausgleich schaffen zwischen den Umweltschutzinteressen, die durch die grundrechtlichen Schutzpflichten des Staates für Leben und körperliche Unversehrtheit der Bevölkerung noch verstärkt werden, und andererseits auch den ebenfalls grundrechtlich, nämlich durch die Berufsfreiheit und die Eigentumsgarantie, geschützten Interessen der Vorhabenträger und Anlagenbetreiber Rechnung tragen, die, um deren Sichtweise salopp zu formulieren, mit ihrem Steueraufkommen effektiven Umweltschutz erst ermöglichen und sich oftmals darauf berufen, zu viel Umweltschutz wirke sich investitions- und innovationshemmend aus.

Das ebenfalls zur konkurrierenden Gesetzgebung zählende Bodenrecht bildet die Grundlage für das bundesrechtliche Baugesetzbuch, das eine der in der praktischen Anwendung bedeutsamsten Quellen des materiellen Umweltrechts darstellt. Es verpflichtet die Gemeinden bei der Aufstellung der Bauleitpläne u. a. dazu, sowohl die Belange der Wirtschaft – dazu gehören auch die Erhaltung, Sicherung und Schaffung von Arbeitsplätzen – als auch die Belange des Umweltschutzes einschließlich des Naturschutzes und der Landschaftspflege zu berücksichtigen und sie gegeneinander und untereinander gerecht abzuwägen. Dabei ist ausdrücklich gesetzlich bestimmt, daß mit Grund und Boden sparsam und schonend umgegangen werden soll. Möglichkeiten zur Wiedernutzbarmachung von Flächen sind zu nutzen; Bodenversiegelungen auf das notwendige Maß zu begrenzen. Landwirtschaftlich, als Wald oder für Wohnzwecke genutzte Flächen sollen nur im notwendigen Umfang umgenutzt werden. Schon bei der Aufstellung der gemeindlichen Bauleitpläne ist für die Belange des Umweltschutzes eine Umweltprüfung durchzuführen, deren Ergebnis in der Abwägung der widerstreitenden Belange zu berücksichtigen ist.

Der Kompetenztitel des Bodenrechts bildet auch die Grundlage für nichtbauliche Nutzungsformen des Bodens, namentlich für das Bundesbodenschutzgesetz, das den Zweck hat, nachhaltig die Funktionen des Bodens zu sichern oder wiederherzustellen. Hierzu sind schädliche Bodenveränderungen abzuwehren, der Boden und Altlasten zu sanieren und Vorsorge gegen nachteilige Einwirkungen auf den Boden zu treffen.

Eine besondere ökologische Bedeutung bei der übergreifenden, räumlichen Gesamtplanung kommt auch der auf den der konkurrierenden Gesetzgebung unterfallenden Raumordnung zu, der sich der Bundesgesetzgeber in Gestalt des Raumordnungsgesetzes angenommen hat. Während die örtliche Bauleitplanung gleichsam auf einer Mikroebene Konflikte zwischen Ökonomie und Ökologie erkennen, bewerten und lösen muß, soll die Raumplanung großflächig und sozusagen auf der Makroebene Umweltschutz hier und konkurrierende ökonomische Interessen dort zum Ausgleich bringen. Dazu sind der Gesamtraum der Bundesrepublik Deutschland und seine Teilräume durch zusammenfassende, überörtliche und fachübergreifende Raumordnungspläne zu entwickeln, zu ordnen und zu sichern; die sozialen und wirtschaftlichen Ansprüche an den Raum sind mit seinen ökologischen Funktionen in Einklang zu bringen.

Auf die nähere Beleuchtung weiterer umweltrechtlich geprägter Kompetenztitel im deutschen Grundgesetz und ihrer Nutzbarmachung durch den Gesetzgeber muß ich aus Zeitgründen ebenso verzichten wie auf eine Darstellung des Umweltschutzrechts der einzelnen Bundesländer.

IV. Verwaltungsgerichtlicher Rechtsschutz

In Deutschland ist der verwaltungsgerichtliche Rechtsschutz, der das Ziel hat, zu überprüfen, ob Verwaltungsentscheidungen mit dem Umweltrecht in Einklang stehen, weit ausgeprägt. Mit dem Umwelt-Rechtsbehelfsgesetz vom 7. Dezember 2006 ist für Umweltvereinigungen die Möglichkeit eröffnet, im Wege einer Verbandsklage gegen die Zulassung insbesondere von Industrieanlagen und Infrastrukturmaßnahmen vorzugehen und die Verletzung umweltrechtlicher Vorschriften zu rügen. Damit ist der bei mancher unserer zurückliegenden Tagungen diskutierte eherne Grundsatz des deutschen Verwaltungsprozessrechts, wonach nur derjenige klagebefugt ist, der die Verletzung eigener Rechte geltend machen kann, durchbrochen. Gleichwohl und unabhängig davon ist nach wie vor die Anzahl derjenigen Verfahren, in denen sich einzelne Betroffene, zumeist Nachbarn der geplanten Anlagen und Maßnahmen, vor den Verwaltungsgerichten gegen umweltrelevante Behördenentscheidungen zur Wehr setzen, beträchtlich. Ich denke nur an die Normenkontrollklagen gegen Bebauungspläne, die mit der Begründung angegriffen werden, die von der Gemeinde vorgenommene Abwägung der widerstreitenden Belange sei wegen einer defizitären Berücksichtigung des Umweltschutzes fehlerhaft, oder an Klagen gegen die Zulassung von Kraftwerken, Windenergieanlagen oder – in letzter Zeit zunehmend – von geruchsintensiven Schweine- und Hähnchenmastanlagen, allesamt Prozesse, die die Verwaltungsgerichtsbarkeit vor große Herausforderungen stellen.

V. Schlussbetrachtung

Zu Beginn meines Referats habe ich Ihnen in Aussicht gestellt, Ihnen meine persönliche Ansicht zum Konflikt zwischen Ökonomie und Ökologie zu offenbaren. Ich leite diese Auffassung ab aus einer der Grundeinstellungen des von mir hochverehrten Albert Schweitzer, dessen Geburtsort Kaysersberg im Elsass wir vor einigen Jahren mit unseren französischen Freunden besucht haben, und sie heißt für mich: Ehrfurcht vor dem Leben. Das bedeutet: Respekt vor der Schöpfung, Verantwortung auch für das Erbe, das wir unseren Kindern und Enkeln hinterlassen werden, und die Einsicht, dass wir nur diesen einen Planeten haben. Dabei ist auch Bescheidenheit in unseren Ansprüchen angebracht gegenüber dem, was wir von unserem eigenen Leben erwarten. Es lohnt sich, darüber nachzudenken, welches Kind wirklich glücklicher sein wird: Dasjenige Kind, das auf dem Kreuzfahrtschiff eine 300 Meter lange Wasserrutsche hinuntergleitet, während seine Eltern auf demselben Schiff Golf spielen oder sich anderweitig vergnügen, oder dasjenige Kind, das gemeinsam mit seinen Eltern einen Tag am Meer verbringt, in den Bergen wandert oder einfach auch nur zu Hause ein Spiel macht, bei dem es lachen und unbeschwert sein kann.

Ich danke Ihnen für Ihre Aufmerksamkeit.

Joachim Becker

Relazione tedesca del prof. dr. Dieter Kugele – Potsdam – 10/10/2014

Die Rolle von Verwaltungsrichtern und der Einfluss der Politik auf ihre Tätigkeit – Funktion – Ernennung/Beförderung

Prof. Dr. Dieter Kugele, RiBVerwG a.D.

Sehr verehrte Damen und Herren, liebe Kolleginnen und Kollegen,

lassen Sie mich zum Auftakt eine Geschichte erzählen.

Als junger Regierungsrat war ich Mitte der 70er Jahre einem Oberlandesanwalt beim Bayerischen Verwaltungsgerichtshof als wissenschaftlicher Mitarbeiter zugeteilt. Oberlandesanwälte vertraten damals in Bayern den beklagten Staat vor den Verwaltungsgerichten.

In einem Verwaltungsstreitverfahren ging es im Zuge einer Neuordnung der bayerischen Landkreise um die Frage, ob der Donau-Flusshafen weiterhin der Stadt Regensburg zugeordnet werden sollte. Denn er war zuvor weit über die Stadtgrenze hinaus auf das Gebiet des Landkreises Regensburg ausgedehnt worden. Die Entscheidung hatte einen bedeutenden Einfluss auf die Gewerbesteuereinnahmen der beiden Gebietskörperschaften. Auf Ladung des Gerichts fand eine Ortsbesichtigung statt. In der Mittagspause saßen die Verfahrensbeteiligten gerade in einer Gastwirtschaft zusammen, als der Senatsvorsitzende und zugleich Präsident des Gerichts vom Wirt zum Telefon gerufen wurde. Nach wenigen Minuten kam er mit hochrotem Gesicht an den Tisch zurück. Er machte seinem Ärger Luft und erzählte uns, was vorgefallen war: Ein hochgestellter politischer Amtsträger habe ihm am Telefon verdeutlicht, dass es nur eine richtige Entscheidung geben könne. Der Präsident solle Einfluss auf seine Richter nehmen. Das könne man von ihm erwarten. Schließlich habe er seine berufliche Stellung der Landesregierung zu verdanken.

Wie ist ein solcher Vorgang zu bewerten?

Ein derartiger Telefonanruf eines Parlamentsmitglieds und hochgestellten Parteifunktionärs beim zuständigen Richter während eines laufenden Verfahrens passt zunächst in das Nomenklatursystem (1) des Einparteienstaates. Dort herrscht keine Gewaltenteilung. Vielmehr müssen sich alle staatlichen Einrichtungen dem Erkenntnismonopol der Einheitspartei unterwerfen.(2) Diejenigen unter Ihnen, verehrte Kolleginnen und Kollegen, die in der DDR aufgewachsen sind,werden sich an dieses System der Unterdrückung des freien politischen Ideenwettbewerbs erinnern.

Im gewaltenteilenden Rechtsstaat ist eine solche Einmischung in einen laufenden Verwaltungsrechtsstreit natürlich ein absolutes No-Go. Sie ist auch nicht dadurch gerechtfertigt, dass die politischen Parteien an der politischen Willensbildung des Volkes mitwirken (Art. 21 Abs. 1 Satz 1 GG). Dies gilt auch für den geschilderten Fall, obgleich die gebietsrechtliche Zuordnung des Flusshafens wegen der Gewerbesteuerfrage nicht nur eine rechtliche, sondern auch eine sehr politische Frage war.

Der geschilderte Versuch unzulässiger politischer Einflussnahme war wenig intelligent, sodass er schon wegen seiner unverblümten und dummen Plumpheit scheitern musste. Dazu ist das Selbstbewusstsein der deutschen Richterschaft seit Gründung der Bundesrepublik viel zu gefestigt. Allerdings wird man ein derartiges rechtsstaatliches Fehlverhalten letztlich nie verhindern können. Ich kann jedem Richter nur raten, solchen Druckkulissen zu widerstehen, einen Aktenvermerk über das Gespräch zu fertigen, den eigenen Spruchkörper und, in krassen Fällen, den Gerichtspräsidenten zu informieren.

Den thematischen Schwerpunkt unserer Tagung sehe ich in solchen Vorgängen allerdings nicht. Ich möchte mich vielmehr mit den systemischen Möglichkeiten politischer Einflussnahme beschäftigen.

So komme ich jetzt zu der Frage, warum das Tagungsthema besonders für Verwaltungsrichter zu jeder Zeit brisant ist.

Verwaltungsrichter genießen, wie alle staatlichen Richter sachliche und persönliche Unabhängigkeit; sie sind nur dem Gesetz unterworfen (Art. 97 Abs. 1 GG).

Die sachliche Unabhängigkeit bedeutet, dass sie in ihrer Entscheidung und deren Vorbereitung frei von äußeren Einflüssen sind.(3) Dazu gehören alle richterlichen Handlungen, die in einem konkreten Verfahren zur Rechtsfindung gehören.(4) Der Verwaltungsrichter unterliegt bei der Durchführung dieser Aufgaben keinerlei Weisungsbefugnis.(5) Er ist wegen der in der Verfassung verankerten richterlichen Unabhängigkeit aus der im demokratischen System sonst notwendigen personellen Legitimationskette herausgelöst.6 Die Legitimation der Richtermacht beruht insoweit unmittelbar auf der Verfassung.

Untersagt sind schließlich auch jegliche Einflussnahmen anderer Art, etwa Bitten, Anregungen oder Empfehlungen, z.B. des Gerichtspräsidenten oder eines Kollegen, vor allem aber jede Art von Druck, etwa fallbezogene Vorhaltungen oder Maßregelungen,(7) sowie mittelbar wirkende Maßnahmen, z.B. unsachgemäße Mittelzuweisungen an die Gerichte.(8)

Im Bereich der persönlichen Unabhängigkeit(9) ist der Richter vor persönlichen Sanktionen wegen missliebiger Entscheidungen geschützt.(10) Schutzwirkung etwa hat die grundsätzlich lebenslängliche Anstellung und das Verbot, ihn gegen seinen Willen zu versetzen. Ohne sachliche Rechtfertigung kann er auch nicht von einer Streitsache abgezogen werden. Ich brauche das nicht näher auszuführen; sie sind alle Richterinnen und Richter und ich will keine Eulen nach Athen tragen.

Was ist aber nun das Besondere an der Rolle des Verwaltungsrichters im Vergleich zu anderen Richtern? In unseren Heimatländern ist die Teilung der staatlichen Gewalten im Grundsatz verwirklicht. In Deutschland muss man allerdings eher von gegenseitiger Kontrolle, Hemmung und Mäßigung der Gewalten sprechen.(11) Eine strikte Gewaltenteilung existiert nicht. Man kann das schon daran erkennen, dass die Berufsrichter von Organen der Legislative oder Exekutive ausgewählt werden, obgleich sie mit ihrer judikativen Tätigkeit der Dritten Gewalt zugeordnet sind. Ich will nicht so weit gehen und sagen, dass dadurch der Richtervorbehalt (Art. 92 GG) und das daraus abgeleitete Rechtsprechungsmonopol(12) verletzt werden. Auch der Grundsatz der organisatorischen Selbständigkeit der Gerichte(13) wird nicht angetastet. Ebenso wird nicht unmittelbar in die richterliche Unabhängigkeit eingegriffen.(14)

Da der Gewaltenteilungsgrundsatz in Deutschland nicht strikt verankert ist, verstoßen die Beteiligung parlamentarischer Wahlausschüsse und die Mitwirkung der Exekutive bei der Auswahl der Richter nicht gegen Verfassungsrecht. Entscheidend ist aber, dass die Mitglieder des Wahlausschusses in die Lage versetzt werden, das Prinzip der Bestenauslese tatsächlich zu verwirklichen, und dass sie das auch wirklich tun.

Was die Auswahl der Richter ohne Einschaltung eines parlamentarischen Richterwahlausschusses, sondern ausschließlich durch die Exekutive betrifft, so z.B. in Bayern, wird man allerdings kaum sagen können, die Ernennung oder Beförderung eines Richters sei ein Akt der Gerichtsverwaltung, also Bestandteil exekutiver Aufgabenerfüllung. Das mag für das reindienstrechtliche Ernennungs-Procedere gelten. Es gilt aber nicht für den materiell-rechtlichen Inhalt einer Auswahlentscheidung. Denn hierbei geht es um die Durchsetzung des verfassungsrechtlichen Grundsatzes der Bestenauslese (Art. 33 Abs. 2 GG).

Bei der Ernennung und Beförderung von Richtern ausschließlich durch Organe der politischen Exekutive erfasst mich allerdings trotz verfassungsrechtlicher Unbedenklichkeit schon immer ein Gefühl des Unbehagens. Das gilt besonders für die Ernennung und Beförderung von Verwaltungsrichtern. Denn zu ihrem „Kundenkreis“ gehört in großem Umfang die öffentliche Hand. Verwaltungsrichter müssen gegebenenfalls die Kuh schlachten, von deren Milch sie leben. Das ist wie ein Kampf mit Skylla oder Charybdis. Darin liegt der erste Teil der Besonderheit der Tätigkeit des Veraltungsrichters.

Der zweie Teil der Besonderheit liegt in der demokratischen Legitimationskette, in die der öffentlich- rechtliche “Kundenkreis“ des Verwaltungsrichters eingebunden ist. Seine Institutionen unterstehen unmittelbar oder mittelbar der politischen Entscheidungsebene. Die wiederum hat sich ihrerseits gegenüber dem Volkssouverän zu verantworten. In dieser Verantwortungskette liegt der wunde Punkt: Die Meinungsbildung auf der politischen Entscheidungsebene unterliegt nämlich völlig anderen Kautelen als die Entscheidungen eines gerichtlichen Spruchkörpers. Ich will damit nicht sagen, dass politische Entscheidungen nicht sachbezogen wären. Was mich aber beunruhigt, ist, dass sie häufig zusätzlich rein politischen Zwängen unterliegen, die in der Sache nicht gerechtfertigt sind, etwa aufgrund eines Kompromisses im Koalitionsvertrag oder aufgrund eines landesweit als wichtig eingestuften Ereignisses.

Denken Sie nur an Fukushima und die germanische Angstphobie. Beide haben – sozusagen von jetzt auf gleich – zum Beginn des Ausstiegs aus der Atomkraft geführt. Das war sachlich kein sofort notwendiger Schritt. Es war aber ein hoch politischer Schritt zur Machterhaltung. Richter müssen Emotionen bei Ihren Entscheidungen ausklammern. Politiker dürfen sie insbesondere dann nicht außer Acht lassen, wenn es sich um einen Mainstream handelt. Tun sie es dennoch, riskieren sie den Machtverlust.

Denken Sie an die derzeit in Deutschland heftig diskutierte Einführung einer Straßenmaut. Begonnen hat die Heftigkeit dieser Diskussion im letzten Bundestags-Wahlkampf. Der Bayerischen CSU ist es mit dem Vorschlag einer Straßenmaut für Ausländer gelungen, die Stammtische zu erobern. Die Partei hat bei der Wahl ein gutes Ergebnis eingefahren. So konnte sie das Maut-Thema zum Gegenstand des Koalitionsvertrages machen.

Auf ministerieller Arbeitsebene hat man dann aber erkannt, dass eine bloße Autobahnmaut ein betriebswirtschaftliches Nullsummenspiel werden würde. Also hat man das Ganze neu etikettiert. Derzeit ist ein für die Nutzung aller Straßen geltender Infrastrukturbeitrag das Gesetzesziel. Diese Lösung wirft schwierige Fragen auf, die bisher nicht geprüft worden sind. Käme es allerdings zu einem solchen Gesetz, dann würde schon der erste verwaltungsgerichtliche Prozess ein viel beachtetes Verfahren sein. In solchen Fällen gilt dann der Satz: „Vae victis!“ Die Frage ist nur, ob zu den Besiegten auch die beteiligten Verwaltungsrichter gehören.

Die Entscheidungsprozesse politischer Akteure laufen wegen der existentiellen Berücksichtigung öffentlicher Befindlichkeiten anders ab als Entscheidungsprozesse eines gerichtlichen Spruchkörpers. Die einen stehen unter öffentlicher Überwachung. Die andern genießen die Abgeschiedenheit des abgesperrten Beratungszimmers. Die einen werden nicht wieder gewählt. Die andern werden allenfalls von der nächst höheren Instanz aufgehoben. Daher wird es immer so sein, dass politische Instanzen, die Einfluss auf Karriere und Tätigkeit der Verwaltungsrichter haben, in erster Linie politisch denken, taktieren und agieren.

Wir kennen alle das öffentliche Gezerre um politische Ämter. Eine besondere Art Tauschbasar findet bei der Vergabe hoher Richterämter im Bundesdienst statt. Es geht um den Länderproporz, den Parteienproporz und natürlich letztlich auch um Qualität. Was die Qualifikation der Kandidaten betrifft, mache ich mir im Prinzip keine Sorgen. Die Dienstherren der Länder oder des Bundes sind ja selbst daran interessiert, besonders geeignete Personen in den Wahlgang zu schicken.

Die Frage ist nur, ob ein parlamentarischer Wahlausschuss praktisch in der Lage ist, den besten Kandidaten auszusuchen. Ich zweifle sogar daran, dass er diesen Grundsatz überhaupt auf seinem Schirm haben kann. Ich denke, dass die Bestenauslese in den Ländern stattfindet. Nur dort können die Bewerber nach Eignung, Befähigung und fachlicher Leistung sachkundig ausgesucht werden. Im Wahlausschuss selbst steht der Länderproporz im Vordergrund (Art. 36 Abs. 1 Satz 1 i.V.m. Art. 95 Abs. 2 GG).(15) Nach dessen Vorgaben werden die Weichen für den bevorstehenden Wahlgang bereits am inoffiziellen Vorabend der Auswahlentscheidung gestellt. Würde der Grundsatz der Bestenauslese tatsächlich im Wahlausschuss zur Anwendung kommen, dann stünden sich Kandidaten gegenüber, deren Qualifikation in den einzelnen Ländern nach nicht ohne weiteres kompatiblen Kriterien festgestellt worden ist.

Eine verfassungsfeste Vergleichbarkeit wäre wegen der immer noch bestehenden föderalen Unterschiedlichkeiten derzeit nur sehr schwer herstellbar. Nicht zu Unrecht hat die frühere Justizministerin Däubler-Gmelin die Auffassung vertreten, dass der Grundsatz der Bestenauslese im Richterwahlausschuss von Bundestag und Bundesrat keine Bedeutung habe. Das ist natürlich für einen streng im Sinne des Grundsatzes der Bestenauslese Denkenden starker Tobak.

Tatsächlich müssen wir uns aber damit abfinden, dass die Bestenauslese bei der Wahl der Bundesrichter in den Ländern stattfindet. Das ist die logische Konsequenz des Länderproporzes. Es wird daher bei der Bundesrichterwahl nicht der Beste gewählt, sondern der Beste aus Bayern oder aus Thüringen oder aus Hamburg.(16) Richter des Bundesverfassungsgerichts wird entsprechend der vermeintlich Beste auf Vorschlag einer politischen Partei, die an der Reihe des Vorschlagsrechts ist. Das ist die logische Konsequenz des Parteienproporzes.

In den Richterwahlausschüssen der Länder ist die Sache weniger kompliziert. Allerdings kann sich auch dort der Virus der parteipolitischen Ämterpatronage durchsetzen. In aller Regel wird man auch hier Tauschgeschäfte machen.

Es geht aber nicht nur um das unterschiedliche Rollenverhalten politischer und nicht politischer Instanzen. Es muss – wie schon gesagt – bedacht werden, dass der Verwaltungsrichter über Maßnahmen seines eigenen Dienstherrn entscheidet. In vielen Fällen kann er seine Entscheidungen auf den Gesetzeswortlaut stützen. Gerade infolge des hoch entwickelten Abstraktionsprinzips des deutschen Rechts mit zahllosen unbestimmten Rechtsbegriffen und mit kognitiven sowie voluntativen Interpretationsspielräumen steht man allerdings vor einem weiten Feld der Überraschungen. Sage mir niemand, dass gerade bei der Ermessensinterpretation oder dem Ausloten eines Beurteilungsspielraums zwischen administrativer Prärogative und richterlicher Entscheidungskompetenz im Einzelfall niemals zumindest auch ein politischer Vorgang stattfindet. Und dieser Vorgang hängt natürlich auch vom Zeitgeist ab, wenn es der maßgebliche materiell-rechtliche Entscheidungszeitpunkt zulässt.

Lassen Sie mich, um das „Politische“ bei der Auslegung unbestimmter Rechtsbegriffe plastisch zu machen, ein Beispiel aus der Rechtsprechung nennen:

Ein Richter in Frankfurt am Main war wegen seiner polyglotten Begabung jahrelang mit schiedsrichterlichen Verfahren international agierender Konzerne im Rahmen von Nebentätigkeitsgenehmigungen beschäftigt. Seine amtlichen Aufgaben hat er nie vernachlässigt. Niemand hat sich daran gestört, dass sein Honorar nach dem Gegenstandswert ermittelt wurde. Es war manchmal höher als seine Richterbezüge.

Das ging gut, bis etwas Hochpolitisches geschah, an dem dieser Richter gar nicht beteiligt war:

Ein anderer Richter nämlich, der Präsident eines anderen Gerichts in Frankfurt am Main, erzielte für ein Gutachten ein Millionenhonorar. Der Vorgang wurde in der Bildzeitung mit großer Überschrift angeprangert. Politik und Neider heulten auf. Man forderte den Präsidenten auf, das „Schandhonorar“ zurückzuzahlen. Der wollte nicht und verschwand mit der Million in den Ruhestand.

Dieses Ereignis wurde skandalisiert und führte dazu, dass die Nebentätigkeitsverordnung des Landes geändert wurde. Man führte eine Verdienstobergrenze ein. Das traf auch den Richter in Frankfurt. Das Bundesverwaltungsgericht hielt die Verdienstobergrenze für zulässig, weil sie dazu dienen könne, einen bösen Schein vom öffentlichen Dienst fernzuhalten.(17)

Sachlich betrachtet waren die Honorare nicht zu beanstanden. Sie wurden vereinbarungsgemäß jeweils auf der Grundlage der damaligen Gebührenordnung ermittelt. Die Höhe des Honorars lässt außerdem in diesen Fällen keine Rückschlüsse auf den benötigten Zeitaufwand zu. Gerade dieser Gesichtspunkt ist aber in aller Regel das wichtigste Kriterium, um beurteilen zu können, ob der Richter sich im Rahmen seiner Nebentätigkeitsgenehmigung bewegt hat.

Politisch aber wirkte das Millionenhonorar elektrisierend, zumal in den Jahren der wirtschaftlichen Depression. Da bot sich dem Bundesverwaltungsgericht der wahrlich kryptische Begriff des bösen Anscheins aus dem Beamtenrecht an. Dieser Begriff, der noch aus der Kaiserzeit stammt, wurde aus der Truhe geholt und die Sache war entschieden. Bis zu diesem durch die Presse skandalisierten Ereignis entsprach der Zeitgeist dem Grundsatz, dass öffentlich Bedienstete im Rahmen genehmigter Nebentätigkeiten das Honorar erhalten durften, das ihnen nach den einschlägigen Bestimmungen zustand. Erst der Weckruf des Millionenhonorars brachte ein Upgrade des Zeitgeistes. Gelobt sei der unbestimmte Rechtsbegriff.

Lassen Sie mich jetzt noch etwas zum Verständnis des Begriffes „Dienstherr“ sagen. Dabei handelt es sich um einen abstrakten Rechtsbegriff. Dieser wird mit Blick auf den praktischen Vollzug der Bestenauslese erst konkret, wenn er personifiziert ist. Denn hinter dem Dienstherrn steckt ein Beamter, ein Mensch also mit Intellekt und Emotionen. Da kann eine Gerichtsentscheidung in der Exekutive schon mal Ärger verursachen. Diesen trägt der betroffene Ministerialdirektor weiter und lebt ihn bei Gelegenheit als Argument gegen eine Beförderung des entsprechenden Richters aus. Sie kennen ja den Spruch: “Semper aliquid haeret.“

Ich komme zu einem Resümee:

Für eine verfassungsgerechte Ernennung und Beförderung ist entscheidend, dass der Grundsatz der Bestenauslese berücksichtigt wird. Nach Art. 33 Abs. 2 GG hat jeder Deutsche nach seiner Eignung, Befähigung und fachlichen Leistung gleichen Zugang zu jedem öffentlichen Amt. Die Verfassung macht dem Dienstherrn keine Vorschriften, mit welcher Methode und mit welchem Verfahren diesem grundrechtsgleichen Anspruch entsprochen wird. Es spielt daher aus diesem Gesichtspunkt keine Rolle, ob die Auswahlentscheidung ein parlamentarischer Wahlausschuss auf der Grundlage eines Vorschlags der Exekutive trifft oder ob der Richter von der Exekutive allein ausgesucht und ernannt wird oder ob es ein Auswahlverfahren gibt, an dem weder die Legislative noch die Exekutive beteiligt sind: etwa eine Auswahl der Richter durch ein Richterkollegium.

Mit meinen Bedenken am praktischen Vollzug der derzeitigen Bestenauslese bin ich nicht allein. Die Auswahl der Richter, insbesondere im Bundedienst, ist immer wieder ein Thema, das gelegentlich hochkocht.

Das Auswahlverfahren allein durch Organe der Exekutive ist – von normalen Fehlentscheidungen im Einzelfall abgesehen – in Allgemeinen nicht zu beanstanden, soweit für den Qualifikationsvergleich der Bewerber um ein Richteramt sogenannte harte Vergleichsmaßstäbe vorhanden sind und eingesetzt werden. In aller Regel sind das die Examensnoten, manchmal zusätzlich noch das Ergebnis eines Assessments, sowie Jahre nach der Einstellung für eine Beförderung die dienstlichen Beurteilungen. Auch herausragende wissenschaftliche Leistungen können ein Auswahlkriterium sein.

Zwar sind diese Verfahren durchaus fehleranfällig, sie sind aber durch Gerichte nachprüfbar. Das bedeutet, dass in dem Bereich, in dem die Kandidaten der Regelbeurteilung unterliegen, politische Ämterpatronage und Nepotismus für Verursacher sowie für Teilnehmer gleichermaßen gefährlich sind. In diesem Bereich ist allerdings auch das Interesse der Politik an einer konkreten Personalentscheidung eher gering. Das heißt, dass der Zugang zum Verwaltungsrichteramt in der Eingangsinstanz für unser Thema, jedenfalls was Deutschland betrifft, weniger interessant ist. Das gilt in aller Regel auch für die nächst höhere Stufe, das Amt des Vorsitzenden Richters am Verwaltungsgericht und des Richters am Oberverwaltungsgericht.

Weniger transparent sind Beförderungsverfahren in höhere Richterämter dann, wenn die Bewerber keine aktuellen dienstlichen Beurteilungen vorweisen können, weil sie der Regelbeurteilung nicht mehr unterliegen. Zwar gilt auch bei den Vorsitzenden Richtern am Oberverwaltungsgericht der Grundsatz der Bestenauslese, der sich materiell-rechtlich nicht von den Kriterien unterscheidet, die für die Richter gelten, die der Regelbeurteilung noch unterliegen. In aller Regel kann man sich mit einer Anlassbeurteilung behelfen, die die bisherige durch ältere aber noch verwertbare Regelbeurteilungen bewiesene berufliche Qualifikation nachzeichnet. Im Ergebnis sehe ich auch in diesem Bereich grundsätzlich zwar keine systemischen Probleme, wohl aber bereits eine abstrakte Gefährdung des Grundsatzes der Bestenauslese. Denn Anlassbeurteilungen sind, und das weiß jeder, der mit Personalrecht zu tun hat, nicht selten wie Trauerreden. Es wird der Himmel herunter gelogen.

Stellt sich noch die Frage, wie sich die Dinge bei den Ämtern der Präsidenten- und Vizepräsidenten, insbesondere der Oberverwaltungsgerichte und erst recht des Bundesverwaltungsgerichts, verhalten. Hier spricht die politische Exekutive auf jeden Fall und oft auf höchster Ebene mit. Erschwerend kommt hinzu, dass es in einem gerichtlichen Verfahren in der Praxis schwer sein dürfte, einen Qualifikationsvergleich sachgerecht durchzuführen. Denn hier ist das politische Ermessen so stark ausgeprägt, das letztlich de facto keine materiell-rechtliche, sondern nur eine verfahrensrechtliche Bestenauslese stattfinden kann. Das zeigen jedenfalls die Beispiele aus der höchstrichterlichen Rechtsprechung, deren Entscheidungen auf dieser Ämterebene ausnahmslos Fehler des Verfahrens im Blick haben.

Es darf natürlich nicht übersehen werden, dass die Präsidenten der Verwaltungsgerichte aller Stufen hauptsächlich exekutive Aufgaben der Gerichtsverwaltung zu erfüllen haben. Zwar schließen sie sich einem Spruchkörper ihrer Wahl an, doch ist nach den Geschäftsverteilungsplänen in aller Regel dafür Sorge getragen, dass die Präsidenten mit judikativer Arbeit nicht überlastet werden. Lediglich an kleineren Gerichten und auf besonderen Wunsch des Amtsinhabers kann anderes gelten. Für die Ämter der Vizepräsidenten gilt ähnliches. Besonders an personell starken Gerichten – auch in der Eingangsstufe – erfordert die zeitraubende Aufgabe der Führung und Beaufsichtigung des nichtrichterlichen Personals Fingerspitzengefühl und Lebenserfahrung. Bei diesen Ämtern ist es schon fraglich, nach welchen Kriterien die Bestenauslese stattfinden sollte. Allein ein guter Richter zu sein, garantiert nicht, dass er auch Personal führen und das Gericht in der Öffentlichkeit sachgerecht vertreten kann.

Andererseits darf der Einfluss der Gerichtspräsidenten nicht zu gering bewertet werden. Immerhin gehört es zu ihren Aufgaben, die Richter dienstlich zu beurteilen und dem Ministerium diejenigen vorzuschlagen, die sie für eine Beförderung für geeignet halten. Allein in diesem Vorschlagsrecht liegt ein hohes Potential zur parteipolitischen Ämterpatronage. Das gilt vor allem dann, wenn der Amtsinhaber der politischen Partei des Ministers nahe steht. Zudem sind starke Persönlichkeiten vor allem nach längerer Dienstzeit in der Lage, auch Präsidium und Richterrat für ihre Personalvorschläge zu gewinnen.

Praktisch betrachtet macht es daher schon Sinn, dass die Exekutive bei der Auswahl der Gerichtspräsidenten entscheidet. Mein Unbehagen beruht allerdings darin, dass niemand wirklich nachprüfen kann, nach welchen Kriterien die Auswahl erfolgt. Ich denke, dass der Satz gilt: Nicht der Beste wird ausgewählt, sondern der Beliebteste. Fatal ist allerdings, dass der Liebhaber immer derselbe ist, namentlich die politische Exekutive.

Hierzu – eher am Rande – eine kleine Geschichte: Ein Richterkollege am Bayerischen Verwaltungsgerichtshof erzählte mir beim Mittagessen, er sei gerade auf dem Ticket der SPD zum Landesverfassungsrichter gewählt worden. Staunend erinnerte ich ihn, dass er mir gesagt habe, bereits vor 10 Jahren aus der SPD ausgetreten zu sein. Das treffe zu, antwortete der Kollege, das sei jedoch in der SPD wohl niemandem aufgefallen.

Letztlich müssen wir im Fall der Auswahl dieser Amtsträger davon ausgehen, dass die Auswahlentscheidungen kaum transparent sind. Dennoch halte ich dies im Grundsatz für akzeptabel. Auch hierzu zwei aktuelle Beispiele:

In diesem Sommer wurden die Spitzenämter des Bundesgerichtshofs und des Bundesverwaltungsgerichts neu besetzt. Schon vor vielen Jahren ist in der CDU der Wunsch geäußert worden, die Spitze des Bundesverwaltungsgerichts mit einer Persönlichkeit zu besetzen, die von der Union vorgeschlagen wurde. Denn seit langer Zeit wurden die Präsidenten des Bundesverwaltungsgerichts von der SPD vorgeschlagen. Aus nachvollziehbaren Gründen konnte es erst in diesem Jahr zu dem gewünschten Farbenwechsel kommen. Das Medium des Wechsels war zur Erhaltung des Parteienproporzes natürlich wieder ein Tauschgeschäft.

Oder: Der Richter des Bundesverfassungsgerichts Gerhard ist kürzlich aus seinem Amt ausgeschieden. Sein Richterstuhl war ein Berufsrichterstuhl, den die SPD besetzen darf. Würde man den Grundsatz der Bestenauslese unterstellen, müsste man zugestehen, der Kollege, den die SPD nun als Nachfolger vorgeschlagen hat, sei nur der Beste der SPD-Kandidaten. Ob er der Beste aller möglichen Kandidaten ist, bleibt offen. Also wieder ein Beispiel dafür, dass der Parteienproporz ebenso wie der Länderproporz den Grundsatz der Bestenauslese zumindest relativiert. Der Kollege Maidowski, der auf Vorschlag der SPD zum Verfassungsrichter gewählt wurde, ist allerdings – aus meiner persönlichen Kenntnis – eine absolut vortreffliche Wahl.

Dennoch: Man kann das Blatt drehen, wie man möchte: Die Auswahl der Kandidaten für herausgehobene Richterpositionen ist eine politische Entscheidung. Das Amt bekommt der, der von denjenigen geliebt wird, die den Trumpf ausspielen dürfen. Daher macht es summa summarum auch keinen Unterschied, ob ein parlamentarischer Wahlausschuss beteiligt ist oder ob die politische Exekutive allein entscheidet. Denn der Deal der Parteien muss eingehalten werden.

Ich denke, dass das auch eine sachliche Berechtigung hat. Denn im föderalen System unterwerfen sich die Länder der Rechtskontrolle der obersten Gerichte des Bundes. Da deren Entscheidungen die Rechtsprechung der Landesgerichte beeinflussen, ist der Länderproporz eine praktikable Lösungsmöglichkeit. Letztlich gilt dies auch für den Parteienproporz, womit politische Auswahlentscheidungen zumindest proportional ausgeglichen werden. Die politischen Parteien akzeptieren diese Staatspraxis in aller Regel. Als die SPD auf Vorschlag ihrer damaligen Obfrau Däubler-Gmelin im Richterwahlausschuss in den späten 90er Jahren aus der Verabredungspraxis ausscherte, kam es mit dem Kabinett Kohl zu massiven Verwerfungen, die der Sache sehr geschadet haben.

Kommen wir – abschließend – aus den Höhen der obersten Bundesgerichte zurück auf den verwaltungsgerichtlichen Alltag:

Im Gegensatz zu früher wird heute häufig von der dienstrechtlichen Konkurrentenklage Gebrauch gemacht, sodass Ämterpatronage und Nepotismus Gefahr laufen, entdeckt zu werden. Das ist ein großer Fortschritt. Dass das Bundesverwaltungsgericht, bestärkt durch das Bundesverfassungsgericht, den Grundsatz der Bestenauslese ernst nimmt, zeigt mein letztes Beispiel, mit dem ich meinen Beitrag beenden will:

Der Präsident des Oberlandesgerichts Koblenz wird auf dem Ticket der SPD Justizminister in Rheinland-Pfalz. Er ist bemüht, einen Kollegen, den Präsidenten eines Eingangsgerichts, zu seinem Nachfolger im Oberlandesgericht zu machen. Dieser bewirbt sich; ein anderer dummerweise auch. Es kommt zu einer Konkurrentenklage, die der Favorit des Ministers in zwei Instanzen im Eilverfahren gewinnt. Der Unterlegene kündigt sofort an, Verfassungsbeschwerde zu erheben. Dem will der Minister zuvor kommen. Er bestellt seinen Favoriten kurzer Hand ins Ministerium, um ihm die Ernennungsurkunde auszuhändigen und so die Ernennung in trockene dienstrechtliche Tücher zu bringen. Die Aushändigung der Urkunde erfolgte bereits eine halbe Stunde nach dem Eintreffen des Eilbeschlusses des Oberverwaltungsgerichts im Justizministerium.

Das Bundesverwaltungsgericht, das einige Zeit später über die Hauptsacheklage auf Durchführung eines neuen Auswahlverfahrens zu entscheiden hatte, hob die bisherige Auswahlentscheidung auf, verpflichtete das beklagte Land, die Ernennung des siegreichen Ministerfavoriten zum Präsidenten des Oberlandesgerichts rückgängig zu machen und ein neues Auswahlverfahren durchzuführen.(18)

Sie sehen, liebe Kolleginnen und Kollegen, dass in diesem Fall wegen eines verfassungsrechtlich unverfrorenen Verhaltens eines Landesministers nur Scherben übrig geblieben sind. Aber der Rechtsstaat hat gesiegt. Darauf kommt es an.

Was bleibt mir als Schlusssatz? Ich beschränke mich auf die hintersinnige dritte Strophe eines Gedichts von Matthias Claudius aus dem 18. Jahrhundert:

„Seht Ihr den Mond dort stehen? Er ist nur halb zu sehen und ist doch rund und schön. So sind wohl manche Sachen, die wir getrost belachen, weil unsere Augen sie nicht sehen.“

Relazione francese del dott. Pierre Vincent – Potsdam – 10/10/2014

Le rôle des juges administratifs et l’influence du politique sur leur activité, leur fonction, leur nomination et leur promotion.

 Un sujet difficile, qu’il est certainement plus aisé d’évoquer hors du territoire national pour ne pas être soupçonné de complaisance envers les pratiques de son propre pays.

Nous nous félicitons de notre indépendance, parfois durement acquise, mais nous ne sommes pas dans une tour d’ivoire.

Si la justice administrative, dont toutes les décisions ne concernent pas nécessairement des instances politiques ou administratives, ne s’intéresse pas à la politique en tant qu’institution, les juges que nous sommes, s’ils doivent laisser leurs convictions politiques aux vestiaires lorsqu’ils sont dans l’exercice de leurs fonctions, n’en sont pas moins des citoyens jouissant de tous leurs droits et qui les exercent sans autre restriction de portée générale que le devoir de réserve qu’il leur appartient d’observer.

En revanche, de l’autre côté du prétoire, les politiques s’intéressent à la justice. Le juge administratif a une influence sur le politique de par les décisions qu’il rend, au premier rang desquelles l’annulation des actes administratifs individuels ou réglementaires émanant de la plus modeste autorité municipale jusqu’aux décrets délibérés en conseil des ministres, ou de par les condamnations pécuniaires ou les injonctions de faire qu’il prononce. Il est le juge naturel du pouvoir exécutif national et local. Pour ne parler que de la juridiction administrative, quel maire pourrait rester indifférent au sort de ses projets urbanistiques ou environnementaux ? Au minimum et dans le meilleur des cas, il s’assurera en amont de la régularité juridique de ses actes. Au pire, si nos contrées occidentales ne sont heureusement plus de celles où le politique exerce des pressions sur la justice pour rendre des décisions qui lui soient favorables, du moins il n’entendra pas respecter les décisions de justice ou les appliquera imparfaitement, et ce intentionnellement.

Et la France dans ce contexte ?

Je dirais qu’une apparente proximité, historique et quasi institutionnelle, de la justice administrative avec le pouvoir politique, qui frappe certains observateurs étrangers, ne fait pas obstacle à une réelle indépendance du juge par rapport au politique dans un respect réciproque des rôles de chacun.

 

I Une apparente proximité du pouvoir politique

 

Tout d’abord, une précision d’importance : En France, comme en Italie, mais  plus nettement que celle-ci, et contrairement à l’Allemagne, la juridiction administrative est composée de deux organes bien distincts : Le Conseil d’Etat, auquel l’histoire et les attributions confèrent une place à part dans ses rapports avec le politique, d’une  part, les cours administratives d’appel (CAA) et les tribunaux administratifs (TA), d’autre part.

Le Conseil d’Etat est d’origine beaucoup plus ancienne que les tribunaux et les cours et demeure une institution majeure dotée d’une forte identité dans le paysage institutionnel français et d’une influence considérable. Je parlerai donc plus du Conseil d’Etat que des cours et des tribunaux. Lorsque je parlerai indistinctement de juges administratifs ou de juridiction administrative, je viserai à la fois les membres des tribunaux administratifs et des cours administratives d’appel et les membres du Conseil d’Etat, ces derniers étant organisés en un corps distinct et doté d’un échelonnement indiciaire supérieur à celui des membres des tribunaux et des cours.

Il est significatif que les membres du Conseil d’Etat n’aient pas la qualité de magistrat, que les membres des TA et des CAA n’ont d’ailleurs acquise que récemment, par une loi du 12 mars 2012.Contrairement aux magistrats judiciaires, dont le statut est fixé par la loi depuis 1958, les juges administratifs relevaient auparavant exclusivement du statut général de la fonction publique, sous réserve de quelques règles spécifiques les concernant. Au surplus, si les membres des tribunaux et des cours se sont vu reconnaître l’inamovibilité depuis 1986, simultanément à leur rattachement au ministère de la justice et non plus au ministère de l’intérieur, les membres du Conseil d’Etat ne bénéficient pas officiellement de l’inamovibilité, qui leur est toutefois garantie par une pratique séculaire.

Cette proximité apparente avec le pouvoir politique est d’abord un legs de l’histoire

 

En France, la juridiction administrative ne s’est pas constituée indépendamment du pouvoir politique et pour constituer un contrepoids à celui-ci, mais en est au contraire issu.

En effet, ayant constaté combien l’action novatrice des ministres de Louis XV et Louis XVI était freinée par les Parlements régionaux, cad les cours judiciaires souveraines du royaume, qui avaient le pouvoir de refuser d’enregistrer les édits et ordonnances royales et s’opposaient souvent à la levée de l’impôt ou à la construction d’un ouvrage public à la demande de quelques mécontents soucieux de conserver leurs privilèges, l’assemblée constituante issue de la révolution de 1789 a fait en sorte d’écarter les tribunaux des litiges impliquant les activités administratives ou celles des administrateurs en tant que tels et a posé à cet effet le principe de séparation des autorités administratives et judiciaires. La loi des 16-24 août 1790 sur l’organisation judiciaire, toujours en vigueur, dispose en son article 13 que « les fonctions judiciaires sont distinctes et demeureront toujours séparées des fonctions administratives .Les juges ne pourront, à peine de forfaiture, troubler de quelque manière que ce soit les opérations des corps administratifs ni citer devant eux les administrateurs pour raison de leur fonction ».

Pour trouver un habillage conceptuel à cette volonté politique déterminante, les révolutionnaires ont fait appel à la séparation des pouvoirs, mais il est vrai à une conception bien originale de celle-ci, à savoir que si l’on permettait aux tribunaux de statuer sur les litiges dans lesquels l’administration est impliquée, on  placerait le pouvoir politique sous le contrôle du pouvoir judiciaire qui s’immiscerait ainsi dans les attributions du pouvoir exécutif.

Cette déduction est discutable, à preuve que des pays qui pratiquent une véritable séparation des pouvoirs, tels que les Etats Unis, n’ont pas tiré cette conséquence, les litiges opposant le président ou les gouverneurs des Etats aux particuliers y étant jugés par les tribunaux ordinaires.

Mais cette conception originale de la séparation des pouvoirs est reconnue et assumée :

En 1987, le Conseil constitutionnel, dans une décision « Conseil de la concurrence », a fait appel à la « conception française de la séparation des pouvoirs » pour estimer qu’est au nombre des « principes fondamentaux reconnus par les lois de la République » celui selon lequel « relève en dernier ressort de la compétence de la juridiction administrative l’annulation ou la réformation des décisions prises par les autorités administratives dans l’exercice de leurs prérogatives de puissance publique ».

Il ne m’appartient pas ici de retracer l’évolution qui a conduit à la situation actuelle, en passant d’une première étape de « justice retenue »par laquelle le Conseil d’Etat créé en l’an VIII(1799) avait pour mission de préparer la solution des litiges qui étaient tranchés par le pouvoir exécutif, à une seconde étape que nous qualifions « justice déléguée », instituée définitivement en 1872, le Conseil d’Etat statuant désormais au nom du peuple français.

Il convient simplement de rappeler que le juge administratif est issu du pouvoir politique et s’est constitué en opposition à la justice ordinaire (judiciaire).

Cette proximité résulte ensuite de l’exercice même de fonctions consultatives par le Conseil d’Etat, et, dans une bien moindre mesure, par les membres des TA-CAA.

Le Conseil d’Etat est consulté obligatoirement sur tous les projets de loi déposés par le gouvernement. Plus récemment, il a été prévu que le président d’une assemblée parlementaire peut soumettre pour avis au Conseil d’Etat, avant son examen en commission, une proposition de loi déposée par un parlementaire, sauf si celui-ci s’y oppose.

Le Conseil d’Etat est également obligatoirement consulté sur les projets de décrets dits « en Conseil d’Etat » (cad ceux pour lesquels la loi ou un autre décret le prévoit, auquel cas l’on emploie la formule « Le Conseil d’Etat entendu » et, facultativement, sur ceux pour lesquels le gouvernement le souhaite, auquel cas l’on emploie la formule « après avis du Conseil  d’Etat ».Selon la tradition, ceci concerne notamment les décrets pris en conseil des ministres.

Tout membre du Conseil d’Etat ayant au moins trois ans d’ancienneté dans ses fonctions est simultanément membre d’une section administrative du Conseil d’Etat, lesquelles sont consultées par le gouvernement ou le parlement du point de vue de la régularité juridique des actes. Ceci crée indéniablement une grande proximité avec le gouvernement ou, pour le moins, avec les dirigeants des administrations centrales nommés par le gouvernement, lesquels sont eux-mêmes très souvent des membres du Conseil d’Etat.

Il convient également de noter que, en dehors de ces fonctions consultatives régies par la loi, de nombreux membres du Conseil d’Etat exercent, à temps partiel et temporairement, des fonctions de conseiller auprès des grands ministères, leur fonction étant de s’assurer en amont de la conformité des textes préparés par ces administrations aux dispositions de droit de rang supérieur, voire de préparer un ensemble de décrets consécutivement au vote d’une loi.

A l’inverse, les TA et CAA n’exercent pratiquement pas de fonctions consultatives auprès des autorités locales. La loi le prévoit certes, mais elles conservent un caractère quasi confidentiel. Les préfets de région peuvent ainsi soumettre une question pour avis aux CAA et les préfets de département aux TA.

Cette pratique est d’autant plus restreinte que les tribunaux et les cours refusent par principe de se prononcer lorsque les questions dont ils sont saisis donnent lieu à un contentieux et sur celles dont la réponse conditionnera l’introduction d’un contentieux. Ainsi le préfet ne pourra-t-il pas, dans l’exercice du contrôle de légalité de certains actes des collectivités territoriales qu’il lui appartient d’exercer, demander à un tribunal ou à une cour si telle délibération d’un conseil municipal ou départemental est légale ou non.

Le pouvoir politique conserve un rôle déterminant dans la nomination et la carrière des juges, à des degrés toutefois très divers

Comme tous les fonctionnaires recrutés par la voie de l’Ecole nationale d’administration (ENA), les juges administratifs sont nommés par le président de la République. Cette pratique a pour seul objet d’attester de l’importance de ces fonctions, sans que le pouvoir politique interfère en rien dans cette nomination.

En revanche, le pouvoir politique est directement impliqué dans le processus de nomination de trois catégories de membres du Conseil d’Etat :

-tout membre du Conseil d’Etat ayant l’ancienneté requise pour parvenir au grade de conseiller d’Etat (il y a trois grades : auditeur, maître des requêtes et conseiller d’Etat) est nommé à ce grade en conseil des ministres.

-il en est a fortiori de même pour l’accès aux plus hautes fonctions au sein du Conseil d’Etat : vice-président et présidents de section.

– nominations au « tour extérieur » : Un poste vacant de conseiller d’Etat sur trois et un poste vacant de maître des  requêtes sur quatre est pourvu par le gouvernement. Les maîtres des requêtes ainsi nommés sont nécessairement des fonctionnaires ayant au moins 10 ans d’activité en cette qualité. En revanche, peut être nommé conseiller d’Etat au tour extérieur toute personne sans autre condition que d’âge (au moins 45 ans).

L’exercice éventuel d’un mandat politique par les membres du Conseil d’Etat ou des cours et tribunaux est enfin facilité par certaines dispositions statutaires

 

Tout d’abord, contrairement à certains pays européens et non des moindres, les juges administratifs jouissent de l’intégralité de leurs droits civils et politiques. Ils se voient reconnaître la liberté d’opinion, comme tous les fonctionnaires, et peuvent notamment adhérer sans restriction à un parti politique, à un syndicat ou à une association. Sous réserve de rares inéligibilités et incompatibilités, un juge administratif peut notamment être candidat à tout mandat électif.

Les magistrats administratifs ne s’en privent pas et leur statut ne prévoit que très peu de cas d’inéligibilité ou d’incompatibilité de leurs fonctions avec l’exercice simultané d’un mandat politique :

Les magistrats du corps des TA-CAA ne peuvent ainsi être élus dans le ressort de la juridiction où ils exercent ou ont exercé depuis moins de six mois. Cette règle de bon sens préserve en revanche la possibilité d’une élection en dehors du ressort du tribunal, qui peut être très restreint, notamment en région parisienne. A l’inverse, ne peuvent être nommés dans le ressort correspondant d’un tribunal ou d’une cour les magistrats qui ont exercé depuis moins de trois ans dans ce ressort des fonctions publiques électives ou de hautes responsabilités administratives telles que préfet.

Ne sont par ailleurs incompatibles avec l’exercice des fonctions de membre du corps des TA-CAA que les fonctions de président d’un conseil régional ou d’un conseil départemental, fonctions dont l’importance nécessiterait de toute façon que leurs titulaires soient déchargés de toute obligation professionnelle. Comme pour toute fonction publique non élective, sont également incompatibles avec l’exercice des fonctions de membre de la juridiction administrative le mandat de député, de sénateur ou de représentant au parlement européen, dont l’importance exclurait de toute façon tout exercice simultané des fonctions de magistrat  .Ceci n’empêche pas que des magistrats puissent accéder à ces fonctions, mais ils y seront alors détachés pour les exercer à temps complet.

Surtout, ce que remarquent à juste titre nombre d’observateurs étrangers, des dispositions statutaires, certes applicables à l’ensemble des fonctionnaires et non aux seuls juges administratifs, mais dont ceux-ci bénéficient au premier chef eu égard à l’aptitude particulière à l’exercice d’un mandat politique que leur confèrent leur travail quotidien de juge, leur permettent de concilier très aisément leur qualité de juge et l’exercice d’un mandat politique ,et ce grâce à deux  mécanismes :Le détachement et la disponibilité :

Le détachement est la position du fonctionnaire qui, placé hors de son corps d’origine, continue à y bénéficier de ses droits à l’avancement et à la retraite : utilisé par les juges administratifs pour être affectés dans d’autres corps également recrutés par la voie de l’ENA ou de niveau équivalent (magistrats judiciaires, sous-préfets, administrateurs civils, diplomates.(NB : Le corps des TA-CAA accueille réciproquement de nombreux fonctionnaires détachés de leur administration d’origine tels qu’administrateurs civils, magistrats judiciaires, professeurs et maîtres de conférence des Universités, directeurs d’hôpitaux ou directeurs de grandes collectivités territoriales), le détachement est expressément prévu pour exercer les fonctions de membre du gouvernement ou toute fonction publique élective, et ce sans limitation de durée. Il est en effet prévu pour une durée de 5 ans mais peut être renouvelé indéfiniment. Toutefois, par dérogation à la règle générale rappelée ci-dessus, le détachement en vue de l’exercice d’une fonction élective ou de membre du gouvernement ne donne pas droit à avancement dans le corps d’origine.

Nombre de membres du Conseil d’Etat ont accédé aux plus hautes fonctions, et ce particulièrement sous l’actuelle 5ème République : un président de la République, G.Pompidou, et plusieurs Premiers ministres : M.Debré, le même G.Pompidou, L.Fabius et E.Balladur. Ils sont par ailleurs très présents dans les postes de haute responsabilité de conseillers politiques du Président  de la République et du Premier ministre, tels que secrétaire général de l’Elysée ou directeur de cabinet du Premier ministre.

Les membres des TA-CAA ne sont pas en reste : L’actuel gouvernement comporte deux ministres issus de ses rangs, détachés de ce corps depuis plusieurs dizaines d’années et n’y ayant pratiquement jamais exercé leurs fonctions, et un jeune secrétaire d’Etat, qui vient d’être nommé à ces fonctions et était auparavant député.

La disponibilité est la position du fonctionnaire qui, placé hors de son corps d’origine, cesse de bénéficier de ses droits à l’avancement et à la retraite.

Elle est notamment de droit lorsqu’un fonctionnaire cesse temporairement l’exercice de ses fonctions pendant le temps d’une campagne électorale.

II Une réelle indépendance du juge par rapport au politique

 

Une prise en compte très limitée de considérations politiques dans le processus de nomination et de promotion des juges

 

Les nominations et promotions sont effectuées par décret du Président de la République, tant pour les membres du corps des TA-CAA que pour le Conseil d’Etat, mais selon des procédures très différentes.

Pour les TA et CAA, le processus intervient en deux temps :

Un décret du Président de la République arrête tout d’abord le tableau d’avancement aux grade de premier conseiller (essentiellement sur la base de l’ancienneté d’exercice des fonctions) et au grade de président (selon des critères prenant en compte simultanément l’ancienneté et le mérite) et, au sein du grade de président, la liste d’aptitude aux fonctions de président de tribunal et de président de chambre en cour ,et plus récemment de premier vice-président de cour et de certains grands tribunaux(avec un rôle prépondérant accordé au mérite).

Dans un second temps, intervient un nouveau décret du Président de la République, pris sur rapport du Premier ministre et du garde des sceaux, ministre de  la justice, qui nomme aux emplois que briguaient les magistrats figurant sur ces tableaux d’avancement et listes d’aptitude.

Le point commun de ce processus en deux temps est l’intervention du Conseil supérieur des tribunaux administratifs et des cours administratives d’appel(CSTA).

Le premier décret est pris « sur proposition du CSTA » et le second « après avis du CSTA ».Il n’est pas d’exemple que les propositions du CSTA et l’avis de ce dernier n’aient pas été suivis.

 Le pouvoir politique ne pourrait donc exercer une éventuelle influence sur les promotions des juges que s’il était en mesure de peser sur les avis du conseil supérieur, ce qui est tout à fait impossible, compte tenu de sa composition (cinq membres représentant l’administration, dont trois issus du Conseil d’Etat, cinq représentants élus par les magistrats, et trois personnalités extérieures). Ces trois personnalités sont certes nommées respectivement par le président de la République et les présidents de chacune des deux assemblées parlementaires, comme pour le Conseil constitutionnel, mais elles ne doivent pas exercer de mandat politique. Jamais ces représentants ne proposent tel ou tel magistrat pour un avancement, et leur présence constitue uniquement un gage de transparence du Conseil supérieur par rapport à l’opinion publique.

Les tableaux d’avancement et listes d’aptitude sont préparés par le secrétaire général du Conseil d’Etat sur la base des propositions des chefs de juridiction, et, pour les postes de chef de juridiction, par la mission d’inspection des TA-CAA, sans aucune influence du pouvoir politique.

Dans une moindre mesure que les concours de recrutement (Ecole nationale d’administration et recrutement direct), des agents publics peuvent accéder au corps des TA-CAA par voie de détachement et par le biais du « tour extérieur ». Le pouvoir politique ne peut en rien influer sur ces nominations, qui interviennent également après avis du CSTA,

Pour le Conseil d’Etat, il faut distinguer entre les promotions internes et le tour extérieur :

Les promotions internes aux grades de maître des requêtes et de conseiller d’Etat sont régies exclusivement à l’ancienneté, et ce alors même que la nomination des conseillers d’Etat est prise par décret en conseil des ministres.

Les promotions aux fonctions les plus élevées réservées aux conseillers d’Etat (présidents de section et vice-présidents de la section du contentieux) interviennent en fait selon un processus purement interne, que le décret du président de la République ne fait qu’avaliser : le vice-président du Conseil d’Etat propose trois noms pour chaque poste, mais la tradition veut que le président de la République choisisse toujours celui figurant en premier sur la liste.

Quant au vice-président du Conseil d’Etat, qui en assure la présidence, ce poste est occupé par une personnalité de très haut niveau, toujours connue des cercles gouvernementaux de par les fonctions qu’elle a exercées antérieurement. Le poids du politique est ici, bien sûr, prépondérant, mais le choix se porte toujours sur une personnalité reconnue dépasser les clivages politiques. Il est significatif à cet égard de noter que l’actuel vice-président du Conseil d’Etat ainsi que ses deux prédécesseurs exerçaient, juste avant leur nomination, les fonctions de secrétaire général du gouvernement, cad de chef des services du Premier ministre, qui a en charge de préparer les projets de loi et de décret et siège en cette qualité au conseil des ministres.

Le tour extérieur aux grades de maître des requêtes et de conseiller d’Etat est (hormis  le tour extérieur réservé aux membres du corps des TA-CAA, qui suit un processus identique à celui des promotions au sein de ce corps) le seul pour lequel les propositions appartiennent au pouvoir politique. Et, de fait, il est tentant pour le gouvernement de proposer à ces nominations, non seulement des hauts fonctionnaires (directeurs d’administration centrale, préfets, ambassadeurs…) qui ont fait preuve de leurs capacités et pour lesquels l’accès au Conseil d’Etat est une consécration naturelle de leur talent, mais également des collaborateurs issus de leur cabinet, à profil plus politique et n’ayant donc pas toujours les compétences requises. Il existe toutefois un contrepoids très important à ce pouvoir : L’avis obligatoire du vice-président du Conseil d’Etat, institué depuis 1994, avis dont le sens est publié au Journal officiel.

Bien entendu, les ministres s’assurent auparavant que leur candidat recevra un accueil favorable de la part du Conseil d’Etat, car aucun d’entre eux ne courrait le risque d’un avis négatif, qui entacherait à jamais la réputation de la personne en cause. Et si jamais-ce qui est théoriquement possible-la nomination était prononcée nonobstant un avis défavorable, le fait que cet avis soit public rendrait en pratique très difficile la situation de la personne qui serait ainsi nommée.

Il arrive également que des personnalités connues- souvent d’anciens ministres-soient nommées membres du Conseil d’Etat.

Certaines d’entre elles, dûment informées qu’elles ne pourront en aucun cas jouir d’un quelconque privilège ou avantage lié à leurs fonctions antérieures, seront très vite acceptées par la « maison ».D’autres, en revanche, qui conçoivent leur nomination comme une parenthèse en l’attente d’un accès à d’autres responsabilités politiques, la quitteront dès que l’opportunité se présentera.

 

Un apolitisme réel au quotidien :

Une influence nulle du politique sur le processus de décision.

Le Conseil constitutionnel a affirmé en 1980, soit à une époque où les tribunaux administratifs étaient encore gérés par le ministère de l’intérieur, au titre des « principes fondamentaux reconnus par les lois de la République » le principe, de valeur constitutionnelle, de l’indépendance des juridictions administratives « ainsi que le caractère spécifique de leurs fonctions, sur lesquelles ne peuvent empiéter ni le législateur, ni le gouvernement ».

C’est ce même principe d’indépendance de la juridiction administrative que le Conseil d’Etat considère (décision M.H..5 octobre 2005, n°281041) comme fondement des règles d’avancement des membres du Conseil d’Etat, lesquelles « excluent que la nomination d’un membre exerçant les fonctions de rapporteur au grade supérieur puisse prendre en compte les positions prises par celui-ci(au demeurant inconnues du public et des requérants)dans l’exercice de ses fonctions ».

Il existe par ailleurs et surtout une tradition réciproque bien ancrée de respect réciproque de la justice administrative et du pouvoir politique au plus haut niveau. Il faut remonter à 1983 pour voir mettre en cause publiquement l’objectivité du Conseil d’Etat par un parti politique associé au pouvoir, pour avoir annulé pour irrégularités l’élection de certains conseils municipaux après les élections municipales de 1983.Il est vrai que, tout au moins au niveau des apparences, cette critique n’était pas dépourvue de tout fondement, dès lors que l’un des arguments mis en avant était l’appartenance de deux commissaires du  gouvernement(aujourd’hui appelés « rapporteurs publics ») aux organes dirigeants d’un parti de l’opposition, situation qui ne se rencontrerait plus aujourd’hui .

Si les juges administratifs de base sont parfois vilipendés par les élus locaux pour des jugements qui leur déplaisent, il est rare qu’on leur reproche leur politisation. Et toute tentative de leur part d’influer sur le sens des décisions-notamment par appel téléphonique auprès du président ou contact informel avec un juge qu’ils connaissent-se retournerait vite contre son auteur.

Il y a eu parfois des tentatives plus sournoises d’influer sur le sens des décisions : Il y a une quinzaine d’années, un service préfectoral avait tenté-semble-t-il sans que le préfet lui-même en soit prévenu-de se procurer le tour de permanence des juges pour traiter en urgence les recours contre les arrêtés de reconduite à la frontière des étrangers en situation irrégulière, après avoir remarqué que certains juges étaient plus sensibles que d’autres aux arguments des requérants, ceci afin d’édicter leurs arrêtés à une date telle qu’un recours serait traité par un juge présumé être moins favorable à ces arguments. Une telle tentative a vite fait long feu et de telles pratiques, qui font sourire, relèvent plus de l’anecdote que de la réalité.

Afin de ne pas encourir le reproche récurrent de trop grande proximité du pouvoir politique que pourrait susciter la pratique de fonctions consultatives par le Conseil d’Etat et la double appartenance de la majorité des membres du Conseil d’Etat à une section administrative et à la section du contentieux, le Conseil d’Etat s’est par ailleurs attaché à définir de très strictes règles en interne :

C’est ainsi que, même si ce secret est par nature partagé avec le gouvernement ou les hauts fonctionnaires qui le représentent, le délibéré des sections administratives est secret, comme celui des formations contentieuses. Il recouvre le secret de leur ordre du jour, le secret du contenu des avis, tant que le gouvernement n’en a pas autorisé la divulgation, et le secret des opinions émises par chacun au cours des débats.

Lorsqu’un texte passé devant une section administrative voit sa légalité discutée au contentieux, les membres de la section du contentieux appelés à en connaître (qui ne peuvent en aucun cas avoir participé au délibéré de la section administrative le concernant) ne pourront pas prendre connaissance des avis de la section administrative s’ils n’ont pas été publiés, ni même accéder aux dossiers des sections administratives se rapportant à ces avis.

Une attitude quotidienne des juges éloignée des préoccupations politiques :

L’appartenance d’un juge à un parti politique, comme tout autre élément relatif à la vie privée de l’intéressé (appartenance à tel syndicat ou association..) ne figure pas dans leur dossier : demeurant inconnue de l’autorité hiérarchique, elle l’est a fortiori vis-à-vis de l’extérieur.

Il est en pratique mal vu pour un magistrat d’afficher ses opinions politiques devant ses collègues, ce qui contrevient à notre charte de déontologie.

La loi prévoit que tout membre du Conseil d’Etat doit s’abstenir de toute manifestation de nature politique incompatible avec  la réserve que lui imposent ses fonctions.

De même, il est un principe fondamental, réaffirmé par la charte de déontologie de la juridiction administrative, que nul ne peut se prévaloir de sa qualité professionnelle à l’appui de sa candidature à un mandat électif et, plus généralement, pour toute expression publique d’opinions à caractère politique.

La « charte de déontologie des membres de la juridiction administrative :principes et bonnes pratiques » ,document commun aux membres du Conseil d’Etat et des TA-CAA, élaborée en 2011, dispose en effet que « Les membres de la juridiction administrative exercent leurs fonctions avec impartialité et en toute indépendance .Ces principes fondamentaux exigent que chacun ,en toute occasion, se détermine librement, sans parti pris d’aucun sorte, ni volonté de favoriser telle partie ou tel intérêt particulier et sans céder à aucune pression ».

Plus précisément, elle dispose que les membres de la juridiction administrative « se conduisent de manière à préserver et à renforcer la confiance des administrés et des justiciables dans l’intégrité, l’impartialité et l’efficacité de la juridiction administrative ».

Elle a de même édicté cette recommandation, à l’endroit de ceux qui seraient au contraire trop timorés : « Ils font abstraction, dans l’exercice de leur mission, de tout préjugé, quelle qu’en soit la nature, et ne sont mus, dans leurs décisions, ni par la crainte, ni par l’espoir d’une conséquence sur leur carrière.. ».

Chacun est invité, pour prévenir les conflits d’intérêt, à avoir un entretien déontologique avec son supérieur lorsque, par leur nature ou leur intensité, les intérêts ou activités extérieurs du magistrat imposent(au-delà de la pratique du « déport » dans une affaire particulière) d’éviter que certains dossiers ne soient traités par ce magistrat afin que ne naisse aucun doute légitime, même du seul point de vue des apparences, sur son indépendance et son impartialité.

Un collège de déontologie, constitué de trois magistrats jouissant d’une considération unanime, dont un extérieur à la justice administrative, a été constitué pour éclairer, à leur demande, les membres de la juridiction administrative sur l’application de la charte dans un cas particulier.  Outre les réponses ponctuelles sur les cas dont il est saisi, il a notamment élaboré une recommandation générale (n°1-2013) concernant les candidatures des juges administratifs aux élections municipales, les précautions à prendre en période préélectorale et le traitement du contentieux électoral après les élections.

Une pratique d’activités  politiques par les magistrats bien plus modérée que les textes ne le permettent :

Statistiquement, le nombre de magistrats titulaires d’un mandat politique, déjà très faible, tend à décroître. Sur plus de 1200 membres du corps des TA-CAA, seuls quatre sont détachés en vue de l’exercice de responsabilités politiques à temps plein : deux ministres, un secrétaire d’Etat et un maire d’une commune importante.

Ce mouvement touche non seulement les fonctions publiques d’importance, qui nécessitent le détachement ou la mise en disponibilité du magistrat, mais surtout les fonctions moins importantes de maire d’une petite commune ou de conseiller municipal, qui demeurent théoriquement compatibles avec l’exercice de leurs fonctions. Au-delà de la modification du profil moyen des juges administratifs, dont la plupart n’ont maintenant aucune expérience administrative antérieure avant leur réussite aux concours d’entrée, l’élément fondamental qui explique cette évolution est l’accroissement continu de la charge de travail des magistrats, qui ne leur permet plus guère  de s’investir dans d’autres responsabilités.

Aucun bénéfice ne peut par ailleurs être tiré pour la carrière de l’exercice d’un mandat politique et réciproquement de l’appartenance  à la magistrature administrative pour l’exercice d’un mandat politique. L’exercice d’un mandat politique ne peut donc influer positivement sur le déroulement de la carrière. C’est même en pratique toujours le contraire.

Relazione italiana del pres. Francesco Mariuzzo – Potsdam – 10/10/2014

Il ruolo del giudice amministrativo e il suo rapporto con la grande politica

 

1 – Il tema del nostro convegno esige un breve riferimento all’origine storica della giustizia amministrativa italiana, che trova la sua premessa dapprima nella L. 20.3.1865, n. 2248, che ha affidato, da una parte, le controversie aventi a oggetto i diritti soggettivi alla giurisdizione del giudice ordinario e, dall’altra, ogni altra lite con la pubblica amministrazione a commissioni costituite al suo interno. Soltanto nel 1889 fu aggregata al Consiglio di Stato, organo di consulenza del Re, una IV Sezione, avente natura egualmente amministrativa, ma destinata a operare in una posizione di sostanziale autonomia e indipendenza. Nel 1907 il legislatore attribuì, poi, la natura giurisdizionale alla IV e alla neo costituita V Sezione; la creazione delle due Sezioni offriva ai ricorrenti la possibilità di ottenere una pronuncia di annullamento dei provvedimenti amministrativi impugnati, il che concretava peraltro un controllo di mera legittimità, ben lontano dall’accertamento della fondatezza o meno delle pretese avanzate nei processi contro la pubblica Amministrazione.

Nel 1948 il sistema ha trovato conferma negli artt. 100, 103 e 125 della Costituzione: con la prima norma il Consiglio di Stato è stato riconosciuto come organo di consulenza giuridica e amministrativa del Governo e di giustizia all’interno dell’Amministrazione; con la seconda norma, che figura nel titolo V che riguarda la magistratura ordinaria, è stata attribuita al Consiglio di Stato la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi e, in particolari materie, anche dei diritti soggettivi; con la terza norma è stata prevista l’istituzione di organi di giustizia di primo grado in ciascuna regione della Repubblica.

Nel nuovo quadro costituzionale introdotto dopo la caduta del fascismo il Consiglio di Stato ha dunque mantenuto la sua precedente posizione bifronte di consulente del Governo e di organo deputato all’esercizio della giurisdizione. L’esistenza di tali duplici funzioni ha dunque precluso la sua separazione dall’Amministrazione, il che suscita in dottrina ricorrenti dubbi sulla sua imparzialità, terzietà e autonomia nella gestione della giustizia.

Avendo il piacere di essere qui a Potsdam ricordo che, sin dalla seconda metà del 1800, la Prussia aveva costituito una Corte avente struttura e funzioni esclusivamente giurisdizionali del tutto analogamente a quanto era avvenuto nel Granducato del Baden e che, inoltre, la Costituzione adottata dopo la seconda guerra mondiale dalla Repubblica federale ha sottratto la magistratura amministrativa da ogni contatto con l’Amministrazione, proclamandone così la separazione da quest’ultima e dunque la sua indipendenza.

Con grande ritardo, che taluni riferiscono all’ostilità del Consiglio di Stato, il sistema è stato integrato nel 1974 in applicazione dell’art. 125 della Costituzione italiana con la creazione dei Tribunali amministrativi regionali, quali organi di primo grado; essi si differenziano dal Consiglio di Stato, essendo privi di funzioni consultive a favore delle Amministrazioni locali e operando conseguentemente in una posizione d’indipendenza e di terzietà.

2 – A questa breve premessa segue ora qualche cenno sulla posizione dei consiglieri di Stato e dei giudici dei tribunali amministrativi regionali.

Con il testo unico del 26.6.1924, n. 1054 i consiglieri di Stato, ivi compresi il Presidente del Consiglio e i Presidenti di sezione, erano nominati con decreto reale su proposta del Ministro dell’Interno dopo deliberazione del Consiglio dei Ministri; i posti per l’ingresso nella carriera erano conferiti ai vincitori di un concorso per titoli e per esami al quale potevano partecipare i pubblici funzionari che avessero la laurea in giurisprudenza. La promozione al grado immediatamente superiore avveniva con una valutazione della professionalità dei singoli giudici dopo due anni di servizio, previa proposta da parte del Consiglio di Presidenza composto dal presidente del Consiglio di Stato e dai presidenti di sezione.

La promozione a consigliere, a Presidente di sezione e a Presidente del Consiglio di Stato avveniva con applicazione della regola dell’anzianità di servizio. Tale sistema era giustificato dalla necessità di evitare ogni intervento da parte della politica in materia di promozioni: il che avviene tutt’oggi nonostante competa al Governo la formale competenza a sottoscrivere le proposte di promozione avanzate da parte del Consiglio di Presidenza.

Con la L. 6.12.1971, n. 1034 è stato previsto che i magistrati dei Tribunali amministrativi regionali fossero assunti tramite un concorso per titoli ed esami. La loro nomina al grado superiore avveniva dopo sei anni di servizio con una valutazione della professionalità dei singoli giudici per i 2/3 dei posti disponibili; per il residuo 1/3 la promozione avveniva per anzianità, previo giudizio d’idoneità, il che in tal caso significava che la carriera scorreva più lentamente. La successiva promozione a consiglieri di Tribunale amministrativo avveniva dopo ulteriori sei anni senza alcun giudizio sulla professionalità e secondo la regola dell’anzianità. In tale secondo passaggio scompare dunque ogni valutazione del merito dei singoli magistrati.

La prosecuzione della carriera per i consiglieri dei Tribunali poteva sin da allora proseguire in primo grado fino alla nomina a Presidente di Tribunale; in alternativa poteva essere richiesto il trasferimento al Consiglio di Stato nel limite di ¼ dei posti disponibili per i consiglieri dei Tribunali amministrativi con almeno quattro anni di servizio in tale qualifica; per questo trasferimento, al quale conseguiva l’assegnazione della qualifica di consigliere di Stato, era richiesto il parere positivo del Consiglio di presidenza dei tribunali amministrativi regionali, che ha costantemente applicato la regola dell’anzianità di servizio, egualmente con esclusione di ogni riscontro del merito.

In questo quadro è singolare notare che la legge del 1971 prevedeva un Consiglio di presidenza dei Tribunali amministrativi regionali distinto da quello già esistente e operativo per il Consiglio di Stato. Detto nuovo Consiglio istituito per i Tribunali amministrativi regionali si costituiva su base non elettiva e non era composto esclusivamente dai giudici di primo grado, ma dal presidente del Consiglio di Stato, dai due Presidenti di sezione del Consiglio di Stato più anziani, da due Presidenti di Tribunale amministrativo regionale e da quattro giudici amministrativi regionali estratti a sorte ogni due anni.

E’ da segnalare che per molti anni i presidenti dei tribunali amministrativi regionali erano esclusivamente consiglieri di Stato, il che significava che nel detto Consiglio la maggioranza era costantemente rappresentata dai rappresentanti del Consiglio di Stato.

La vista disciplina è mutata con l’entrata in vigore della L. 27.4.1982, n. 186, che ha abrogato il Consiglio di presidenza dei Tribunali amministrativi regionali e istituito un unico Consiglio composto, oltre che dal Presidente del Consiglio di Stato e dai due Presidenti di sezione più anziani, da quattro magistrati in servizio presso il Consiglio di Stato e da sei magistrati in servizio presso i tribunali amministrativi regionali: i primi erano eletti dai componenti del Consiglio di Stato e i secondi dai giudici dei Tribunali amministrativi regionali. Anche nel nuovo Consiglio persisteva comunque la maggioranza dei consiglieri di Stato.

Con la successiva L. 21.7.2000, n. 205 la composizione del Consiglio di presidenza è stata ulteriormente modificata: non sono stati più previsti i due Presidenti di sezione più anziani del Consiglio di Stato e sono stati introdotti nella precedente composizione quattro componenti eletti, due dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica; essi sono scelti tra i docenti universitari in materie giuridiche o fra gli avvocati con venti anni di esercizio dell’attività professionale. Con tale nuova composizione è venuta meno nel Consiglio di Presidenza l’esistenza di una precostituita maggioranza del consiglieri di Stato, essendo rimasto immutato il numero dei magistrati eletti in rappresentanza del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali.

Tra le funzioni del nuovo Consiglio figurano: 1) le assunzioni, l’assegnazione di sedi e di funzioni, i trasferimenti, le promozioni, il conferimento di funzioni direttive; 2) l’adozione di provvedimenti disciplinari riguardanti i magistrati; 3) il conferimento ai magistrati di incarichi estranei alle loro funzioni; 4) la dispensa per casi eccezionali e per motivate ragioni dall’obbligo di residenza stabile in un comune della regione, ove ha sede il tribunale dove è prestato il servizio.

Nell’esercizio di queste funzioni il Consiglio di presidenza ha assunto il ruolo di organo di autogoverno della magistratura amministrativa.

  1. a) Per quanto attiene alle promozioni nei Tribunali amministrativi la disciplina introdotta dalla richiamata legge del 1982 è assai più benevola rispetto a quella precedente, poiché il passaggio alle due qualifiche superiori in precedenza previste avviene ora dopo soli quattro anni di servizio per l’una e per l’altra. La promozione è accordata seguendo il ruolo di anzianità, restandone escluso soltanto quel magistrato per il quale sia stato accertato il demerito.

Può rilevarsi in proposito che, per l’adozione delle viste promozioni, è formalmente scomparsa nel quadro legislativo ogni valutazione del maggiore o minore merito dei singoli magistrati con un conseguente regresso rispetto a quanto stabilito dalla legge del 1971, che pur parzialmente la prevedeva; che, inoltre, nella prassi consolidatasi dal 1982 è scomparsa anche ogni ricerca dell’eventuale demerito, per cui le promozioni sono accordate seguendo semplicemente il ruolo di anzianità.

  1. b) Quanto alla composizione del Consiglio di Stato la riforma del 1982 ha duplicato i posti riservati ai consiglieri dei Tribunali amministrativi regionali, pari ora al 50% di quelli vacanti; detto passaggio è subordinato a un giudizio favorevole espresso dal Consiglio di presidenza in base alla valutazione dell’attività giurisdizionale svolta e dei titoli anche di carattere scientifico in possesso degli aspiranti al trasferimento, nonché dell’anzianità di servizio. Nella prassi, peraltro, anche l’acquisto della qualifica di consigliere di Stato avviene dal 1982 sulla base dell’anzianità di servizio, assente restando la valutazione prescritta dalla legge.

Il 25% dei posti disponibili è, poi, riservato alla nomina da parte del Presidente della Repubblica, che individua i nuovi consiglieri di Stato pressoché esclusivamente fra alti funzionari della pubblica Amministrazione; per tale designazione è previsto un parere da parte del Consiglio di presidenza sulla base dell’attività svolta e degli studi compiuti dai candidati.

Infine, il 25% dei posti disponibili è assegnato ai vincitori di un concorso pubblico per titoli ed esami, cui possono partecipare i magistrati amministrativi con almeno un anno di anzianità, i magistrati ordinari e contabili con almeno quattro anni di anzianità, nonché i funzionari della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e i dirigenti della pubblica Amministrazione in possesso della laurea di giurisprudenza. Al superamento del concorso i vincitori sono nominati direttamente consiglieri di Stato, essendo state soppresse le precedenti due qualifiche.

La possibilità di un ingresso diretto in Consiglio di Stato rende dunque manifesto che lo stesso mantiene un suo autonomo reclutamento; che le due magistrature del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali restano separate; che non è stato soddisfatto l’auspicio manifestato dal Legislatore nel 1982 di un generale riordino dell’ordinamento della giustizia amministrativa sulla base dell’unicità di accesso e di carriera.

3 – All’illustrazione dello stato giuridico dei magistrati amministrativi italiani non può che far seguito il quadro del trattamento economico, quale si è sviluppato con le L. 25.7.1966, n. 570 e 20.12.1973, n. 831, aventi a oggetto per la magistratura ordinaria la nomina a magistrato di Corte d’appello e a magistrato di Cassazione, che sono qualifiche alle quali sono equiparate quelle della magistratura amministrativa.

Con le viste leggi è stato previsto che gli aumenti della retribuzione fossero assegnati secondo la regola dell’anzianità di servizio e indipendentemente dal conferimento delle funzioni superiori. Tali leggi sono state adottate con una assai generosa lettura da parte del Legislatore dell’art. 107, 3° comma della Costituzione, che stabilisce che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità delle funzioni.

L’applicazione di queste leggi negli anni ha, tuttavia, prodotto una grave diseguaglianza nella magistratura, poiché la maggiore responsabilità dei giudici con funzioni superiori non ha trovato alcun riconoscimento sul piano economico.

Con successiva L. 6.8.1984, n. 425 la progressione economica della retribuzione è stata prevista in otto classi biennali del 6% da calcolare sulla retribuzione di ciascuna qualifica; dopo la maturazione delle dette classi gli aumenti sono previsti nella misura del 2,5°%; l’importo maturato nel tempo per le classi e per gli aumenti biennali della precedente qualifica si sommano, poi, alla retribuzione base di quella superiore.

Al fine di garantire l’autonomia della magistratura e sottrarre le associazioni delle magistrature ordinaria, amministrativa e contabile dall’onere di contrattare periodicamente con il Governo il nuovo trattamento economico la L. 19.2.1981, n. 27 ha previsto che le retribuzioni delle magistrature siano adeguate automaticamente ogni tre anni nella misura percentuale pari alla media degli incrementi realizzati nel triennio precedente dalle altre categorie dei pubblici dipendenti.

Tale previsione ha consentito un progressivo aumento delle retribuzioni dei magistrati in misura superiore a quelle dei pubblici dipendenti, poiché le dette percentuali sono state applicate su stipendi notevolmente maggiori.

A tale status retributivo si è costantemente correlata la possibilità di conseguire dal Governo incarichi retribuiti per l’assunzione di responsabilità nei gabinetti dei Ministri e negli Uffici legislativi, oltre a incarichi di natura diversa da parte di Enti pubblici. In tal caso il consigliere di Stato o di Tribunale amministrativo regionale poteva (e può tutt’oggi) essere esonerato dall’assolvere le funzioni di magistrato, conservando la propria retribuzione e sommando a questa il compenso corrisposto per lo svolgimento degli incarichi esterni.

Anche sotto questo profilo si tratta di vicende che mettono a stretto contatto i magistrati amministrativi con la grande politica, attivando, tuttavia, dubbi sull’esistenza di un’effettiva autonomia e indipendenza dei singoli giudici dopo il rientro nel Consiglio di Stato o nei Tribunali amministrativi regionali.

4 – Resta ora da svolgere qualche considerazione quanto al quadro nel quale opera la magistratura amministrativa di primo e di secondo grado.

Il sistema di autogoverno previsto nella Costituzione repubblicana esalta le garanzie d’indipendenza della magistratura ordinaria; tale disciplina ha indotto successivamente il Parlamento a riconoscere la stessa autonomia con due leggi successive sia alla magistratura amministrativa sia a quella contabile.

La scelta dell’autogoverno fondata sui valori della Costituzione ha totalmente separato le magistrature dal potere politico con riguardo alla loro gestione e a un sistema di controlli esterni, il che ha assunto il significato della rinuncia della politica all’esercizio della sua autonoma responsabilità, comportamento quest’ultimo che si è manifestato costantemente nel corso degli anni in occasioni nelle quali sono state omesse iniziative che sarebbero state al contrario doverose.

Di fronte a una separazione che si estende anche al trattamento retributivo c’è da chiedersi se siano state efficacemente difese l’autonomia e l’indipendenza delle magistrature, evitando contestualmente che la loro gestione si trasformasse in corporativismo.

Il sistema adottato nella Costituzione esprime il ripudio da parte dell’assemblea costituente della disciplina esistente nel periodo della dittatura fascista e la necessità di garantire dunque l’indipendenza della magistratura nei confronti del potere esecutivo; questo sistema è stato considerato un modello di qualità dal Comitato consultivo dei giudici europei del Consiglio d’Europa, ma ha fatto registrare nel tempo livelli di efficienza non in linea con gli standard internazionali di applicazione della legge e con il tasso di fiducia da parte dei cittadini e delle imprese nazionali ed estere che intendano effettuare degli investimenti in Italia; questo tasso è, infatti, inaspettatamente più basso rispetto a quello degli altri Paesi OCSE, essendo la durata media dei processi nettamente al di sopra della media europea.

E’ stato, al riguardo, osservato dalla dottrina che l’Italia appartiene alla classe di quei Paesi che hanno adottato un assetto istituzionale di autogoverno con l’obiettivo di massimizzare le garanzie d’indipendenza della magistratura, ma che nel contempo si situa fra i Paesi europei con il più basso indice di rule of law; il che non può essere certo imputato alle risorse destinate al settore della giustizia nel bilancio dello Stato, che sono comparabili con quelle degli altri Paesi europei.

La causa di questi risultati, che accomunano la giustizia civile, penale e amministrativa, è stata da tempo individuata dagli studiosi delle scienze politiche nella gestione prettamente corporativa dei magistrati da parte degli organi di autogoverno, che non esercitano con equilibrio ed efficienza le funzioni per le quali detti organi sono stati costituiti; essi omettono, infatti, di attribuire incentivi e di comminare sanzioni, di porre vincoli e prospettare opportunità con conseguente smarrimento della ricerca della professionalità dei singoli e con una progressiva perdita della qualità dell’attività giudiziaria e dell’efficienza sul piano organizzativo.

Il sistema delineato dalla Costituzione induce dunque malinconicamente a riconoscere che il modello astratto di autogoverno delle magistrature nel quale si sono riposte tante positive aspettative non ha raggiunto i potenziali obiettivi da perseguire, fruendo della piena autonomia dal potere politico; al contrario si è manifestato, come è stato ricordato dagli studiosi, uno sbilanciamento eccessivo in favore dell’indipendenza senza che ad essa abbiano corrisposto efficaci meccanismi di controllo organizzativo sulle strutture giudiziarie.

Per quanto riguarda il Consiglio superiore della magistratura, che è l’organo di governo della magistratura ordinaria, desta sorpresa che la politica che è stata cacciata dalla porta sia poi rientrata dalla finestra; i componenti eletti da parte dei magistrati sono, infatti, ormai da anni espressione di correnti manifestamente politiche che si sono formate nella magistratura e che spaziano dalla sinistra, al centro e alla destra; gli accordi fra le correnti sono determinanti per l’adozione delle più rilevanti delibere e, in particolare, per le promozioni alle funzioni superiori, che sono di frequente il risultato di una faticosa spartizione dei posti più importanti, essendo caduto il potere di veto da parte del Governo a seguito della sentenza 27.7.1992, n. 379 della Corte costituzionale. Anche la Corte ha percorso dunque il sentiero della difesa oltre ogni ragionevole ragione dell’autogoverno della magistratura, escludendo dunque anche per il futuro ogni possibile diniego di approvazione della scelta del candidato effettuata dal Consiglio superiore.

E’ ben noto in questa magistratura che, a fronte di una logica spartitoria, l’unica risorsa per quanti ne ricevano un pregiudizio è costituita dalla promozione di ricorsi davanti al Tribunale amministrativo del Lazio e al Consiglio di Stato, che di frequente annullano i provvedimenti adottati in sede di autogoverno, divenendo in tal modo i gestori finali di quelle nomine.

Sino a oggi all’opposto non sono fortunatamente apparse nel Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa correnti vicine all’uno o all’altro partito politico, ma due gruppi si contrastano duramente in questi ultimi anni per l’adozione della migliore strategia da seguire nei rapporti con il Governo e il Parlamento, uniti restando soltanto nella benevola gestione della magistratura.

Prima di passare in rassegna le cause del malfunzionamento della giustizia amministrativa occorre, tuttavia, ricordare che si contano sul territorio nazionale soltanto circa 460 magistrati, distribuiti tra il primo e il secondo grado, per il quale opera a Roma soltanto il Consiglio di Stato. La responsabilità per tali sconfortanti numeri e queste deficienze strutturali ricade dunque esclusivamente sul Governo e sul Parlamento, che non si sono fatti promotori di un congruo incremento dei magistrati amministrativi di fronte a un progressivo incremento dei ricorsi e di una diversa organizzazione della giurisdizione sul territorio nazionale.

Sotto quest’ultimo aspetto sarebbe stato sufficiente seguire l’esempio del Conseil d’Etat, che ancora negli anni ‘80 ha promosso l’istituzione di Corti amministrative d’appello interdipartimentali.

Pur a fronte di questi dati obiettivi non possono, tuttavia, essere dissimulate le autonome responsabilità del Consiglio di Presidenza, restando privo di risposta il perché quest’organo, che è responsabile del reclutamento, delle promozioni, del controllo disciplinare e della formazione dei magistrati, non abbia comunque adottato, pur nel fragile quadro organizzativo esistente, misure capaci di migliorare il servizio giudiziario e di aumentare la produttività del sistema sulla base della laboriosità, capacità, diligenza e preparazione dei singoli magistrati.

All’inesistente controllo di tali qualità si associano le direttive emesse dal Consiglio di Presidenza per il carico del lavoro, per il quale è stata lo scorso anno fissata, da una parte, la soglia massima di 20 udienze all’anno per ciascun magistrato, esonerando quindi la potestà dei presidenti di Tribunale e di Sezione di provvedere diversamente per contenere la durata dei processi; dall’altra, è stato deliberato che non possano essere assegnati a ciascun magistrato per ogni udienza più di sei ricorsi; e ciò del tutto indipendentemente dal “peso” specifico di ciascuno di essi.

Si tratta di misure che palesemente mortificano la capacità organizzativa dei responsabili degli uffici e aumentano l’arretrato dei Tribunali.

Il regime di autogoverno, che mostra tanta attenzione per la tutela dei magistrati e che trascura di perseguire la qualità, la tempestività e l’efficienza della giustizia, ha dunque alimentato negli anni una generalizzata autoreferenzialità della magistratura; è costantemente mancata, infatti, l’adozione di parametri obiettivi per l’individuazione del demerito dei singoli, quale obiettiva preclusione alla promozione alle qualifiche superiori nei Tribunali amministrativi regionali; non è stato ricercato il merito dei singoli aspiranti per l’affidamento dell’incarico di presidente di sezione di un Tribunale amministrativo; non è stata effettuata alcuna valutazione del merito per il transito dei consiglieri di Tribunale amministrativo regionale al Consiglio di Stato; è stata posta in essere un’eguale procedura per la nomina dei Presidenti di Sezione del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali.

La generalizzata inesistenza di una valutazione della professionalità di coloro che aspirano alle funzioni superiori manifesta dunque l’assenza di una corretta gestione delle promozioni: non appare, infatti, accettabile che, sotto la protezione dell’autonomia e dell’indipendenza, il Consiglio abbia indotto in tutti i magistrati amministrativi la generalizzata sicurezza per l’automatico conseguimento non soltanto di una retribuzione che aumenta progressivamente nel corso degli anni, ma anche di qualifiche superiori, restando ben lontano dall’individuare coloro che siano più meritevoli di altri e di quanti non lo siano affatto.

Sintomo di tale univoco atteggiamento appare anche la dispensa rilasciata a chiunque richieda di essere esonerato dall’obbligo di risiedere nella regione in cui ha sede il Tribunale, che per legge potrebbe essere accordata soltanto in casi eccezionali e per motivate ragioni: tale puntuale riscontro, infatti, non è mai avvenuto negli anni con una pesante ricaduta sull’organizzazione del servizio giudiziario nel territorio.

In tale deficiente quadro si associa, poi, la pressoché totale assenza di procedimenti disciplinari, la cui iniziativa spetta al Presidente del Consiglio di Stato o al Presidente del Consiglio dei Ministri.

Con il nuovo Governo in carica i rapporti con le magistrature sembrano ora destinati a cambiare, essendosi il Presidente del Consiglio più volte espresso in termini non elogiativi anche per i magistrati amministrativi; egli ha, infatti, annunciato l’esigenza di una prossima, radicale riforma della giustizia, che è stata da poco preceduta dall’anticipazione del termine per il collocamento in pensione dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili, che passa da 75 a 70 anni, alla quale si assocerà a breve la riduzione da 45 a 30 giorni del periodo delle ferie.

In attesa di un futuro oltremodo incerto pare dunque doversi concludere che l’autogoverno delle magistrature non abbia dato negli anni la prova di operare nell’interesse generale della collettività nazionale e che di ciò sia a piena conoscenza il Governo.

Resta dunque da auspicare che, nella riforma della giustizia di cui tanto si parla, la politica possa intervenire, difendendo da una parte l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma dall’altra salvaguardando la responsabilità del Governo di fronte al Parlamento, quale sede della sovranità popolare, con l’introduzione di efficaci controlli esterni per assicurare un efficiente servizio giudiziario: in tal caso resterebbe fermo, come ha ricordato in un recente scritto sulla magistratura Luciano Violante, il motto di Francis Bacon che, nella sua qualità di Attorney General e poi di Lord Chancellor, affermava che, nel rapporto fra giudici e politica, “i giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono”.

Grazie per l’attenzione di tutti.

Potsdam, 10.10 2014

                                          Francesco Mariuzzo